31 ottobre 2017

Nevina [Biancaneve e i sette nani] - FAVOLE DI LIBERTÀ di Antonio Gramsci TRADUZIONI DALLE FIABE DEI FRATELLI GRIMM

FAVOLE DI LIBERTÀ di Antonio Gramsci
TRADUZIONI DALLE FIABE DEI FRATELLI GRIMM
Nevina [Biancaneve e i sette nani]
Una volta, si era nel cuore dell'inverno e i fiocchi di neve cadevano dal cielo come piume, una regina sedeva alla finestra incorniciata di ebano nero e cuciva. E mentre cuciva e guardava la neve, si punse con l'ago un dito e tre goccioline di sangue caddero sulla neve. Il rosso sulla candida neve appariva così bello che ella pensò: «Potessi avere un figlio bianco come la neve, rosso come il sangue e nero come il legno del cornicione».
Poco dopo le nacque una figlioletta che era bianca come la neve, rossa come il sangue e nera di capelli come l'ebano e fu perciò chiamata Nevina. Ma appena nata la bambina, la regina morì.
Un anno dopo il re prese un'altra moglie. Era una bella donna ma superba e arrogante e non poteva soffrire di essere superata in bellezza da chiunque. Essa possedeva uno specchio meraviglioso; quando vi si specchiava e si ammirava, diceva:
«Specchietto, specchietto alla parete,
chi è la più bella di tutta la terra?».
Lo specchio rispondeva:
«Signora, voi siete la più bella del mondo».
E la regina era contenta perché sapeva che lo specchio diceva la verità.
Intanto Nevina cresceva e diventava sempre più bella e quando ebbe sette anni era bella come un giorno sereno e più bella della stessa regina.
Quando questa domandò una volta al suo specchio:
«Specchietto, specchietto alla parete,
chi è la più bella di tutto il mondo?».
Lo specchio rispose:
«Signora regina, voi siete la più bella qui,
ma Nevina è mille volte più bella di voi!».
La regina inorridì e divenne gialla e verde per la gelosia.
Da quel momento quando vedeva Nevina, il cuore le si stringeva, tanto odiava la fanciulla. L'invidia e la boria crebbero come la gramigna nel suo cuore, sempre più grandi, tanto che non riusciva a trovar pace né di giorno, né di notte.
Chiamò un cacciatore e gli disse: «Porta via la bambina nella foresta; non la voglio più vedere dinanzi ai miei occhi. La devi ammazzare e portarmi come prova i suoi polmoni e il fegato».
Il cacciatore obbedì e condusse fuori Nevina, ma quando ebbe snudato il pugnale con cui ammazzava i cervi e stava per trafiggerle il cuore innocente, Nevina scoppiò in pianto e disse: «Ahimè, caro cacciatore, lasciami vivere; io correrò nella parte più selvaggia della foresta e non tornerò più a casa».
E poiché ella era così bella, il cacciatore ne ebbe pietà e le disse: «Scappa, dunque, povera bambina», e pensò: «Le bestie selvagge non tarderanno a divorarti». E tuttavia gli pareva che gli avessero levato una pietra dal cuore, perché non sarebbe riuscito ad ucciderla. E poiché un cinghialetto passava di là saltando, lo pugnalò, gli tolse i polmoni e il fegato e li consegnò alla regina come prova. Il cuoco dovette cucinarli in salsa piccante e la malvagia femmina li mangiò pensando di mangiare i polmoni e il fegato di Nevina.
Intanto la povera bambina era sola nella grande foresta ed era così angosciata che guardava tutte le foglie degli alberi e non sapeva cosa fare. Cominciò a correre. Corse sopra le pietre aguzze e tra le spine e le bestie selvagge le saltavano accanto, ma non le facevano nulla. Corse, finché i piedi poterono correre, fin quando venne la sera e vide una casettina ed entrò per riposarsi.
Nella casettina tutto era piccolo, ma così grazioso e pulito da non dirsi. C'era un tavolino coperto da una bianca tovaglia con sette piattini, ogni piattino con un cucchiaino e più in là sette coltellini, sette forchettine e sette bicchierini. Lungo la parete erano disposti sette lettini uno vicino all'altro, ricoperti da lenzuola bianche come la neve.
