foto da flickr
da Elena – Ghiannis Ritsos
(…)
Non
andartene. Rimani ancora un po’. È tanto tempo che non parlo.
Non viene
più nessuno a trovarmi. Hanno avuto tutti fretta di andarsene.
Gliel’ho
letto negli occhi – avevano tutti fretta che morissi. Il tempo non scorre.
Le ancelle
mi odiano. Di notte sento che mi aprono i cassetti,
mi portano
via le trine, i gioielli, i talenti d’oro; – chissà
se mi
avranno lasciato un abito decente per qualche circostanza
e qualche
paio di scarpe. Le chiavi me le hanno prese anche quelle
da sotto il
cuscino; – non mi sono mossa; ho finto di dormire –
un giorno o
l’altro le avrebbero prese comunque; – che almeno non sappiano che so.
Che sarebbe
di me senza di loro? “Pazienza, pazienza”, mi dico;
“pazienza”,
– e anche questo è come un’infima vittoria, mentre
loro leggono
le vecchie lettere dei miei ammiratori
o le poesie
dedicatemi da grandi poeti; – le leggono
con
un’enfasi ridicola e con molti errori di pronuncia, di metrica, di accento
e di
scansione; – non le correggo. Fingo di non sentirle. Altre volte
con la mia
matita nera per gli occhi disegnano grossi baffi
sulle mie
statue, o gli mettono in testa un vecchissimo elmo
o il vaso da
notte. Le guardo tranquilla. Questo le manda in bestia.
Un giorno
che stavo un po’ meglio, le pregai di nuovo
di truccarmi
il viso. Me lo truccarono. Chiesi uno specchio.
Me l’avevano
dipinto di verde, con la bocca nera. “Grazie”, dissi loro,
come se non
avessi notato nulla di strano. Ridevano. Una di loro
si spogliò
completamente davanti a me, indossò i miei pepli dorati, e così,
coi grossi
piedi nudi, cominciò a ballare,
saltò sul
tavolo – sfrenata; ballava, ballava, si inchinava
tentando di
imitare i miei movimenti di un tempo. In alto sulla coscia
aveva il
segno di un morso inferto da denti forti e regolari, d’uomo.
Io le
guardavo come fossi a teatro; – senz’alcuna umiliazione o tristezza
o
indignazione – e per che cosa poi? – Ripetevo solo in fondo a me stessa:
“Un giorno morremo”, o piuttosto: “Un giorno
morrete”;
ed era una
vendetta certa, e un timore, una consolazione. Fissavo
ogni cosa
con una chiarezza indicibile, imperturbabile, come
se i miei
occhi non dipendessero più da me; guardavo i miei stessi occhi
distanti un
metro dal mio viso, come i vetri
di una
finestra lontana dietro la quale qualcun altro
osserva ciò
che avviene in una strada ignota
con caffè
chiusi, vetrine di fotografi e profumerie,
e avevo la
sensazione che una bella boccetta di cristallo
si fosse
rotta, e il profumo si fosse versato sulla vetrina polverosa. I passanti
indugiavano
vagamente annusando l’aria, ricordando qualcosa di buono
e poi
sparivano dietro gli alberi del pepe o in fondo alla via.
In certi
momenti lo sento ancora quel profumo – ovvero lo ricordo;
non è
strano? – Gli eventi che di solito definiamo grandi si dissolvono, si
estinguono –
l’assassinio
di Agamennone, l’uccisione di Clitennestra (mi avevano inviato
da Micene
una sua bella collana, fatta
di piccole
maschere d’oro, congiunte con anelli
in alto
sulle orecchie – non l’ho mai messa). Si dimenticano;
restano
altre cose, accessorie, insignificanti; – ricordo che un giorno vidi
un uccello
posato sulla groppa di un cavallo; e questo fatto inspiegabile
pareva
spiegare (in particolare a me) qualche mistero.
(…)
da Elena -
Traduzione di Nicola Crocetti - Quarta dimensione
Nessun commento:
Posta un commento