13 luglio 2017

da "Cent’anni di solitudine" – Gabriel Garcìa Màrquez

Macondo
da "Cent’anni di solitudine– Gabriel Garcìa Màrquez
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Non ci fu, tuttavia, molto tempo per pensarci, perché i sospettosi abitanti di Macondo cominciavano appena a domandarsi che accidente stava succedendo, che già il villaggio si era trasformato in un agglomerato di case di legno con tettoie di zinco, popolato da forestieri che arrivavano da mezzo mondo con il treno, non solo nelle vetture e sulle piattaforme, ma perfino sul tetto dei vagoni. I gringos, che più tardi fecero venire le loro mogli languide in abiti di mussolina e grandi cappelli di tulle, costruirono un villaggio a parte dall'altro lato della ferrovia, con strade bordate di palme, case con finestre protette da reticelle metalliche, tavolini bianchi sulle terrazze e ventilatori a pale appesi al soffitto, e vasti prati azzurri con pavoni e coturnici. Il settore era limitato da una rete metallica, come una gigantesca capponaia elettrificata che allo spuntare del giorno nei freschi mesi estivi s'anneriva di rondini bruciacchiate. Nessuno sapeva ancora che cosa cercassero, o se in realtà non erano altro che filantropi, e già avevano provocato uno scompiglio colossale, molto più perturbatore di quello degli antichi zingari, ma meno transitorio e comprensibile. Dotati di risorse che in altri tempi erano state appannaggio della Divina Provvidenza, modificarono il regime delle piogge, affrettarono il ciclo dei raccolti, e tolsero il fiume da dove era sempre stato e lo misero con le sue pietre bianche e le sue correnti gelate all'altra estremità del paese, dietro il camposanto. Fu in quella occasione che costruirono una fortezza di calcestruzzo sulla sbiadita tomba di José Arcadio per far sì che l'odore di polvere da sparo del cadavere non contaminasse le acque. Per i forestieri che arrivavano senza amore, trasformarono la strada delle accoglienti matrone di Francia in un più vasto agglomerato, e in un mercoledì di gloria fecero venire un treno carico di puttane inverosimili, femmine babiloniche addestrate a trucchi immemorabili, e provviste di ogni sorta di unguenti e dispositivi per stimolare gli inermi, aizzare i timidi, saziare i voraci, esaltare i modesti, temperare i multipli e correggere i solitari. La Strada dei Turchi, arricchitasi di sfarzose drogherie che sfrattarono i vecchi bazar variopinti, era battuta la notte del sabato dalla folla degli avventurieri che si pigiavano tra i tavoli della fortuna e dell'azzardo, le baracche del tiro a segno, il vicolo dove si prediceva il futuro e si interpretavano i
sogni, e i banchi di frittelle e di bibite, che le prime luci del mattino trovavano sconciate per terra, tra corpi che a volte erano di ubriachi felici e quasi sempre di curiosi abbattuti da spari, da pugni, da sbuzzate e bottigliate nel parapiglia. Fu una invasione così tumultuosa e imprevista, che nei primi tempi era impossibile camminare per la strada a causa dell'intralcio dei mobili e dei bauli, e del trambusto di carpenteria di coloro che mettevano su casa dovunque trovassero un terreno sgombro e senza dover chiedere il permesso a nessuno, e dello scandalo delle coppie che appendevano le loro amache tra i mandorli e facevano all'amore sotto i tendoni, in pieno giorno e sotto gli occhi di tutti. L'unico angolo di serenità fu creato dai pacifici negri delle Antille che costruirono una strada marginale, con case di legno su palafitte, e verso sera si sedevano sulla veranda a cantare inni malinconici nel loro farraginoso farfuglio. Tanti cambiamenti si verificarono in cos ì poco tempo, che otto mesi dopo la visita di Mr. Herbert i vecchi abitanti di Macondo si levavano di buon'ora per esplorare il loro stesso villaggio.
"Guardate un po' in che fottitura ci siamo cacciati," usava dire allora il colonnello Aureliano Buendìa, "solo per aver invitato un gringo a mangiare banane."
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