da "Se una notte d'inverno un viaggiatore" - Italo Calvino
Il romanzo comincia in una stazione ferroviaria, sbuffa una locomotiva, uno sfiatare di stantuffo copre l'apertura del capitolo, una nuvola di fumo nasconde parte del primo capoverso.
Nell'odore di stazione passa una ventata d'odore di buffet della stazione. C'è qualcuno che sta guardando attraverso i vetri appannati, apre la porta a vetri del bar, tutto è nebbioso, anche dentro, come visto da occhi dì miope, oppure occhi irritati da granelli di carbone. Sono le pagine del libro a essere appannate come i vetri d'un vecchio treno, è sulle frasi che si posa la nuvola di fumo. E una sera piovosa; l'uomo entra nel bar; si sbottona il soprabito umido; una nuvola di vapore l'avvolge; un fischio parte lungo i binari a perdita d'occhio lucidi di pioggia.
Un fischio come di locomotiva e un getto di vapore si levano dalla macchina del caffè che il vecchio barista mette sotto pressione come lanciasse un segnale, o almeno così sembra dalla successione delle frasi del secondo capoverso, in cui i giocatori ai tavoli richiudono il ventaglio delle carte contro il petto e si voltano verso il nuovo venuto con una tripla torsione del collo, delle spalle e delle sedie, mentre gli avventori al banco sollevano le tazzine e soffiano sulla superfìcie del caffè a labbra e occhi socchiusi, o sorbono il colmo dei boccali dì birra con un'attenzione esagerata a non farli traboccare. II gatto inarca il dorso, la cassiera chiude il registratore di cassa che fa dlìn. Tutti questi segni convergono nell'informare che sì tratta d'una pìccola stazione di provincia, dove chi arriva è subito notato. Le stazioni si somigliano tutte; poco importa se le luci non riescono a rischiarare più in là del loro alone sbavato, tanto questo è un ambiente che tu conosci a memoria, con l'odore di treno che resta anche dopo che tutti i treni sono partiti, l'odore speciale delle stazioni dopo che è partito l'ultimo treno. Le luci della stazione e le frasi che stai leggendo sembra abbiano il compito di dissolvere più che di indicare le cose affioranti da un velo di buio e di nebbia. Io sono sbarcato in questa stazione stasera per la prima volta in vita mia e già mi sembra d'averci passato una vita, entrando e uscendo da questo bar, passando dall'odore della pensilina all'odore di segatura bagnata dei gabinetti, tutto mescolato in un unico odore che è quello dell'attesa, l'odore delle cabine telefoniche quando non resta che recuperare i gettoni perché il numero chiamato non dà segno di vita.
Io sono l'uomo che va e viene tra il bar e la cabina telefonica. Ossia; quell'uomo si chiama «io» e non sai altro di lui, così come questa stazione si chiama soltanto «stazione» e al di fuori di essa non esiste altro che il segnale senza risposta d'un telefono che suona in una stanza buia d'una città lontana. Riattacco il ricevitore, attendo lo scroscio di ferraglia giù per la gola metallica, ritorno a spingere la porta a vetri, a dirigermi verso le tazze ammucchiate ad asciugare in una nuvola di vapore.
Le macchine-espresso nei caffè delle stazioni ostentano una loro parentela con le locomotive, le macchine espresso dì ieri e di oggi con le locomotive e i locomotori di ieri e di oggi. Ho un bell'andare e venire, girare e dar volta: sono preso in trappola, in quella trappola atemporale che le stazioni tendono immancabilmente. Un pulviscolo di carbone ancora aleggia nell'aria delle stazioni dopo tanti anni che le linee sono state tutte elettrificate, e un romanzo che park di treni e stazioni non può non trasmettere quest'odore di fumo. E già da un paio di pagine che stai andando avanti a leggere e sarebbe ora che ti si dicesse chiaramente se questa a cui io sono sceso da un treno in ritardo è una stazione d'una volta o una stazione d'adesso; invece le frasi continuano a muoversi nell'indeterminato, nel grigio, in una specie di terra di nessuno dell'esperienza ridotta al minimo comune denominatore. Sta' attento: è certo un sistema per coinvolgerti a poco a poco, per catturarti nella vicenda senza che te ne renda conto: una trappola. O forse l'autore è ancora indeciso, come d'altronde anche tu lettore non sei ben sicuro di cosa ti farebbe più piacere leggere: se l'arrivo a una vecchia stazione che ti dia il senso d'un ritorno all'indietro, d'una rioccupazione dei tempi e dei luoghi perduti, oppure un balenare di luci e di suoni che ti dia il senso d'essere vivo oggi, nel modo in cui oggi si crede faccia piacere essere vivo. Questo bar (o «buffet della stazione» come viene pure chiamato) potrebbero esser stati i miei occhi, miopi o irritati, a vederlo sfocato e nebbioso mentre invece non è escluso che sia saturo di luce irradiata da tubi colore del lampo e riflessa da specchi in modo da colmare tutti gli anditi e gli interstizi, e lo spazio senza ombre straripi di musica a tutto volume che esplode da un vibrante apparecchio uccidi-silenzio, e i biliardini e gli altri giochi elettrici simulanti corse ippiche e cacce all'uomo siano tutti in azione, e ombre colorate nuotino nella trasparenza d'un televisore e in quella d'un acquario di pesci tropicali rallegrati da una corrente verticale di bollicine d'aria. E il mio braccio non regga una borsa a soffietto, gonfia e un po' logora, ma spinga una valigia quadrata di materia plastica rigida munita di piccole ruote, manovrabile con un bastone metallico cromato e pieghevole.
