IN VIAGGIO
1.
Sopravvennero le
ultime giornate di marzo, le prime giornate calde dell’anno, falsi preannunci
della primavera, sempre seguiti, ogni anno, da un forte abbassamento di
temperatura.
In casa Gromeko fervevano
i preparativi per il viaggio. Agli inquilini, che nella casa riadattata erano
divenuti innumerevoli come i passeri in istrada, vennero presentati come una
pulizia generale prima di Pasqua.
Jurij Andrèevich era
contrario alla partenza, ma non si opponeva ai preparativi perché considerava
l’impresa irrealizzabile e sperava che sarebbe fallita al momento decisivo. Ma
le cose andavano avanti e giunse il giorno che se ne dovette parlare
seriamente.
Zivago manifestò
ancora una volta i propri dubbi alla moglie e al suocero durante un consiglio
di famiglia tenuto appositamente.
«Allora, pensate
ancora che ho torto e che si deve partire?» concluse. Gli rispose la moglie:
«Tu dici di tirare
avanti in qualche modo un anno o due intanto che definiscono i nuovi
ordinamenti terrieri, e poi chiedere un po’ di terra vicino a Mosca e farci un
orto. Però, su come ce la caveremo nel frattempo, non dici niente. Mentre è
questa la cosa più importante: proprio questo si vorrebbe sapere da te!»
«Una vera follia,»
rincalzò Aleksàndr Aleksàndrovich, appoggiando la figlia.
«Va bene, mi
arrendo,» consentì Jurij Andrèevich. «Quel che mi preoccupa è solo l’ignoto.
Noi, così, a occhi chiusi ci scaraventiamo chissà dove, senza avere la minima
idea del luogo dove andiamo. Delle tre persone che vivevano a Varykino, due, la
mamma e la nonna, non ci sono più, e la terza, il nonno Krueger, se pure vive
ancora, è certamente trattenuto come ostaggio, o è in carcere.
«Nell’ultimo anno di
guerra non so che affari aveva combinato: col legname e lo stabilimento ha
fatto una vendita fittizia a un prestanome o a una banca e registrato tutto a
nome di un altro. Che ne sappiamo di questa transazione? Di chi sono oggi le
terre, non nel senso della proprietà effettiva che ce ne importa poco, ma chi ne
è responsabile? Come sono amministrate? Chissà se sfruttano il bosco? Se le
officine lavorano? E, infine, chi ha il potere laggiù, e chi l’avrà prima che
noi ci arriviamo?
«Per voi l’ancora
della salvezza è Mikùlicyn: non fate che riempirvi la bocca col suo nome. Ma
chi vi dice che questo vecchio amministratore sia ancora vivo e si trovi sempre
a Varykino? E poi, cosa sappiamo di lui, se non che il nonno pronunciava male
il suo cognome, sola ragione per cui ci è rimasto impresso nella memoria?
«Ma poi, che stiamo a
discutere? Avete deciso di andare e mi associo. Bisogna però informarsi come si
può fare a partire di questi tempi. Inutile rimandare.»
2.
Per informarsi, Jurij
Andrèevich si recò alla stazione di Jaroslàv.
L’afflusso della
folla era contenuto da transenne di legno collocate attraverso le sale. Sui
pavimenti di pietra c’era gente sdraiata, chiusa in grigi cappotti, che si
voltava ora su un fianco ora su un altro, tossiva e sputava. Quando parlavano,
lo facevano a voce altissima senza tener conto dell’intensità con cui le voci
echeggiavano sotto le volte sonore.
La maggior parte
erano convalescenti di tifo petecchiale, dimessi dagli ospedali, causa
l’affollamento, il giorno successivo alla crisi febbrile. Anche Jurij
Andrèevich, come medico, si era trovato nella necessità di adottare la stessa
misura, ma non credeva che quegli infelici fossero tanti e che le stazioni
servissero loro di rifugio.