Nevina, che aveva molta fame e molta sete, mangiò da ogni piattino un pochino di legumi e di pane e bevette da ogni bicchierino una goccia di vino, perché non voleva prendere tutto ad uno solo. Poi, siccome era molto stanca, si distese su un lettino, ma nessuno era adatto per lei: uno era troppo lungo, l'altro troppo corto, solo il settimo andava bene; vi si coricò e si addormentò.
Quando venne la sera, arrivarono i padroni della casettina: erano sette nani che spaccavano e scavavano nei monti per trovare metalli. Essi accesero i loro sette lumicini e quando la casettina fu illuminata guardarono se vi era stato qualcuno poiché tutto non era nell'ordine che avevano lasciato.
Il primo disse: «Chi si è seduto sulla mia seggiolina?».
Il secondo: «Chi ha mangiato nel mio piattino?».
Il terzo: «Chi ha preso un po' del mio panino?».
Il quarto: «Chi ha mangiato un po' dei miei legumi?».
Il quinto: «Chi ha infilato con la mia forchettina?».
Il sesto: «Chi ha tagliato col mio coltellino?».
Il settimo: «Chi ha bevuto dal mio bicchierino?».
Poi il primo guardò intorno e vide che sul suo lettino c'era un nastrino e disse: «Chi si è coricato nel mio lettino?».
Gli altri corsero ognuno al suo letto e gridarono: «Anche nel mio qualcuno si è coricato!».
Il settimo quando guardò il suo letto, vide Nevina, che vi era coricata e dormiva. Chiamò gli altri che accorsero e gridando per la meraviglia, portarono i loro sette lumini e illuminarono la fanciulla.
«Buon Dio, buon Dio - gridavano - che bella bambina», ed erano così contenti che non la svegliarono, ma la lasciarono continuare a dormire nel lettino. Il settimo gnomo dormì nel letto dei suoi colleghi, un'ora nel letto di ciascuno finché la notte passò.
Quando fu mattino, Nevina si svegliò e appena vide i sette gnomi, ebbe paura. Ma essi la trattarono amichevolmente e domandarono: «Come ti chiami?».
«Mi chiamo Nevina», rispose lei.
«Come sei venuta nella nostra casettina?», domandarono ancora gli gnomi.
Essa raccontò loro che la sua matrigna aveva comandato di ucciderla, ma che il cacciatore l'aveva risparmiata, e che allora aveva corso tutto il giorno fino a quando aveva trovato la loro casetta.
Gli gnomi dissero: «Se vuoi accudire alla nostra casa, fare la cucina, rifare i letti, fare il bucato, cucire, fare le calze e se manterrai tutto in ordine e pulito, puoi rimanere con noi e nulla ti mancherà».
«Sì - rispose Nevina, - di cuore, volentieri». E rimase con loro.
Ella tenne la loro casa in ordine; al mattino essi andavano nei monti a cercare metalli, specialmente oro, di sera tornavano a casa e trovavano tutto pronto per mangiare. Lungo il giorno la fanciulla rimaneva sola e i bravi gnomini l'avvertirono: «Sta' in guardia contro la tua matrigna, che presto verrà a sapere che sei qui: non fare entrare mai nessuno».
La regina intanto, da quando credeva di aver mangiato i polmoni e il fegato di Nevina, non pensava ad altro se non che era nuovamente la prima e la più bella di tutte, un giorno andò allo specchio e disse:
«Specchio, specchietto, che sei alla parete,
chi è la più bella di tutto il mondo?».
E lo specchio rispose:
«Signora regina, voi siete la più bella qui,
ma Nevina sui monti,
presso i sette gnomi,
è mille volte più bella di te».
La regina si sbigottì perché sapeva che lo specchio non poteva mentire e capì che il cacciatore l'aveva ingannata e Nevina era ancora viva. E meditò, meditò, come potesse ucciderla; da quando sapeva di non essere la più bella del mondo, l'invidia non le lasciava più pace. Quando ebbe concluso le sue meditazioni, si tinse il viso e si vestì come una vecchia merciaiola ambulante: era del tutto irriconoscibile.
Così conciata andò verso i sette monti, giunse alla casettina degli gnomi, bussò alla porta e gridò: «I begli oggetti, comprate, comprate!».
Nevina guardò dalla finestra e disse: «Buon giorno, cara signora, cosa vendete?».
«Buone cose, bellissime cose - rispose, - nastri di tutti i colori», e ne mostrò uno che era intessuto di sete multicolori.