Tu lettore credevi che lì sotto la pensilina il mio sguardo si fosse appuntato sulle lancette traforate come alabarde d'un rotondo orologio di vecchia stazione, nel vano sforzo di farle girare all' indietro, dì percorrere a ritroso il cimitero delle ore passate stese esanimi nel loro pantheon circolare. Ma chi ti dice che i numeri dell'orologio non s'affaccino da sportelli rettangolari e io veda ogni minuto cadermi addosso di scatto come la lama d'una ghigliottina? Il risultato comunque non camberebbe molto: anche avanzando in un mondo levigato e scorrevole la mia mano contratta sul leggero timone della valigia a rotelle esprimerebbe pur sempre un rifiuto interiore, come se quel disinvolto bagaglio costituisse per me un peso ingrato ed estenuante.
Qualcosa mi dev'essere andata per storto: un disguido, un ritardo, una coincidenza perduta; forse arrivando avrei dovuto trovare un contatto, probabilmente in relazione a questa valigia che sembra preoccuparmi tanto, non è chiaro se per timore di perderla o perché non vedo l'ora di disfarmene. Quello che pare sicuro è che non è un bagaglio qualsiasi, da poterlo consegnare al deposito bagagli o far finta di dimenticarlo nella sala d'aspetto. E inutile che guardi l'orologio; se qualcuno era venuto ad aspettarmi ormai se n'è andato da un pezzo; è inutile che mi arrovelli nella smania di far girare all' indietro gli orologi e i calendari sperando di ritornare al momento precedente a quello In cui è successo qualcosa che non doveva succedere. Se in questa stazione dovevo incontrare qualcuno, che magari non aveva niente a che fare con questa stazione ma solo doveva scendere da un treno e ripartire su un altro treno, così come avrei dovuto fare io, e uno dei due doveva consegnare qualcosa all'altro, per esempio io dovevo affidare all'altro questa valigia a rotelle che invece è rimasta a me e mi brucia le mani, allora l'unica cosa da fare è cercare di ristabilire il contatto perduto.
Il romanzo comincia in una stazione ferroviaria, sbuffa una locomotiva, uno sfiatare di stantuffo copre l'apertura del capitolo, una nuvola di fumo nasconde parte del primo capoverso.
Nell'odore di stazione passa una ventata d'odore di buffet della stazione. C'è qualcuno che sta guardando attraverso i vetri appannati, apre la porta a vetri del bar, tutto è nebbioso, anche dentro, come visto da occhi dì miope, oppure occhi irritati da granelli di carbone. Sono le pagine del libro a essere appannate come i vetri d'un vecchio treno, è sulle frasi che si posa la nuvola di fumo. E una sera piovosa; l'uomo entra nel bar; si sbottona il soprabito umido; una nuvola di vapore l'avvolge; un fischio parte lungo i binari a perdita d'occhio lucidi di pioggia.
Un fischio come di locomotiva e un getto di vapore si levano dalla macchina del caffè che il vecchio barista mette sotto pressione come lanciasse un segnale, o almeno così sembra dalla successione delle frasi del secondo capoverso, in cui i giocatori ai tavoli richiudono il ventaglio delle carte contro il petto e si voltano verso il nuovo venuto con una tripla torsione del collo, delle spalle e delle sedie, mentre gli avventori al banco sollevano le tazzine e soffiano sulla superfìcie del caffè a labbra e occhi socchiusi, o sorbono il colmo dei boccali dì birra con un'attenzione esagerata a non farli traboccare. II gatto inarca il dorso, la cassiera chiude il registratore di cassa che fa dlìn. Tutti questi segni convergono nell'informare che sì tratta d'una pìccola stazione di provincia, dove chi arriva è subito notato. Le stazioni si somigliano tutte; poco importa se le luci non riescono a rischiarare più in là del loro alone sbavato, tanto questo è un ambiente che tu conosci a memoria, con l'odore di treno che resta anche dopo che tutti i treni sono partiti, l'odore speciale delle stazioni dopo che è partito l'ultimo treno. Le luci della stazione e le frasi che stai leggendo sembra abbiano il compito di dissolvere più che di indicare le cose affioranti da un velo di buio e di nebbia. Io sono sbarcato in questa stazione stasera per la prima volta in vita mia e già mi sembra d'averci passato una vita, entrando e uscendo da questo bar, passando dall'odore della pensilina all'odore di segatura bagnata dei gabinetti, tutto mescolato in un unico odore che è quello dell'attesa, l'odore delle cabine telefoniche quando non resta che recuperare i gettoni perché il numero chiamato non dà segno di vita.