«Procuratevi un
mandato di viaggio,» gli disse un facchino in grembiule bianco. «Bisogna
tentare ogni giorno. I treni sono una rarità, un caso. E si capisce… (il
facchino strofinò il pollice e l’indice)… Un po’ di farina o qualcos’altro. Se
non ungi, non parti. Questa, poi… (e si dette un colpetto sulla gola)… è una
cosa sacrosanta.»
3.
In quel periodo
Aleksàndr Aleksàndrovich era stato invitato per alcune consulenze al Consiglio
supremo dell’economia nazionale, e Jurij Andrèevich fu chiamato presso un
membro dei governo gravemente malato. Entrambi erano stati compensati nel modo
migliore che vi fosse allora: alcuni buoni merce presso un distributore chiuso
al pubblico, il primo del genere.
Era stato sistemato
nei locali di un magazzino militare, presso il Monastero di Simon. Il dottore e
il suocero attraversarono due cortili, uno della chiesa e l’altro della caserma.
Di là, entrarono direttamente - non c’era nemmeno una soglia - sotto le volte
di pietra di un profondo scantinato che andava digradando e allargandosi in
fondo, sbarrato da un lungo bancone trasversale. Da là dietro, un magazziniere
pesava e consegnava la merce, tranquillamente, senza fretta, allontanandosi
qualche volta per andare a rifornirsi in magazzino. Man mano che consegnava,
cancellava con un energico segno di matita la voce corrispondente nell’elenco.
Poche erano le
persone che aspettavano. «I vostri vuoti,» disse il magazziniere al professore
e al dottore, gettando un rapido sguardo sui loro buoni. A tutti e due si
spalancarono gli occhi quando nelle piccole federe dei cuscini, allora in uso
per le signore, e in altre federe più grandi, cominciarono a veder versare
farina, semola, pasta e zucchero; e poi strutto, sapone e fiammiferi. In
ciascuna fu messo anche un involto di qualcosa che poi, a casa, si rivelò
formaggio del Caucaso.
Genero e suocero si
affrettarono a ficcare tutti i loro involti in due grandi sacchi e se li misero
alla svelta in spalla, per non infastidire coi loro irriconoscente trambusto il
magazziniere che li aveva annientati con la sua munificenza.
Dallo scantinato
risalirono all’aria aperta, come ebbri: e non di una gioia animale, quanto
piuttosto della consapevolezza che la loro vita serviva pure a qualcosa su
questa terra, che non se ne stavano con le mani in mano, e che meritavano i
riconoscimenti e gli elogi della giovane padrona di casa, Tonja.
4.
Mentre gli uomini perdevano
le giornate negli uffici, sollecitando i mandati di viaggio e i certificati per
conservare le stanze che lasciavano, Antonina Aleksàndrovna era occupata a
scegliere le cose da imballare.
Andava avanti e
indietro, affaccendata, per le tre stanze assegnate come abitazione alla
famiglia Gromeko, e considerava a lungo fra le mani ogni cianfrusaglia prima di
metterla fra la roba da portar via.
Solo una piccola
parte delle loro cose era destinata al bagaglio personale: le altre dovevano
essere utilizzate come oggetti di scambio, necessari durante il viaggio e
all’arrivo sul posto.
Attraverso il
vasistas aperto della finestra entrava l’aria primaverile: un’aria che aveva il
sapore di un panino francese appena addentato. Fuori cantavano i galli ed
echeggiavano voci di bambini intenti ai loro giochi. Più si arieggiava la
stanza e più acuto si sentiva l’odore della naftalina di cui era impregnata la
roba invernale tolta dai bauli.
A proposito di quello
che si doveva portare e di quello che invece bisognava lasciare, esisteva tutta
una teoria elaborata da quanti erano già partiti, le cui istruzioni diffuse nel
giro delle conoscenze, facevano testo.
Tali istruzioni,
espresse in brevi categoriche indicazioni, erano presenti con tanta chiarezza
nella mente di Antonina Aleksàndrovna che aveva l’impressione di sentirle
salire dal cortile insieme al cinguettio dei passeri e al lieto rumore dei
bambini, come se una voce misteriosa gliele suggerisse dalla strada.