«Posso lasciare entrare questa onesta donna», pensò Nevina, tolse il catenaccio alla porta e comprò il grazioso nastro.
«Bambina - disse la vecchia, - che bel visino hai! Vieni, ti voglio annodare io il nastro proprio bene!».
Nevina non aveva nessuna malizia, le si pose innanzi e si lasciò accomodare il nuovo nastro; ma la vecchia annodò in fretta e così forte che a Nevina mancò il respiro e cadde a terra come morta. «Adesso sei stata la più bella», disse e si allontanò in fretta.
Non molto dopo, verso sera, i sette gnomi tornarono a casa. Ma come si spaventarono quando videro la loro cara Nevina che giaceva a terra e non si muoveva, irrigidita, come fosse morta!
La sollevarono e quando videro che era allacciata troppo forte, tagliarono la cintura; ella cominciò a respirare un poco, e piano piano ritornò in vita. Quando gli gnomi sentirono ciò che era successo, dissero:
«La vecchia merciaiola non era altro che la malvagia regina; sta' in guardia e non lasciare entrare nessuno quando noi non siamo in casa».
Intanto la donna scellerata, appena tornata a casa andò dinanzi allo specchio e domandò:
«Specchio, specchietto, che sei alla parete,
chi è la più bella di tutto il mondo?».
E lo specchio rispose:
«Signora regina, voi siete la più bella qui,
ma Nevina sui monti,
presso i sette gnomi,
è mille volte più bella di voi».
Tutto il sangue affluì al cuore della regina, tanto fu sbigottita quando seppe che Nevina era tornata in vita.
«Adesso però - disse, - voglio inventare qualche cosa che la perderà definitivamente». E con l'arte delle streghe che ella conosceva, costruì un pettine avvelenato. Quindi si travestì e prese l'aspetto di un'altra vecchia. Andò sui sette monti, in casa dei sette gnomi, bussò alla porta e gridò: «Begli oggetti, comprate, comprate!».
Nevina guardò fuori e disse: «Andate, andate via, io non devo aprire a nessuno».
«Ma vedere ti sarà almeno permesso», disse la vecchia, prese il pettine e lo sollevò in alto. Il pettine piacque tanto alla fanciulla che si lasciò sedurre e aprì la porta.
«Ti voglio io stessa pettinare per benino». La povera fanciulla non pensava a niente di male e lasciò fare alla vecchia, ma appena il pettine fu piantato fra i capelli, il veleno operò e la fanciulla cadde a terra priva di sensi.
«Oh portento di bellezza - disse la malvagia femmina, - adesso è finita per te». E se ne andò via.
Per fortuna era quasi sera e i sette gnomi tornarono presto a casa. Appena videro Nevina stesa a terra come morta, sospettarono della matrigna, cercarono attentamente e trovarono il pettine avvelenato; appena lo ebbero tolto, Nevina tornò in sé e raccontò ciò che era avvenuto. Essi l'avvertirono ancora di stare in guardia e di non aprire la porta a nessuno.
La regina andò dinanzi allo specchio e domandò:
«Specchio, specchietto alla parete,
chi è la più bella di tutto il mondo?».
E lo specchio rispose:
«Signora regina, voi siete la più bella qui,
ma Nevina sui monti,
presso i sette gnomi,
è mille volte più bella di voi».
Quando sentì che lo specchio parlava così, la regina ebbe un brivido, e tremò tutta per la collera. «Nevina deve morire - gridò - anche se dovesse costarmi la vita». Si recò in una stanza solitaria e del tutto segreta, dove non entrava mai nessuno e preparò una mela velenosissima. Di fuori era bella, bianca e rossa, così che a chi la guardava veniva l'acquolina in bocca, ma se se ne mangiava un pezzettino, si moriva.
Quando la mela fu pronta, si tinse la faccia e si travestì da contadina e se ne andò sui sette monti presso i sette gnomi.
Bussò alla porta; Nevina mise fuori il capo dalla finestra e disse: «Non posso lasciar entrare nessuno, i sette gnomi me l'hanno proibito».
«Non importa - rispose la contadina, - voglio liberarmi delle mie mele. Ecco, te ne regalerò una».
«No - disse Nevina, - non posso accettare nulla».
«Hai forse paura che sia avvelenata? - disse la vecchia. - Vedi, io taglio la mela in due: il rosso lo mangerai tu e il bianco lo mangerò io».
