(…)
Nella
scuola che frequentavo c’erano pochissimo figli unici. Sembra incredibile, ma
nei sei anni delle elementari ne avevo conosciuto uno solo. Mi ricordo
benissimo di lei (era una bambina), proprio perché era la sola figlia unica che
avessi mai incontrato. Diventammo intimi amici e parlavamo di ogni genere di
cose. La nostra era davvero una “perfetta intesa reciproca” e si potrebbe
persino dire che l’amassi.
Si
chiamava Shimamoto. A causa di una poliomelite contratta subito dopo la
nascita, zoppicava leggermente alla gamba sinistra. Veniva da un’altra scuola
ed era arrivata nella nostra classe verso la fine della quinta elementare e
questo costituiva per lei un peso psicologico non indifferente, senza dubbio
maggiore del mio. Solo per il fatto di dovere sostenere questo carico così
gravoso, dimostrava di essere “figlia unica” molto più forte e più indipendente
di me. Non si lamentava mai con nessuno, né a parole né lasciando trasparire
alcunché dall’espressione del volto. Qualsiasi cosa succedesse, riusciva sempre
a sorridere; anzi, più una situazione era spiacevole, più il suo sorriso si
faceva grande. Era un sorriso meraviglioso, che aveva il potere di consolarmi o
di incoraggiarmi a seconda dei casi. Sembrava volermi dire: “Non preoccuparti.
Vedrai che con un piccolo sforzo ce la farai!”. Ogni volta che mio ricordo di
lei, mi torna in mente quel sorriso.
A
scuola Shimamoto aveva voti alti, era sempre corretta e gentile con tutti ed
era tenuta in alta considerazione dalla classe. Per me, invece, pur essendo
figlio unico come lei, non era così. Dubito, però, che Shimamoto fosse amata da
tutti i compagni. Nessuno la tormentava o la prendeva in giro ma, a parte me,
non aveva alcun vero amico.
Forse
era troppo controllata e sicura di sé per i gusti dei miei compagni che,
probabilmente, scambiavano questo suo atteggiamento per freddezza e arroganza.
Io, invece, riuscivo a percepire l’umanità e la fragilità che si nascondevano
dietro quel suo comportamento esteriore. Era come un bimbo piccolo che giochi a
nascondino: andava sempre a rintanarsi negli angoli più appartati, con la
speranza, però, che qualcuno prima o poi la trovasse. C’erano momenti in cui,
all’improvviso, scoprivo nelle sue parole e nel suo sguardo il riflesso di
quella sua parte nascosta.
Shimamoto
aveva cambiato scuola diverse volte, a causa del lavoro del padre. Non ricordo
esattamente che cosa facesse, anche se lei, una volte, me lo aveva spiegato nei
particolari. Come alla maggior parte dei bambini, anche a me non interessava
molto che lavoro facessero i padri dei miei compagni. Mi ricordo che si
trattava di un’attività specialistica che aveva a che fare con banche, uffici
tributari e leggi sul risanamento d’impresa. Si era trasferita in una shataku che era, insolitamente, una casa
di stile occidentale piuttosto grande. Era recintata da un elegante muretto di
pietra che arrivava all’altezza dei fianchi, sul quale sorgevano siepi di
piante sempreverdi. Negli spazi tra una siepe e l’altra si intravedeva un
giardino ricoperto da un tappeto erboso.
Shimamoto
era una bambina di corporatura robusta e dai lineamenti del viso piuttosto
marcati. Era alta quasi quanto me. Col trascorrere degli anni sarebbe diventata
una splendida ragazza, anche se il suo non era il tipo un bellezza molto
appariscente. Quando la incontrai per la prima volta, il suo aspetto esteriore
non si era ancora armonizzato perfettamente.
(…)
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