da “Gli amori difficili”. L'avventura di un viaggiatore, (1957) – Italo Calvino
(…)
Ebbe una soddisfazione inattesa: il rappresentante si era addormentato seduto, senza cambiare posizione, col giornale sulle ginocchia. Federico considerava le persone capaci d'addormentarsi da sedute con un senso d'estraneità che non riusciva neppure a essere invidia: per lui, l'addormentarsi in treno presupponeva una laboriosa procedura, un rituale minuzioso, ma anche in questo, appunto, consisteva l'arduo piacere dei suoi viaggi.
Per prima cosa doveva cambiarsi i pantaloni buoni con un paio da strapazzo, per non arrivare tutto spiegazzato. L'operazione doveva avvenire nella toilette; ma prima - per avere maggior libertà di movimenti - era meglio sostituire alle scarpe le pantofole. Federico trasse dalla borsa i pantaloni da strapazzo, la busta delle pantofole, si tolse le scarpe, calzò le pantofole, nascose le scarpe sotto il sedile, andò alla toilette a cambiarsi i pantaloni. «Je voyage toujours!» Tornò, sistemò i pantaloni buoni sulla rete in modo che non perdessero la piega. «Trallalà lala!» Mise il cuscino a capo del sedile dalla parte del corridoio, perché le brusche aperture della portiera era meglio udirle sopra la sua testa, anziché esserne colpito visivamente all'improvviso aprir degli occhi. «Du voyage, je sais tout!» All'altro capo del sedile mise un giornale, perché si coricava non scalzo, ma in pantofole. A un gancio sopra il cuscino appese la giacca, e in una tasca della giacca mise il portamonete e la pinza delle banconote, che lasciati nella tasca dei pantaloni gli avrebbero inciso un'anca. Tenne invece il biglietto, nel taschino sotto la cintura. «Je sais bien voyager...» Cambiò il pullover buono, per non gualcirlo, con un pullover da strapazzo; la camicia invece l'avrebbe cambiata l'indomani. Il rappresentante, svegliatosi da quando Federico era rientrato nello scompartimento, seguiva il suo armeggiare come non capisse bene cosa stava succedendo. «Jusqù à mon amour...» Si tolse la cravatta e l'appese, si tolse le stecche del colletto della camicia e le mise in una tasca della giacca, insieme ai soldi. «...j'arrive avec le train!» Si tolse le bretelle (come tutti gli uomini fedeli a un'eleganza non esteriore, portava bretelle) e le giarrettiere; slacciò il bottone più alto dei pantaloni perché non gli stringesse la pancia. «Trallalà lala!» Sopra il pullover non rindossò la giacca, bensì il soprabito, dopo aver liberato le tasche dalle chiavi di casa; tenne invece il preziosissimo gettone, con lo stesso struggente feticismo con cui i bambini mettono il giocattolo preferito sotto il cuscino. Il soprabito l'abbottonò completamente, alzò il bavero; con qualche attenzione, sapeva dormirci dentro senza che ci restasse una grinza. «Maintenant voilà!» Dormire in treno voleva dire svegliarsi coi capelli tutti dritti e magari trovarsi in stazione senza neanche il tempo di darsi un colpo di pettine; perciò si calcò in testa un basco, «Je suis prêt, alors!» Ondeggiò per lo scompartimento dentro il soprabito che indossato senza giacca gli pendeva addosso come un indumento sacerdotale, tese le tendine sopra la portiera tirandole fino a raggiungere con gli occhielli di cuoio i bottoni metallici. Accennò un gesto verso il compagno di viaggio come a chiedergli il permesso di spegnere la luce: il rappresentante dormiva. Spense: nella penombra azzurra della lampadina di sicurezza, si mosse ancora per chiudere le tendine del finestrino, o meglio per socchiuderle, perché qui lasciava sempre uno spiraglio: gli piaceva al mattino avere un raggio di sole in camera. Ancora un'operazione: dar la corda all'orologio. Ecco, poteva coricarsi. Con un salto, s'era buttato orizzontale sul sedile, su di un fianco, col soprabito liscio, le gambe ripiegate dentro, le mani in tasca, il gettone in mano, i piedi - sempre nelle pantofole - sul giornale, il naso nel guanciale, il basco sugli occhi. Ora, con un sapiente rilassamento di tutta la sua febbrile attività interiore, un vago protendersi verso l'indomani, si sarebbe addormentato.