La mela era stata preparata in modo che solo la parte rossa era avvelenata. Nevina aveva voglia della bella mela e quando vide che la contadina la mangiava, non poté resistere più a lungo, stese la mano fuori e prese la metà avvelenata. Appena però ne ebbe un pezzettino in bocca, cadde a terra morta.
La regina la osservò con occhio crudele, ridendo rumorosamente e disse: «Bianca come la neve, rossa come il sangue, nera come l'ebano! Questa volta gli gnomi non ti risveglieranno».
Appena a casa interrogò lo specchio:
«Specchio, specchietto alla parete,
chi è la più bella di tutto il mondo?».
E finalmente le rispose così:
«Signora regina, voi siete
la più bella del mondo».
Il suo cuore invidioso ebbe pace, così come un cuore invidioso può aver pace.
Gli gnomini, quando la sera tornarono a casa trovarono Nevina stesa per terra, e dalla sua bocca non usciva nessun respiro; era morta. Essi la sollevarono, le pettinarono i capelli, la lavarono con acqua e vino, ma nulla le giovò; la cara giovinetta era morta e rimase morta. La caricarono su un cataletto, si sedettero tutti e sette vicino là e piansero, piansero tre lunghi giorni.
La volevano seppellire, ma ella appariva fresca, come se fosse ancora viva, e conservava le sue belle guance rosse. Essi dissero: «Non possiamo seppellirla nella nera terra», e fecero costruire una bara trasparente di vetro, così che si poteva vedere da ogni parte; ve la coricarono e sopra vi scrissero in lettere d'oro il suo nome, e che era la figlia di un re. Posero quindi la bara sulla cima del monte e uno di loro rimaneva sempre vicino a custodirla. E anche gli animali venivano e piangevano Nevina, prima un gufo, poi un corvo e infine una colomba.
Or dunque Nevina giacque per lungo tempo nella bara di vetro e non si decompose, ma invece pareva che dormisse, poiché era sempre bianca come la neve, rossa come il sangue e coi capelli neri come l'ebano.
Accadde che un figlio di re attraversò la foresta e si fermò alla casa degli gnomi per passar la notte. Egli vide sul monte la bara di vetro con la bella Nevina dentro e lesse ciò che sopra vi era scritto a lettere d'oro. E disse agli gnomi:
«Datemi la bara e io vi darò il prezzo che vorrete».
Ma gli gnomi risposero: «Noi non la diamo per tutto l'oro del mondo».
Disse il figlio del re: «Allora regalatemela, perché io non potrò più vivere senza vedere Nevina; la onorerò e la custodirò come la mia cosa più cara».
Poiché parlò così gli gnomi ne ebbero compassione e gli dettero la bara. Il figlio del re la fece portar via sulle spalle dai suoi domestici. Ora accadde che questi incespicarono in un cespuglio, e per l'urto il pezzettino di mela avvelenata che Nevina aveva tra i denti, le cadde sul collo. Poco dopo ella aprì gli occhi, sollevò il coperchio della bara di vetro, si rizzò e ritornò in vita.
«Ahimè, dove sono?», gridò.
Il figlio del re tutto lieto disse: «Sei con me», e le raccontò ciò che era successo, aggiungendo: «Io ti amo più di qualsiasi cosa al mondo; vieni con me nel castello di mio padre e sarai mia moglie».
Nevina accettò e andò con lui e le loro nozze furono preparate con la più grande magnificenza e splendore.
Alla festa fu invitata anche la malvagia matrigna di Nevina. Dopo che si fu vestita con abiti bellissimi, andò allo specchio e domandò:
«Specchio, specchietto che sei alla parete,
chi è la più bella del mondo?».
E lo specchio rispose:
«Signora regina, qui siete la più bella,
ma la giovane regina
è mille volte più bella di voi».
La malvagia femmina lanciò un'imprecazione e sentiva un'angoscia, un'angoscia che non voleva lasciarla. In principio non voleva assolutamente andare alle nozze, ma poiché il pensiero non la lasciava in pace, dovette uscire e andare a vedere la giovane regina. Appena entrò, riconobbe Nevina e per il dolore e la paura rimase di stucco e non poté più muoversi.
Ma già erano state poste ad arroventare sul fuoco un paio di scarpette di ferro, che furono prese con le tenaglie e le furono messe innanzi. Ella dovette infilare quelle scarpe roventi ai piedi e ballare, ballare finché cadde a terra morta.