Io sono l'uomo che va e viene tra il bar e la cabina telefonica. Ossia; quell'uomo si chiama «io» e non sai altro di lui, così come questa stazione si chiama soltanto «stazione» e al di fuori di essa non esiste altro che il segnale senza risposta d'un telefono che suona in una stanza buia d'una città lontana. Riattacco il ricevitore, attendo lo scroscio di ferraglia giù per la gola metallica, ritorno a spingere la porta a vetri, a dirigermi verso le tazze ammucchiate ad asciugare in una nuvola di vapore.
Le macchine-espresso nei caffè delle stazioni ostentano una loro parentela con le locomotive, le macchine espresso dì ieri e di oggi con le locomotive e i locomotori di ieri e di oggi. Ho un bell'andare e venire, girare e dar volta: sono preso in trappola, in quella trappola atemporale che le stazioni tendono immancabilmente. Un pulviscolo di carbone ancora aleggia nell'aria delle stazioni dopo tanti anni che le linee sono state tutte elettrificate, e un romanzo che park di treni e stazioni non può non trasmettere quest'odore di fumo. E già da un paio di pagine che stai andando avanti a leggere e sarebbe ora che ti si dicesse chiaramente se questa a cui io sono sceso da un treno in ritardo è una stazione d'una volta o una stazione d'adesso; invece le frasi continuano a muoversi nell'indeterminato, nel grigio, in una specie di terra di nessuno dell'esperienza ridotta al minimo comune denominatore. Sta' attento: è certo un sistema per coinvolgerti a poco a poco, per catturarti nella vicenda senza che te ne renda conto: una trappola. O forse l'autore è ancora indeciso, come d'altronde anche tu lettore non sei ben sicuro di cosa ti farebbe più piacere leggere: se l'arrivo a una vecchia stazione che ti dia il senso d'un ritorno all'indietro, d'una rioccupazione dei tempi e dei luoghi perduti, oppure un balenare di luci e di suoni che ti dia il senso d'essere vivo oggi, nel modo in cui oggi si crede faccia piacere essere vivo. Questo bar (o «buffet della stazione» come viene pure chiamato) potrebbero esser stati i miei occhi, miopi o irritati, a vederlo sfocato e nebbioso mentre invece non è escluso che sia saturo di luce irradiata da tubi colore del lampo e riflessa da specchi in modo da colmare tutti gli anditi e gli interstizi, e lo spazio senza ombre straripi di musica a tutto volume che esplode da un vibrante apparecchio uccidi-silenzio, e i biliardini e gli altri giochi elettrici simulanti corse ippiche e cacce all'uomo siano tutti in azione, e ombre colorate nuotino nella trasparenza d'un televisore e in quella d'un acquario di pesci tropicali rallegrati da una corrente verticale di bollicine d'aria. E il mio braccio non regga una borsa a soffietto, gonfia e un po' logora, ma spinga una valigia quadrata di materia plastica rigida munita di piccole ruote, manovrabile con un bastone metallico cromato e pieghevole.
Tu lettore credevi che lì sotto la pensilina il mio sguardo si fosse appuntato sulle lancette traforate come alabarde d'un rotondo orologio di vecchia stazione, nel vano sforzo di farle girare all' indietro, dì percorrere a ritroso il cimitero delle ore passate stese esanimi nel loro pantheon circolare. Ma chi ti dice che i numeri dell'orologio non s'affaccino da sportelli rettangolari e io veda ogni minuto cadermi addosso di scatto come la lama d'una ghigliottina? Il risultato comunque non camberebbe molto: anche avanzando in un mondo levigato e scorrevole la mia mano contratta sul leggero timone della valigia a rotelle esprimerebbe pur sempre un rifiuto interiore, come se quel disinvolto bagaglio costituisse per me un peso ingrato ed estenuante.
Qualcosa mi dev'essere andata per storto: un disguido, un ritardo, una coincidenza perduta; forse arrivando avrei dovuto trovare un contatto, probabilmente in relazione a questa valigia che sembra preoccuparmi tanto, non è chiaro se per timore di perderla o perché non vedo l'ora di disfarmene. Quello che pare sicuro è che non è un bagaglio qualsiasi, da poterlo consegnare al deposito bagagli o far finta di dimenticarlo nella sala d'aspetto. E inutile che guardi l'orologio; se qualcuno era venuto ad aspettarmi ormai se n'è andato da un pezzo; è inutile che mi arrovelli nella smania di far girare all' indietro gli orologi e i calendari sperando di ritornare al momento precedente a quello In cui è successo qualcosa che non doveva succedere. Se in questa stazione dovevo incontrare qualcuno, che magari non aveva niente a che fare con questa stazione ma solo doveva scendere da un treno e ripartire su un altro treno, così come avrei dovuto fare io, e uno dei due doveva consegnare qualcosa all'altro, per esempio io dovevo affidare all'altro questa valigia a rotelle che invece è rimasta a me e mi brucia le mani, allora l'unica cosa da fare è cercare di ristabilire il contatto perduto.
Nessun commento:
Posta un commento