dipinto di Berardino Totaro - Olio cm 80x80
da "Le città invisibili" - Italo Calvino
– Sire, eri distratto. Di questa
città appunto ti stavo raccontando quando m’hai interrotto.
– La conosci? Dov’è? Qual è il suo
nome?
– Non ha nome né luogo. Ti ripeto la
ragione per cui la descrivevo: dal numero delle città immaginabili occorre escludere
quelle i cui elementi si sommano senza un filo che li connetta, senza una
regola interna, una prospettiva, un discorso. È delle città come dei sogni:
tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un
rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città
come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro
discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa
ne nasconde un’altra.
– Io non ho desideri né paure, –
dichiarò il Kan, – e i miei sogni sono composti o dalla mente o dal caso.
– Anche le città credono di essere
opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro
mura. D’una città non godi le sette o le settantasette me raviglie, ma la
risposta che dà a una tua domanda.
– O la domanda che ti pone
obbligandoti a rispondere, come Tebe per bocca della Sfinge.
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