Elsa la furba - da FAVOLE DI LIBERTÀ di Antonio Gramsci TRADUZIONI DALLE FIABE DEI FRATELLI GRIMM

FAVOLE DI LIBERTÀ di Antonio Gramsci
TRADUZIONI DALLE FIABE DEI FRATELLI GRIMM
Elsa la furba
C'era un uomo che aveva una figlia, chiamata Elsa la furba.
Quando fu cresciuta, il padre disse: «Bisogna trovarle un marito».
«Sì - disse la madre, - bisogna trovare uno che la voglia».
Finalmente venne di lontano un tale chiamato Giovanni, che voleva sposarla, ma pose la condizione che Elsa la furba fosse davvero molto giudiziosa.
«Oh - disse il padre, - ha molto cervello in testa!».
E la madre aggiunse: «Vede il vento nella strada e sente tossire le mosche».
«Sì - concluse Giovanni, - se non è molto giudiziosa, io non la prendo».
Quando sedettero a tavola e dopo aver mangiato, la madre disse: «Elsa, va' in cantina e porta su della birra».
Elsa la furba staccò il boccale dal muro, andò in cantina e strada facendo sbatteva il coperchio per non annoiarsi.
Arrivata giù, prese un banchetto e lo pose dinanzi alla botte, per non doversi curvare e per non farsi male, caso mai, alle spalle e non procurarsi qualche danno inaspettato. Quindi mise il boccale al suo posto e aprì la cannella; mentre la birra cadeva giù, perché i suoi occhi non rimanessero inoperosi, guardò la parete in alto di qua e di là e notò proprio sopra di sé un coltello, che i muratori inavvertitamente vi avevano piantato.
Elsa la furba cominciò allora a piangere e disse:
«Se sposo Giovanni e abbiamo un figlio ed egli diventa grande e lo mandiamo in cantina a spillare la birra, allora gli casca il coltello sulla testa e lo uccide».
Si sedette, e pianse e si mise a urlare con tutte le forze che aveva in corpo, sulla disgrazia imminente.
Quei di sopra aspettavano per bere, ma Elsa la furba non veniva mai. Allora la signora disse alla domestica: «Vai giù in cantina a vedere perché Elsa ritarda tanto».
La domestica andò e la trovò che, seduta dinanzi alla botte, gridava forte.
«Elsa, perché piangi?», domandò.
«Ahimè! - rispose, - e come potrei non piangere? Quando sposerò Giovanni, avremo un figlio, egli diventerà grande e dovrà venir qui a spillare la birra, allora forse quel coltello gli cadrà sulla testa e lo ucciderà».
La domestica disse: «Ma che furba Elsa abbiamo!», le si sedette vicino e incominciò anche lei a piangere sulla disgrazia.
Dopo un poco, poiché neanche la domestica ritornava, e quei di sopra avevano sempre più sete, il padrone disse al domestico: «Vai giù in cantina e vedi perché Elsa e la domestica tardano tanto!».
Il domestico scese e vide Elsa la furba e la domestica che, sedute, piangevano. Domandò: «Perché dunque piangete?».
«Ahimè - rispose Elsa, - come potrei non piangere? Quando sposerò Giovanni, avremo un figlio, che diventerà grande e verrà qui a spillare la birra, allora quel coltellaccio gli cadrà sulla testa e lo ucciderà».
Il domestico esclamò: «Ma che furba di una Elsa abbiamo!», si sedette vicino a loro e cominciò a ululare a grandissima voce.
Su aspettavano il domestico, ma siccome egli non tornava mai, il marito disse alla moglie: «Va' dunque tu in cantina e vedi perché Elsa ritarda».
La moglie scese e trovò i tre in lacrime e ne domandò la causa; anche a lei Elsa raccontò che il suo futuro figlio sarebbe stato ucciso dal coltello quando sarebbe stato grande e avesse voluto spillare la birra, e il coltello gli sarebbe caduto addosso.
Anche la madre esclamò: «Ma che furba di una Elsa abbiamo!», si sedette e pianse a dirotto.
Il marito sopra aspettò un po', ma poiché la moglie non tornava e la sua sete diventava sempre più forte disse: «Andrò io stesso in cantina e vedrò perché Elsa non viene».
