Vincent Van Gogh - Paesaggio con casa e contadini
da Feria d’agosto – Cesare Pavese
Il nome
Chi fossero i miei
compagni di quelle giornate, non ricordo. Vivevano in una casa del paese, mi
pare, di fronte a noi, dei ragazzi scamiciati - due - forse fratelli. Uno si
chiamava Pale, da Pasquale, e può darsi che attribuisca il suo nome all'altro.
Ma erano tanti i ragazzi che conoscevo di qua e di là.
Questo Pale - lungo
lungo, con una bocca da cavallo - quando suo padre gliene dava un fracco
scappava da casa e mancava per due o tre giorni; sicché, quando ricompariva, il
padre era già all'agguato con la cinghia e tornava a spellarlo, e lui scappava
un'altra volta e sua madre lo chiamava a gran voce, maledicendolo, da quella finestra
scrostata che guardava sui prati, sui boschi del fiume, verso lo sbocco della
valle. Certe mattine mi svegliavo all'urlo lamentoso, cadenzato, di quella
donna da quella finestra. Molte vecchie chiamavano così i figli, ma il nome che
faceva ammutolire tutti e che in certe ore echeggiava esasperante come le
fucilate dei cacciatori, era quello di Pale. A volte anche noialtri si gridava
quel nome per baldanza o per beffa. Credo che persino Pale si divertisse a
urlarlo.
Così, il giorno che
salimmo insieme sulle coste aride della collina di fronte - prima, nelle ore
bruciate, avevamo battuto il fiume e i canneti - non so bene se fossimo soli,
io e Pale. È certo che il mio socio aveva i denti scoperti e la testa rossa, e
me ne ricordo perché gli raccontavo che il leone, che vive nei luoghi aridi,
aveva i denti come i suoi e il pelo fulvo. Quel giorno eravamo agitati perché
l'avevamo impiegato a fare una ricerca metodica della serpe. C'eravamo
infradiciati fino al ventre e arrostita la nuca al sole; qualche rana era
schizzata via da sotto le pietre rimosse, le mie caviglie erano tutte un
livido. A Pale poi colava dai denti il sugo verde di un'erba che aveva voluto
masticare. Poi, nel silenzio delle piante e dell'acqua, s'era sentito fioco, ma
nitido, sul vento un urlo di richiamo.
Ricordo che tesi
l'orecchio, caso mai chiamassero me. Ma l'urlo non si ripeté. Lasciammo, poco
dopo, la bassa del fiume e salimmo la costa, dicendoci che andavamo per
prugnoli, ma ben sapendo - io, almeno, e il cuore mi batteva - che lo scopo
questa volta era la vipera. Fu mentre salivamo il sentiero tra i ginepri che
presi a parlare, imbaldanzito, dei leoni. Mi ero rimesso le scarpe, quasi a
scongiurare con un gesto da bravo ragazzo i pericoli impliciti nella resa di
conti serale. Fischiettavo.
- Piantala. Non è
così che si chiama la vipera, - brontolò il mio socio, fermandosi.
C'eravamo muniti di
due verghe a forcella, e con queste dovevamo inchiodare la bestia e ammazzarla.
Se anche nell'acqua eravamo andati in parecchi, sono certo che quel sentiero lo
salimmo noi due soli. Pale -ben diverso da me - camminava scalzo sui sassi e
sugli spini, senza badarci. Volevo dirglielo, quando d'improvviso si fermò
davanti a un roveto e cominciò a sibilare piano piano, sporto in avanti,
dondolando il capo. Il roveto usciva da uno scoscendimento roccioso, e di là si
vedeva il cielo.
- Era meglio se
acchiappavamo la serpe, - dissi, nel silenzio.
L'amico non rispose,
e continuò a sussurrare, come un filo d'acqua a un rubinetto. La vipera non
usciva.
Ci riscosse un
clamore improvviso sul vento, qualcosa come un urlo o uno scossone. Di nuovo,
dal paese, avevano chiamato: era la solita voce, lamentosa e rabbiosa: «Pale!
Pale!»
Pensai subito ai miei
di casa. Pale s'era fermato, a testa innanzi; dritto su una gamba sola, e mi
parve che facesse una delle sue smorfie diaboliche. Ma ecco che il silenzio
s'era appena rifatto, e di nuovo la voce - inumana in quel salto d'aria -
strillò «Pale! Pale! » E fu allora che il socio gettò, con rabbia il vincastro
e disse in fretta: - Quei bastardi. Se la vipera sente il nome mentre la
cerchiamo, poi mi conosce.
- Vieni via, - dissi
con un filo di voce. La vecchia maledetta continuava a chiamare. Me la vedevo
alla finestra, sbucare ogni tanto con un lattante in braccio e cacciare quello
strillo come se cantasse. Pale mi prese un bel momento per il polso e gridò «
Scappa ! » Fu una corsa sola fino alla piana; ci gridavamo «La vipera! » per
eccitarci, ma la nostra paura - la mia, almeno - era qualcosa di più complesso,
un senso di avere offeso le potenze, che so io, dell'aria e dei sassi.
Venne la sera e ci
trovò, seduti sui traversini del ponte. Pale taceva e sputava nell'acqua.
- Prendiamo il fresco
al balcone, - dissi a Pale. Era quella l'ora che tutte le donne del paese
cominciavano a chiamare questo e quello, ma per il momento c'era una pace
meravigliosa, e si sentiva soltanto qualche grillo.
«Non mi hanno ancora
chiamato», pensavo; e dissi:
- Perché non rispondi
quando ti chiamano? Questa sera te le dànno.
Pale alzò le spalle e
fece una smorfia. - Cosa vuoi che capiscano le donne.
- Davvero, se la
vipera sente un nome, poi lo viene a cercare?
Pale non rispose. A
forza di scappare di casa era diventato taciturno come un uomo.
- Ma allora il tuo
nome dovrebbero saperlo tutte le serpi di queste colline.
- Anche il tuo, -
disse Pale con un sogghigno.
- Ma io rispondo
subito.
- Non è questo, -
disse Pale. - Credi che alla vipera importi se fai il bravo ragazzo? La vipera
vuole ammazzare quelli che la cercano...
Ma in quel momento ricominciò
l'urlo di prima. La vecchia s'era rifatta alla finestra. Cigolarono le ruote di
un carro e s'udì il tonfo di un secchio nel pozzo. Allora m'incamminai verso
casa, e Pale rimase sul ponte.
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