opera di Kenton Nelson
da “Gli amori difficili”. L'avventura di un impiegato, (1953) – Italo Calvino
A Enrico Gnei,
impiegato, accadde di passare una notte con una bella signora. Uscendo dalla
casa di lei, sul presto, l'aria e i colori del mattino primaverile gli
s'aprirono dinanzi, freschi tonificanti e nuovi, e gli sembrava di camminare a
suon di musica.
Va detto che soltanto
a un fortunato insieme di circostanze Enrico Gnei doveva quell'avventura: una festa
di amici, una particolare e passeggera disposizione della signora - donna
peraltro controllata e di non facili abbandoni -, una conversazione in cui egli
s'era trovato insolitamente a proprio agio, l'aiuto - da una parte e dall'altra
- d'una lieve esaltazione alcolica, vera o simulata che fosse, e poi ancora
un'appena secondata combinazione logistica al momento dei commiati: tutto
questo, e non un fascino personale del Gnei - o se mai, solo la sua apparenza
discreta e un po' anonima che lo poteva designare come compagno non impegnativo
o vistoso -, aveva determinato l'esito inatteso di quella notte.
Egli ne era ben
cosciente e, modesto d'indole, tanto più teneva la sua fortuna per preziosa.
Sapeva pure che il fatto non avrebbe avuto nessun seguito; né se ne doleva,
perché una relazione continuata avrebbe comportato problemi troppo imbarazzanti
per il suo tenore di vita abituale. La perfezione dell'avventura stava
nell'esser cominciata e finita nello spazio d'una notte. Dunque, Enrico Gnei
era quel mattino un uomo che ha avuto quanto di meglio poteva desiderare al
mondo.
La casa della signora
era in collina. Gnei scendeva un viale verde e odoroso. Era più presto dell'ora
in cui soleva uscire di casa per l'ufficio. La signora l'aveva fatto sgusciare
via allora, perché la servitù non lo vedesse. Il non aver dormito non gli
pesava, anzi gli dava come una innaturale lucidezza, un'eccitazione non più dei
sensi ma dell'intelletto. Un muovere di vento, un ronzio, un odore d'alberi gli
parevano cose di cui dovesse in qualche modo impossessarsi e godere; e non si
riadattava a modi di gustare la bellezza più discreti. Poiché, uomo metodico
qual era, l'essersi levato in casa altrui, l'essersi rivestito in fretta, senza
radersi, gli lasciavano addosso un'impressione di scombinamento d'abitudini,
pensò per un momento di fare una scappata a casa, prima d'andare in ufficio,
per farsi la barba e rassettarsi. Il tempo l'avrebbe avuto, ma Gnei scacciò subito
l'idea, preferì convincersi che era tardi, perché lo prese il timore che la
casa, la ripetizione di gesti quotidiani dissolvessero l'atmosfera di
straordinarietà e ricchezza in cui ora si muoveva. Decise che la sua giornata
avrebbe seguito una curva calma e generosa, per conservare il più possibile l'eredità
di quella notte. La memoria, a saper ricostruire con pazienza le ore passate,
secondo per secondo, gli apriva paradisi sterminati. Così vagando col pensiero,
senza fretta, Enrico Gnei s'avviava verso il capolinea del tram.
Il tram attendeva,
quasi vuoto, l'ora della corsa. I tranvieri erano giù e fumavano. Gnei salì
fischiettando, con le
falde del soprabito sventolanti, e si sedette, un po' scomposto, poi subito
prese una posizione più urbana, contento d'essersi saputo prontamente
correggere ma non scontento del piglio spregiudicato che gli era venuto
naturale.
La zona non era
popolosa né mattiniera. Nel tram c'era una massaia attempata, due lavoratori in
discussione, e lui, uomo contento. Buona gente del mattino. Gli erano
simpatici; lui, Enrico Gnei, era un signore misterioso, per loro, misterioso e
contento, mai visto prima su quel tram a quell'ora. Donde poteva venire? essi
ora forse si chiedevano. E lui non dava nulla a vedere: lui guardava i glicini.
Era un uomo che guarda i glicini da uomo che sa guardare i glicini: era conscio
di questo, Enrico Gnei. Era un passeggero che dà i soldi del biglietto al
bigliettario, e tra lui e il bigliettario c'era un perfetto rapporto tra
passeggero e bigliettario, non poteva andare meglio di così. Il tram scendeva verso
il fiume; era un bel vivere.
(…)
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