Quando però giunse in cantina vide tutti che sedevano in fila e piangevano e ne udì la ragione e che la colpa era del figlio che Elsa, un giorno, avrebbe messo al mondo e che avrebbe potuto essere ammazzato dal coltello, poiché certamente nel momento in cui questo sarebbe caduto, il figlio sarebbe stato seduto sotto la botte a spillare la birra, allora gridò: «Ma che furba di una Elsa!», si sedette e pianse anch'egli come gli altri.
Il fidanzato rimase a lungo solo di sopra, e poiché nessuno tornava, pensò: «Forse m'aspettano sotto, bisogna che scenda per vedere che cosa fanno».
Scese e li trovò tutti e cinque che gridavano e si lamentavano pietosissimamente, uno più dell'altro.
«Che disgrazia è accaduta?», domandò.
«Ahimè, caro Giovanni - rispose Elsa, - quando ci sposeremo e avremo un figlio, e crescerà e noi forse lo manderemo qui a spillare la birra, allora quel coltello che è rimasto lassù piantato, se cadrà, gli fracasserà la testa ed egli morirà; come possiamo non piangerlo?»
«Orsù - disse Giovanni, - un maggior senno non è necessario per governare la casa; poiché sei una Elsa così furba, io ti voglio per moglie», la prese per mano, la ricondusse su e la sposò.
Dopo un po' di tempo Giovanni disse: «Moglie, devo andare a lavorare per guadagnare un
po' di denaro; tu va' nel campo e mieti il grano, perché non ci manchi il pane».
«Sì, mio caro Giovanni, lo farò».
Dopo che Giovanni fu partito, si preparò una buona polenta e se la portò nel campo. Quando arrivò cominciò a domandarsi: «Che devo fare? Mieto prima o mangio prima? Ebbene, prima mangerò».
Si mangiò tutta la pentola di polenta e quando fu sazia, si domandò ancora: «Che cosa devo fare? Mieto prima o prima dormo? Ebbene, voglio prima dormire».
Si sdraiò sul grano e si addormentò.
Giovanni era già tornato a casa da un pezzo, ma Elsa non ritornava mai e Giovanni disse: «Ma che furba di una Elsa ho preso per moglie: è così laboriosa, che non torna mai a casa e si dimentica di mangiare».
Poiché la moglie non rincasava ed era venuta la sera, Giovanni uscì per vedere quanto grano avesse falciato; ma non c'era nulla di mietuto ed Elsa, sdraiata fra le spighe, dormiva.
Giovanni tornò rapidamente a casa, prese una rete da uccellare con tanti campanellini e gliela distese sul corpo; ed ella continuava a dormire della più bella. Quindi Giovanni tornò a casa, chiuse a chiave la porta, si sedette su una sedia e si mise al lavoro.
Finalmente quando già era buio, Elsa la furba si svegliò e quando si levò qualche cosa la imbarazzava e ad ogni suo passo i campanellini tintinnavano. Si spaventò, non fu più sicura di essere veramente Elsa la furba e si disse: «Sono o non sono io?».
Ma non sapeva che cosa rispondere a questa domanda e rimase a lungo dubbiosa; finalmente pensò: «Andrò a casa e domanderò se sono io o se non lo sono; loro lo sapranno».
Corse alla porta di casa, ma la trovò sprangata; bussò alla finestra e gridò: «Giovanni, Elsa è in casa?».
«Sì - rispose Giovanni, - è in casa».
Elsa, spaventata, esclamò: «Dio mio, dunque non sono io», e andò a un'altra porta: ma la gente udendo il tintinnio dei campanelli non le volle aprire ed ella non trovò ricovero in nessun posto.
Allora scappò dal villaggio e nessuno più la rivide.

Il pellegrinaggio di Mignoletto - da FAVOLE DI LIBERTÀ di Antonio Gramsci, traduzione

FAVOLE DI LIBERTÀ di Antonio Gramsci
TRADUZIONI DALLE FIABE DEI FRATELLI GRIMM
Il pellegrinaggio di Mignoletto
Un sarto aveva un figlio che era nato piccolissimo, non più grande del dito mignolo, e perciò fu chiamato Mignoletto. Aveva però in petto un cuore ardito e un giorno disse a suo padre: «Padre, devo andare in giro per il mondo».
«Bene, figlio mio - disse il vecchio, prese un grosso ago da rammendo, vi applicò un piccolo manico di ceralacca scaldata sul lume - ed eccoti la spada per difenderti lungo la strada».
