Nel tardo autunno di quell’anno 1938 mi
trovavo in piena crisi di misantropia. Risiedevo a Torino e la “tota” n. 1,
frugando nelle mie tasche alla ricerca di un qualche biglietto da cinquanta
lire, aveva, mentre dormivo, scoperto anche una letterina della “tota” n. 2 che
pur attraverso scorrettezze ortografiche non lasciava dubbi circa la natura
delle nostre relazioni.
Il mio risveglio era stato immediato e
burrascoso. L’alloggetto di via Peyron echeggiò di escandescenze vernacole; per
cavarmi gli occhi venne fatto anche tentativo che potei mandare a vuoto
soltanto storcendo un poco il polso sinistro della cara figliula. Quest’azione
di difesa pienamente giustificata pose fine alla scenata ma anche all’idillio.
La ragazza si rivestì in fretta, ficcò nella borsetta piumino, rossetto,
fazzolettino, il biglietto da cinquanta “causa mali tanti”, mi scaraventò sul
viso un triplice “pourcoun!” e se ne andò. Mai era stata così carina quanto in
quel quarto d’ora di furia. Dalla finestra la vidi uscire e allontanarsi nella
nebbiolina del mattino, alta, slanciata, adorna di riconquistata eleganza.
Non l’ho vista mai più come non più rivisto
un “pullover” ci cashmere nero che mi era costatato un occhio e che aveva il
funesto pregio di una foggia adatta tanto a maschi quanto a femmine. Essa
lasciò soltanto, sul letto, due di quelle forcinette attorcigliate, dette “invisibili”.
Lo stesso pomeriggio avevo appuntamento con
la n. 2 in una pasticceria di piazza Carlo Felice. Al tavolinetto rotondo nell’angolo
ovest della seconda sala che era il “nostro” non vidi le chiome castane della
fanciulla più che mai desiderata ma la faccia furbesca di Tonino, un suo
fratello di dodici anni che aveva appena finito di inghiottire una cioccolata
con doppia panna. Quando mi avvicinai si alzò con la consueta urbanità
torinese. “Monsù,” mi disse, “la Pinotta non verrà; mi ha detto di darle questo
biglietto. Cerea, monsù.” E uscì portando via due “brioches” rimaste nel
piatto. Col cartoncino color avorio mi si notificava un congedo assoluto,
motivato dalla mia infamia e “disonestà meridionale”. Era chiaro che la n. 1
aveva rintracciato e sobillato la n. 2 e che io ero rimasto seduto fra due
sedie.
In dodici ore avevo perduto due ragazze
utilmente complementari fra loro più un “pullover” al quale tenevo; avevo anche
dovuto pagare le consumazioni dell’infernale Tonino. Il mio sicilianissimo amor
proprio era umiliato: ero stato fatto fesso; e decisi di abbandonare per
qualche tempo il mondo e le sue pompe.
Per questo periodo di ritiro non poteva
trovarsi luogo più acconcio di quel caffè di via Po dove adesso, solo come un
cane, mi recavo ad ogni momento libero e, sempre, la sera dopo il mio lavoro al
giornale. era una specie di Ade popolato da esangui ombre di tenenti
colonnelli, magistrati e professori in pensione. Queste vane apparenze
giocavano a dama o a domino, immerse in una luce oscurata il giorno dai portici
e dalle nuvole, la sera dagli enormi paralumi verdi dei lampadari; e non
alzavano mai la voce timorosi com’erano che un suono troppo forte avrebbe fatto
scomporsi la debole trama della loro apparenza. un adattissimo Limbo.
(…)
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