Una minestra a regola d'arte
(…)
La mamma non
mi aveva detto che sarebbero venuti. Non voleva che sembrassi nervosa, mi
spiegò in seguito. Mi stupii, perché pensavo che mi conoscesse bene. Gli
estranei mi avrebbero vista serena. Da bambina non piangevo mai. Solo mia madre
si accorgeva di una certa tensione nelle mie mascelle e dello sgranarsi dei
miei occhi, già grandi per loro natura.
Ero in
cucina e stavo tritando le verdure quando udii delle voci provenire dalla porta
d’ingresso: quella d’una donna, squillante come rame lucidato, e quella d’un
uomo, grave e cupa come il legno del tavolo su cui stavo lavorando. Voci di un
genere che raramente si udivano in casa nostra. Mi suggerivano immagini di
tappeti preziosi, libri, perle e pellicce.
Pensai con
sollievo che solo poco prima avevo sfregato ben bene il gradino della porta
d’ingresso.
La voce di
mia madre – un tegame sul fuoco, una brocca – si avvicinava dalla stanza
anteriore della casa. Venivano tutti verso la cucina. Misi al loro posto i
porri che avevo tritato, quindi posai il coltello sul tavolo, mi ripulii le
mani nel grembiule e strinsi le labbra per spianarle. La mamma comparve
sull’uscio, gli occhi due mute esortazioni. La donna dietro di lei dovette
abbassare la testa perché era molto alta, più alta dell’uomo che la seguiva.
In famiglia
eravamo tutti bassi, persino mio padre e mio fratello. La donna sembrava
portata dal vento, sebbene fosse una giornata calma. Aveva la cuffia un po’ di
sghimbescio, da cui erano sfuggiti piccoli riccioli biondi che le svolazzavano
sulla fronte come api, e che lei ricacciò indietro più volte con gesti nervosi.
L’ampio colletto avrebbe
avuto
bisogno d’una buona stirata e non sembrava immacolato.
Si fece
scivolare la mantella grigia giù dalle spalle, e allora mi accorsi che l’abito
blu nascondeva una gravidanza. Il bebè sarebbe arrivato verso la fine
dell’anno, o forse prima.
Il viso
della donna sembrava un piatto da portata ovale, a tratti scintillante, a
tratti opaco. Gli occhi erano due bottoni d’un colore castano chiaro che ben di
rado avevo visto accompagnarsi a capelli biondi. Si sforzava di guardare fisso,
ma non riusciva a fermare l’attenzione su di me perché i suoi occhi guizzavano
qua e là per la stanza.
“Questa è la
ragazza, allora”, disse all’improvviso.
“Questa è
mia figlia Griet”, replicò mia madre. Io feci un rispettoso cenno di saluto con
la testa verso l’uomo e la donna.
“Be’, non
direi che sia proprio grande. Sarà abbastanza robusta?”
Come la
donna fece per voltarsi a guardare l’uomo, un lembo della mantella si impigliò nel manico del coltello
che avevo adoperato, facendolo cadere dal tavolo e roteare sul pavimento. La
donna gettò un grido.
“Catharina”,
disse l’uomo, pacato. Pronunciò il nome di lei come se in bocca avesse della
cannella. La
donna tacque, facendo uno sforzo per calmarsi.
Mi
precipitai a raccogliere il coltello e ripulii la lama sul grembiule prima di
posarlo sul tavolo. Il coltello aveva scompigliato le verdure. Rimisi al suo
posto un pezzetto di carota.
L’uomo mi
osservava, gli occhi grigi come il mare. Aveva un volto lungo e spigoloso,
un’espressione ferma, in contrasto con quella della moglie, che guizzava come
la fiammella di una candela. Non aveva né barba né baffi, il che mi piaceva perché
gli dava un aspetto lindo. Sotto al mantello nero indossava una camicia bianca
con un elegante colletto di pizzo. Portava il cappello calcato sui capelli, che
erano rossi come i mattoni bagnati dalla pioggia.
(…)
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