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Ebbe una soddisfazione inattesa: il rappresentante si era addormentato seduto, senza cambiare posizione, col giornale sulle ginocchia. Federico considerava le persone capaci d'addormentarsi da sedute con un senso d'estraneità che non riusciva neppure a essere invidia: per lui, l'addormentarsi in treno presupponeva una laboriosa procedura, un rituale minuzioso, ma anche in questo, appunto, consisteva l'arduo piacere dei suoi viaggi.
Per prima cosa doveva cambiarsi i pantaloni buoni con un paio da strapazzo, per non arrivare tutto spiegazzato. L'operazione doveva avvenire nella toilette; ma prima - per avere maggior libertà di movimenti - era meglio sostituire alle scarpe le pantofole. Federico trasse dalla borsa i pantaloni da strapazzo, la busta delle pantofole, si tolse le scarpe, calzò le pantofole, nascose le scarpe sotto il sedile, andò alla toilette a cambiarsi i pantaloni. «Je voyage toujours!» Tornò, sistemò i pantaloni buoni sulla rete in modo che non perdessero la piega. «Trallalà lala!» Mise il cuscino a capo del sedile dalla parte del corridoio, perché le brusche aperture della portiera era meglio udirle sopra la sua testa, anziché esserne colpito visivamente all'improvviso aprir degli occhi. «Du voyage, je sais tout!» All'altro capo del sedile mise un giornale, perché si coricava non scalzo, ma in pantofole. A un gancio sopra il cuscino appese la giacca, e in una tasca della giacca mise il portamonete e la pinza delle banconote, che lasciati nella tasca dei pantaloni gli avrebbero inciso un'anca. Tenne invece il biglietto, nel taschino sotto la cintura. «Je sais bien voyager...» Cambiò il pullover buono, per non gualcirlo, con un pullover da strapazzo; la camicia invece l'avrebbe cambiata l'indomani. Il rappresentante, svegliatosi da quando Federico era rientrato nello scompartimento, seguiva il suo armeggiare come non capisse bene cosa stava succedendo. «Jusqù à mon amour...» Si tolse la cravatta e l'appese, si tolse le stecche del colletto della camicia e le mise in una tasca della giacca, insieme ai soldi. «...j'arrive avec le train!» Si tolse le bretelle (come tutti gli uomini fedeli a un'eleganza non esteriore, portava bretelle) e le giarrettiere; slacciò il bottone più alto dei pantaloni perché non gli stringesse la pancia. «Trallalà lala!» Sopra il pullover non rindossò la giacca, bensì il soprabito, dopo aver liberato le tasche dalle chiavi di casa; tenne invece il preziosissimo gettone, con lo stesso struggente feticismo con cui i bambini mettono il giocattolo preferito sotto il cuscino. Il soprabito l'abbottonò completamente, alzò il bavero; con qualche attenzione, sapeva dormirci dentro senza che ci restasse una grinza. «Maintenant voilà!» Dormire in treno voleva dire svegliarsi coi capelli tutti dritti e magari trovarsi in stazione senza neanche il tempo di darsi un colpo di pettine; perciò si calcò in testa un basco, «Je suis prêt, alors!» Ondeggiò per lo scompartimento dentro il soprabito che indossato senza giacca gli pendeva addosso come un indumento sacerdotale, tese le tendine sopra la portiera tirandole fino a raggiungere con gli occhielli di cuoio i bottoni metallici. Accennò un gesto verso il compagno di viaggio come a chiedergli il permesso di spegnere la luce: il rappresentante dormiva. Spense: nella penombra azzurra della lampadina di sicurezza, si mosse ancora per chiudere le tendine del finestrino, o meglio per socchiuderle, perché qui lasciava sempre uno spiraglio: gli piaceva al mattino avere un raggio di sole in camera. Ancora un'operazione: dar la corda all'orologio. Ecco, poteva coricarsi. Con un salto, s'era buttato orizzontale sul sedile, su di un fianco, col soprabito liscio, le gambe ripiegate dentro, le mani in tasca, il gettone in mano, i piedi - sempre nelle pantofole - sul giornale, il naso nel guanciale, il basco sugli occhi. Ora, con un sapiente rilassamento di tutta la sua febbrile attività interiore, un vago protendersi verso l'indomani, si sarebbe addormentato.
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