Maurits Cornelis Escher - Specchio magico
da “La nausea” – Jean Paul Sartre
(...)
Ed io - fiacco, illanguidito, osceno,
digerente, pieno di cupi pensieri - anch’io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro
lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso
ho paura ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come
un’onda). Pensavo vagamente di
sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue. Ma
la mia stessa morte sarebbe stata di
troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo
a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella
terra che l’avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate,
nette e polite come denti, sarebbero state anch’esse di troppo: io ero di
troppo per l’eternità.
La parola Assurdità nasce ora sotto la
mia penna; poco fa, al giardino, non l’avevo trovata, ma nemmeno la cercavo,
non ne avevo bisogno: pensavo senza parole, sulle cose, con le cose.
L’assurdità non era un’idea nella mia testa, né un soffio di voce, ma quel lungo serpente morto
che avevo al piedi, quel serpente di legno. Serpente o radice o artiglio
d’avvoltoio, poco importa. E senza nulla formulare nettamente capivo che avevo
trovato la chiave dell’Esistenza, la chiave delle mie Nausee, della mia vita
stessa. Difatti, tutto ciò che ho potuto afferrare in seguito si riporta a
questa assurdità fondamentale. Assurdità: ancora una parola; mi dibatto contro
le parole; laggiù nel giardino, la toccavo, la cosa. Ma qui
vorrei fissare il carattere assoluto
di quest’assurdità. Un gesto, un avvenimento nel piccolo mondo colorito degli
uomini non è mai assurdo che relativamente: in rapporto alle circostanze che
l’accompagnano. I discorsi d’un pazzo, per esempio, sono assurdi in rapporto
alla situazione in cui si trova, ma non in rapporto al suo delirio. Ma io, poco
fa, ho fatto l’esperienza dell’assoluto: l’assoluto o l’assurdo. Quella radice:
non v’era nulla in rapporto a cui essa non fosse assurda. Oh! Come potrò spiegare questo con parole? Assurda: in
rapporto ai sassi, ai cespugli d’erba gialla, al fango secco, all’albero, al
cielo, alle panche verdi. Assurda, irriducibile; niente – nemmeno un delirio
profondo e segreto della natura - poteva spiegarla. Naturalmente, io non sapevo
tutto, non avevo visto il germe svilupparsi e l’albero crescere. Ma davanti a
quella grossa zampa rugosa, né l’ignoranza né il sapere avevano importanza: il
mondo delle spiegazioni e delle ragioni non è quello dell’esistenza. Un cerchio non è assurdo, si
spiega benissimo con la rotazione d’un segmento attorno ad una delle sue
estremità. Ma pure il cerchio non esiste. Quella radice, al contrario,
esisteva, e in modo che io non potevo spiegarla. Nodosa, inerte, senza nome,
essa mi
affascinava, mi riempiva gli occhi, mi
riportava continuamente alla sua propria esistenza. Avevo un bel ripetermi: «È
una radice» - non attaccava più. Capivo bene che non si poteva passare dalla
sua funzione di radice, di pompa aspirante, a questo, a questa pelle dura e
compatta di foca, a quell’aspetto oleoso, calloso, caparbio. La funzione non
spiegava niente: permetteva di comprendere all’ingrosso che cosa era una
radice, ma per nulla affatto la radice stessa. Questa radice qui, col suo
colore, la sua forma, il suo movimento congelato, era al di sotto di qualsiasi
spiegazione. Ciascuna delle sue qualità le sfuggiva un poco, traboccava fuori
di essa, si solidificava a metà, diventava quasi una cosa; ciascuna di esse era
dì troppo nella radice, e il ceppo tutt’intero mi dava ora l’impressione di
rotolare un po’ fuori di se stesso, di negarsi, di perdersi in uno strano
eccesso. Ho raschiato il mio tallone contro quell’artiglio nero: avrei voluto
scorticarlo un po’. Per niente, per sfida, per far apparire su quel cuoio conciato il rosa
assurdo d’un’abrasione: per giuocare con l’assurdità del mondo. Ma quando ho
ritirato il piede ho visto che la corteccia era rimasta nera.
(...)
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