Il piccolo sartorello volle ancora una volta mangiare in famiglia e saltellò in cucina, per vedere cosa la madre avesse preparato di buono. Ma quando arrivò, la pentola era sul fuoco. Egli disse: «Signora madre, che cosa c'è da mangiare oggi?».
«Guarda tu stesso», disse la madre. Mignoletto saltò sul focolare e sbirciò nella pentola, ma allungò troppo il collo, il vapore della pietanza lo avvolse e lo spinse su per il camino.
Per un po' cavalcò sul vapore nell'aria, finché ricadde sulla terra. Ed ecco che il piccolo sartorello si trovò fuori, nel vasto mondo; andò in giro e capitò presso un maestro del suo mestiere, cioè un caposarto; ma lì si mangiava male.
«Signor caposarto, se non mi date da mangiare meglio - disse Mignoletto - io me ne andrò e domani mattina presto scriverò col gesso sulla vostra porta: troppe patate, pochissima carne; o re delle patate, addio!».
«Che cosa vuoi, cavalletta?», gridò il sarto, si incollerì, prese un cencio e glielo gettò contro; il sartorello strisciò agilmente sotto un ditale, dette una guardatina di sotto in su, e cacciò fuori la lingua alla signora sarta.
Questa sollevò il ditale e volle acchiapparlo, ma il piccolo Mignoletto saltò nel cencio e quando la sarta gettò via lo straccio per cercarlo, si cacciò in un tiretto del tavolo.
«Ehi, ehi, marameo signora sarta», gridò e sollevò la testa e quando ella volle chiudere il cassetto, saltò giù nel cassettino. Finalmente la donna lo afferrò e lo cacciò fuori di casa.
Il sartorello si mise in cammino e giunse in una grande foresta; si trovò dinanzi ad una casa di briganti, che avevano l'intenzione di rubare il tesoro del re. Quando videro Mignoletto pensarono: «Un bricconcello così può entrare dal buco della serratura e servirci da grimaldello».
«Olà - gridò uno, - o gigante Golia, vuoi venire con noi nella camera del tesoro? Tu puoi scivolare dentro e gettar fuori il denaro».
Mignoletto rifletté, alla fine disse «sì» e andò con loro verso la camera del tesoro. Osservò bene la porta sopra e sotto, per vedere se c'era una fessura. Dopo poco tempo ne scoperse una che era abbastanza larga perché potesse passarvi. Vi penetrò, ma una delle sentinelle che stavano davanti alla porta, se ne accorse e disse all'altra: «Che orribile ragno striscia là! Lo schiaccerò». «Lascia stare la povera bestia - disse l'altra sentinella, - non ti ha fatto nulla».
Così Mignoletto poté felicemente entrare nella tesoreria attraverso la fessura, aprì la finestra sotto la quale stavano i ladri e lanciò loro uno scudo dopo l'altro.
Mentre il sartorello era nel mezzo del suo lavoro, sentì arrivare il re, il quale voleva vedere il suo tesoro, e rapidamente si nascose. Il re si accorse che molti dei suoi preziosi scudi mancavano, ma non poté capire chi potesse averli rubati perché la serratura e il catenaccio erano in buono stato e tutto sembrava ben custodito.
Tornò indietro e disse alle due sentinelle: «State attente, qualcuno sta dietro il denaro».
Quando Mignoletto ricominciò il suo lavoro, sentirono il denaro muoversi e tintinnare klipp, klapp, klipp, klapp.
Accorsero rapidamente per agguantare il ladro. Ma il sartorello che li sentì arrivare, fu più rapido, corse in un angolo e si coprì con uno scudo, in modo che non si potesse vedere nulla di lui e per giunta si beffò delle sentinelle gridando: «Son qui!».
Le sentinelle accorsero, ma mentre si muovevano, Mignoletto era già sotto un altro scudo in un altro angolo e gridava: «Eccomi qua».
Le sentinelle accorsero in fretta, ma Mignoletto era già in un terzo angolo e gridava: «Eccomi qua!» E così li canzonò e li fece correre tanto qua e là per la stanza, finché si stancarono e se ne andarono. Allora
egli gettò tutti gli scudi fuori uno dopo l'altro: l'ultimo lo scagliò con tutta la sua forza, quindi vi saltò su agilmente e volò giù dalla finestra.
