Maurits Cornelis Escher - Farfalle
da “La nausea” – Jean Paul Sartre
(...)
Mi astenevo dal fare il minimo
movimento ma non avevo bisogno di muovermi
per vedere, dietro gli alberi, le colonne azzurre e il lampadario del
chiosco della musica, e la Velleda in mezzo ad un gruppo di allori. Tutti
questi oggetti… come dire?
M’infastidivano: avrei desiderato che esistessero in maniera meno forte, in un
modo più secco, più astratto, con più ritegno. Il castagno mi si premeva contro
gli occhi. Una ruggine verde lo copriva sino a mezz’altezza; la corteccia nera
e rigonfia sembrava dì cuoio bollito. Il tenue rumore d’acqua della fontana
Masqueret mi scorreva dentro le orecchie e vi si faceva un nido, le riempiva di
sospiri; le mie narici traboccavano d’un odore verde e putrido. Ogni cosa si
lasciava andare all’esistenza, dolcemente, teneramente, come quelle donne
stanche che s’abbandonano al riso e dicono: «Ridere fa bene» con voce molle; le
cose si stendevano l’una dì fronte all’altra facendosi l’abbietta confidenza
della propria esistenza. Compresi che non c’era via di mezzo tra l’inesistenza
e questa sdilinquita abbondanza. Se si
esisteva, bisognava esistere fin lì, fino alla muffa, al rigonfiamento,
all’oscenità. In un altro mondo, i circoli, le arie musicali conservano le loro
linee pure e rigide. Ma l’esistenza è un cedimento. Degli alberi, dei pilastri
blu-notte, il rantolo felice d’una fontana, degli odori acuti, dei piccoli
cirri di calore che fluttuavano nell’aria fredda, un uomo rosso che faceva il
chilo su una panchina: tutte queste sonnolenze, tutte queste digestioni prese
insieme offrivano un aspetto vagamente
comico. Comico...no: non arrivava a tanto, niente di ciò che esiste può essere
comico; era come un’analogia fluttuante, quasi inafferrabile, con certe
situazioni da operetta. Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati
da noi stessi, non avevamo la minima ragione d’esser lì, né gli uni né gli
altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto, sì sentiva di troppo in
rapporto agli altri. Di troppo: età il solo rapporto ch’io potessi stabilire
tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di
contare i castagni, di situarli in
rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani:
ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s’isolava, traboccava. Di
queste relazioni (che m’ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo
umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l’arbitrarietà;
non avevano più mordente sulle cose, Di troppo, il castagno, lì davanti a me,
un po’ a sinistra. Di troppo la Velleda…
(...)
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