da “Il gatto che aggiustava i cuori” – RachelWells
Sentendo che mi chiamavano, è uscita dalla gattaiola e le ho spiegato la situazione.
«Non ti possono prendere?» ha domandato guardandomi con gli occhi tristi.
«No, dicono che hanno dei cani e, sai, anch’io non ho voglia di vivere con i cani.» Siamo rabbrividiti al pensiero.
«Chi lo vorrebbe?» ha detto.
«Non so cosa fare», mi sono lamentato cercando di non rimettermi a gridare. Mavis si è accoccolata contro il mio corpo. Fino a poco tempo prima non eravamo in intimi rapporti, ma era una gatta molto premurosa e le ero riconoscente per la sua amicizia.
«Alfie, non farti portare al gattile», ha detto. «Se non fossi vecchia e stanca, mi occuperei io di te. Poi la mia padrona non è molto più giovane di Margaret. Devi fare il gattino coraggioso e trovarti una nuova famiglia.» Ha strofinato con affetto il suo collo contro il mio.
«Ma come faccio?» ho domandato. Non mi ero mai sentito così smarrito e spaventato.
«Magari sapessi risponderti, pensa, però, che negli ultimi tempi hai imparato a tue spese quanto è fragile la vita, e sii forte.»
Abbiamo sfregato i nasi e ho capito che dovevo andarmene. Sono tornato un’ultima volta nella casa di Margaret per poterla ricordare prima di partire. Volevo un’immagine da serbare nella memoria e portare con me durante il viaggio. Speravo che potesse darmi forza. Ho guardato i ninnoli di Margaret, i suoi «tesori», come li chiamava lei. Ho guardato i quadri alla parete che conoscevo così bene. Ho guardato il tappeto, logoro lì dove l’avevo grattato quando ero troppo piccolo per usare il buonsenso. Io e quella casa eravamo una cosa sola. E adesso che ne sarebbe stato di me?
Avevo poco appetito, ma mi sono forzato a consumare il pasto che mi aveva servito Linda (dopo tutto, non sapevo quando avrei mangiato di nuovo) e ho lasciato vagare per l’ultima volta lo sguardo su quella che era stata la mia casa, che mi aveva sempre tenuto al caldo e al sicuro. Ho pensato alle lezioni che avevo imparato. Nei quattro anni che avevo vissuto lì, avevo afferrato parecchie cose sull’amore, e sulla perdita. In passato qualcuno si era preso cura di me, ma adesso non era più così. Mi sono ricordato il momento in cui ero arrivato lì da micetto. Mi sono ricordato che ad Agnes non ero piaciuto e mi aveva trattato come se fossi una minaccia. Mi sono ricordato che l’avevo tirata dalla mia parte e Margaret ci aveva sempre trattato come i gatti più importanti del mondo. Ho capito quanto ero stato fortunato; adesso, però, la fortuna era finita. Mentre rimpiangevo l’unico genere di vita che avessi conosciuto, ho sentito d’istinto che dovevo sopravvivere, ma non sapevo come. Mi sono preparato a fare un balzo nell’ignoto.
Traduzione di Elisabetta Valdrè
Sentendo che mi chiamavano, è uscita dalla gattaiola e le ho spiegato la situazione.
«Non ti possono prendere?» ha domandato guardandomi con gli occhi tristi.
«No, dicono che hanno dei cani e, sai, anch’io non ho voglia di vivere con i cani.» Siamo rabbrividiti al pensiero.
«Chi lo vorrebbe?» ha detto.
«Non so cosa fare», mi sono lamentato cercando di non rimettermi a gridare. Mavis si è accoccolata contro il mio corpo. Fino a poco tempo prima non eravamo in intimi rapporti, ma era una gatta molto premurosa e le ero riconoscente per la sua amicizia.
«Alfie, non farti portare al gattile», ha detto. «Se non fossi vecchia e stanca, mi occuperei io di te. Poi la mia padrona non è molto più giovane di Margaret. Devi fare il gattino coraggioso e trovarti una nuova famiglia.» Ha strofinato con affetto il suo collo contro il mio.
«Ma come faccio?» ho domandato. Non mi ero mai sentito così smarrito e spaventato.
«Magari sapessi risponderti, pensa, però, che negli ultimi tempi hai imparato a tue spese quanto è fragile la vita, e sii forte.»
Abbiamo sfregato i nasi e ho capito che dovevo andarmene. Sono tornato un’ultima volta nella casa di Margaret per poterla ricordare prima di partire. Volevo un’immagine da serbare nella memoria e portare con me durante il viaggio. Speravo che potesse darmi forza. Ho guardato i ninnoli di Margaret, i suoi «tesori», come li chiamava lei. Ho guardato i quadri alla parete che conoscevo così bene. Ho guardato il tappeto, logoro lì dove l’avevo grattato quando ero troppo piccolo per usare il buonsenso. Io e quella casa eravamo una cosa sola. E adesso che ne sarebbe stato di me?
Avevo poco appetito, ma mi sono forzato a consumare il pasto che mi aveva servito Linda (dopo tutto, non sapevo quando avrei mangiato di nuovo) e ho lasciato vagare per l’ultima volta lo sguardo su quella che era stata la mia casa, che mi aveva sempre tenuto al caldo e al sicuro. Ho pensato alle lezioni che avevo imparato. Nei quattro anni che avevo vissuto lì, avevo afferrato parecchie cose sull’amore, e sulla perdita. In passato qualcuno si era preso cura di me, ma adesso non era più così. Mi sono ricordato il momento in cui ero arrivato lì da micetto. Mi sono ricordato che ad Agnes non ero piaciuto e mi aveva trattato come se fossi una minaccia. Mi sono ricordato che l’avevo tirata dalla mia parte e Margaret ci aveva sempre trattato come i gatti più importanti del mondo. Ho capito quanto ero stato fortunato; adesso, però, la fortuna era finita. Mentre rimpiangevo l’unico genere di vita che avessi conosciuto, ho sentito d’istinto che dovevo sopravvivere, ma non sapevo come. Mi sono preparato a fare un balzo nell’ignoto.
Traduzione di Elisabetta Valdrè
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