I ladri gli fecero grandi lodi: «Tu sei il più grande degli eroi - dissero, - vuoi essere il nostro capitano?».
Mignoletto li ringraziò ma disse che prima voleva vedere il mondo. Si divisero il bottino, ma il sartorello prese solo un soldo perché non poteva portarne di più.
Quindi si riagganciò la spada al fianco, augurò il buon giorno ai ladri e prese la strada fra le gambe. Andò da alcuni sarti, ma nessuno volle assumerlo; finalmente entrò in servizio in un albergo come domestico. Ma le cameriere non lo potevano soffrire perché senza che lo potessero vedere, egli vedeva tutto ciò che esse facevano di nascosto e denunciava ai padroni ciò che avevano preso dai piatti e ciò che portavano via dalla cantina. A un certo punto dissero: «Aspetta, ti vogliamo conciare per le feste!», e si concertarono tra di loro per giocargli un brutto tiro. Poco dopo una domestica che falciava nell'orto, visto Mignoletto che saltellava e strisciava qua e là, lo falciò insieme all'erba, legò il tutto con un grande fazzoletto e di nascosto lo gettò dinanzi alle vacche. Tra le altre ce n'era una grande e nera che lo inghiottì col resto, senza fargli male. Ma a lui non piaceva star là dentro, perché era molto buio e non si vedeva nessuna luce. Mentre la mucca veniva munta, gridò:
«Strip, strap, strop,
è pieno il secchio?».
Ma per il rumore della mungitura non fu sentito.
Poco dopo giunse nella stalla il padrone e disse: «Domani questa mucca sarà macellata».
Una tale angoscia si impadronì di Mignoletto che egli gridò con voce chiara: «Fatemi prima uscire, son qui dentro!».
Il padrone lo udì benissimo, ma non riuscì a capire da dove venisse la voce. «Dove sei?», domandò.
«Nella nera», rispose, ma il padrone non capì che cosa significasse e andò via.
Il giorno dopo la mucca fu macellata. Fortunatamente, mentre la smembravano e la tagliavano a pezzi, Mignoletto non ricevette nessun colpo e capitò fra la carne da salsiccia. Quando il macellaio cominciò a lavorarsela, egli gridò a squarciagola: «Non tagliare troppo, non tagliare fino in fondo, perché ci sono io».
A causa del rumore dei coltellacci, nessuno lo sentì. Mignoletto si trovò a mal partito, ma il bisogno fa correre anche i vecchi e saltò così destramente tra i coltellacci che non fu toccato e rimase illeso.
Però non poteva più scappare; non c'era che un mezzo: dovette lasciarsi cacciare insieme a dei pezzi di lardo in un sanguinaccio. L'alloggio era alquanto stretto e inoltre fu appeso sul focolare ad affumicare e il tempo e l'ozio divennero terribilmente lunghi.
Finalmente nell'inverno fu tirato giù perché il sanguinaccio doveva essere offerto a un ospite. Quando la massaia lo tagliò a fette, Mignoletto stette attento a non allungare troppo la testa, perché non gli fosse
tagliato il collo; infine colse il momento opportuno, si fece largo e saltò fuori.
Ma non volle rimanere più a lungo in quella casa, dove aveva sofferto tanti mali, perciò si rimise al più presto in viaggio.
Purtroppo la sua libertà non durò a lungo.
In aperta campagna incontrò per la strada una volpe, che senza pensarci troppo lo inghiottì.
«Ehi, signora volpe - gridò il sartorello, - io sono ancora nella vostra gola, lasciatemi uscire in libertà».
«Hai ragione - rispose la volpe, - a inghiottirti è come se non inghiottissi nulla; promettimi i galletti che sono nel cortile di tuo padre, ed io ti lascerò libero».
«Volentieri, di tutto cuore - rispose Mignoletto, - avrai tutti i galletti, te lo prometto».
La volpe lo lasciò libero e anzi lo portò lei stessa a casa.
Quando il padre rivide il suo caro figliolino, volentieri dette alla volpe tutti i galletti che aveva.
«In più ti voglio dare una bellissima moneta», disse Mignoletto e le consegnò il soldo che aveva riportato dal suo pellegrinaggio.
«Ma perché la volpe si ebbe in dono i poveri galletti da divorare?».
«Sciocco che sei, anche per tuo padre sarà più caro suo figlio che i galletti del cortile».