«Stoffe, stoffe,»
suonavano le istruzioni, «soprattutto in pezze, ma in viaggio ci badano ed è
pericoloso. E’ meglio portarle a tagli, imbastiti alla lesta. In genere,
stoffe, manufatti, anche vestiario, preferibilmente giacche e cappotti, se non
sono molto usati. Meno cianfrusaglie possibili, niente di pesante. Data la
frequente necessità di portare tutto a mano, lasciar stare le ceste e le
valigie. Mettere insieme poche cose, scelte accuratamente, in fagotti, che
anche una donna o un bambino possano portare. Sono convenienti il sale e il
tabacco, come ha dimostrato l’esperienza, sebbene il rischio sia notevole.
Denaro in valuta di Kèrenskij. La cosa più difficile sono i documenti.» E così
via.
5.
Alla vigilia della
partenza si levò la tormenta. Il vento spingeva in alto verso il cielo grigie
nubi di volteggianti fiocchi di neve che tornavano sulla terra in bianchi
turbinii, s’ingolfavano nel fondo cupo della strada, e la ricoprivano d’un
candido velo.
Tutto nella casa era
ormai imballato. La sorveglianza delle stanze e di quanto vi rimaneva fu
affidata a un’anziana coppia di coniugi, parenti, moscoviti della Egòrovna, con
i quali Antonina Aleksàndrovna aveva fatto conoscenza l’inverno precedente
allorché, per loro mezzo, aveva dato via roba vecchia, stracci e mobili inutili
in cambio di legna e patate.
Di Markèl non ci si
poteva fidare. Alla milizia, che aveva scelto come club politico, non accusava
gli ex padroni Gromeko d’avergli bevuto il sangue, ma li rimproverava d’averlo
sempre, in tutti quegli anni, tenuto all’oscuro, nascondendogli
intenzionalmente che l’uomo derivava dalla scimmia.
Antonina
Aleksàndrovna condusse per l’ultima volta la coppia di parenti della Egòrovna,
un ex commesso e sua moglie, attraverso le stanze, mostrando quali fossero le
chiavi di ogni serratura e dove ogni cosa si trovasse, aprendo e chiudendo
insieme a loro armadi e cassetti, indicando e spiegando tutto.
I tavoli e le sedie
erano addossati contro le pareti, i fagotti per il viaggio stavano ammucchiati
in disparte, e da tutte le finestre erano state tolte le tende. La tormenta,
con meno impedimenti che non nella cornice dell’intimità invernale, si
affacciava nelle stanze ormai vuote attraverso le finestre spoglie. A ognuno la
tormenta ricordava qualcosa. A Jurij Andrèevich l’infanzia e la morte della
madre; ad Antonina Aleksàndrovna e Aleksàndr Aleksàndrovich la fine e i
funerali di Anna Ivànovna. A tutti pareva che quella fosse la loro ultima notte
in una casa che non avrebbero più rivisto. Su questo s’ingannavano, ma,
suggestionati da quel pensiero che non si confidavano per non amareggiarsi a
vicenda, ciascuno fra sé ripensava la propria esistenza, gli anni trascorsi
sotto quel tetto e tratteneva a stento le lacrime.
Ciò non impediva ad
Antonina Aleksàndrovna di mantenere le forme di fronte agli estranei,
conversando senza tregua con la donna alla quale affidava la casa. Esagerava
l’importanza del servigio che le veniva reso, e per manifestare la sua
gratitudine, ogni momento, con molte scuse andava nella stanza vicina tornando
sempre con un dono, ora un fazzoletto, ora una blusa, ora un pezzo di indiana o
di chiffon. E tutte quelle stoffe erano scure, a quadretti o pallini bianchi,
come nera e punteggiata di bianco era l’oscura
strada nevosa che
attraverso le nude finestre senza tende guardava quella sera d’addio.
Traduzione
dal russo di Pietro Zveteremich
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