30 agosto 2019

da Dalle parti degli infedeli - Leonardo Sciascia

da Dalle parti degli infedeli - Leonardo Sciascia

Probabilmente Monsignor Ficarra seppe subito, con candore e dolore, dare un nome all’anonimo. Ma non se ne curò poi tanto: conosceva i difetti e le colpe di coloro che l’anonimo chiamava per nome, ma sapeva anche quanto peggiori fossero quei “sacerdoti di retto sentire” i cui nomi, e primamente il proprio, l’anonimo taceva.. Più forse l’angustiava, in quei giorni, la lettera della Sacra Congregazione Concistoriale inviata agli Eccellentissimi Ordinari d’Italia. Datata 31 marzo 1947, protocollo numero 216/45, firmata dal cardinale Rossi, la lettera diceva:

Eccellenza reverendissima.
Già due volte nell’anno 1945 questa Sacra Congregazione per Augusto mandato si rivolse agli Ecc.mi Ordinari d’Italia per richiamare – se pur ve ne fosse bisogno -  la Loro attenzione sul dovere pastorale di istruire i fedeli in occasione e in prossimità di particolari eventi dai quali dipendevano le sorti del Paese nell’ordine, sovra tutto, morale e sociale.
Sa bene questa Sacra Congregazione come gli Ecc.mi Arcivescovi e Vescovi adempirono i doveri del Loro sacro ministero, istruendo in omni patientia et doctrina, e come poterono così conseguire, in genere, consolanti resultati; è pur sicura questa medesima S. Congregazione che al rinnovarsi della circostanze gli stessi Ecc.mi Presuli ripeteranno, in tempo opportuno, e continueranno sine intermissione, i Loro solerti insegnamenti; pur nonostante questo Sacro Dicastero vuole ancora ripetere, confortato dalla Superiore approvazione, essere necessario impartire ai fedeli chiaramente e ripetutamente, sia che si tratti di elezioni politiche o di elezioni amministrative, di elezioni nazionali o di elezioni regionali, le seguenti norme:
1) In considerazione dei pericoli, ai quali sono esposti la religione e il bene pubblico, e la cui gravità esige la collaborazione concorde degli onesti, tutti coloro, che hanno diritto di voto, , di qualsiasi condizione, sesso od età, senza alcuna eccezione, e perciò anche se professano un particolare religioso tenor di vita, sono in coscienza strettamente e gravemente obbligati a fa uso di quel diritto.
2) I Cattolici possono dare il loro voto soltanto a quei candidati o a quelle liste di candidati, di cui si ha la certezza che rispetteranno e difenderanno l’osservanza della legge divina e i diritti della religione e della Chiesa nella vita privata e pubblica.
Quanto più il programma e l’azione pratica dei singoli candidati o di una lista di candidati renderanno giustificata e fondata quella certezza, con tanta maggiore tranquillità di coscienza i Cattolici potranno votare in loro favore.
In attesa di cortese cenno di ricevuta della presente, con distinto ossequio mi professo
dell’Ecc. Vostra Rev.ma
come fratello

L’anno precedente, alle elezioni amministrative, non “consolanti resultati” si erano avuti a Patti: La Democrazia Cristiana era stata sconfitta, la meglio avevano avuto due liste in cui si erano coalizzati, e al tempo stesso divisi, laici e comunisti: e dalla Democrazia Cristiana la responsabilità era stata attribuita al vescovo. In data 22 ottobre 1946, il segretario della sezione democristiana notificava a monsignor Ficarra la sconfitta (che certo il vescovo non ignorava) e le proprie dimissioni:

… compio l’ingrato dovere di significare alla Ecc. Vostra Rev.ma che a Patti, nelle elezioni amministrative, ha vinto il comunismo… È vergogna, se non delitto imperdonabile, che sia avvenuto a Patti, sede Vescovile… Dappertutto si lavora per Dio, a Patti si è lavorato per Satana… Cosciente di aver compiuto il mio dovere di sacerdote e cittadino lascio il mio posto di combattimento, non senza però elevare una parola di forte biasimo contro tutti coloro che hanno tradito la Democrazia Cristiana, e per conseguenza la Chiesa… Mi auguro che l’Autorità Ecclesiastica per il bene comune, della Chiesa e di Patti, intervenga subito a risolvere la crisi che travaglia i vari ceti sociali da essa dipendenti, con provvedimenti energici e con assistenza continua e intelligente, se non si voglia correre il rischio di avere a Patti definitivamente oltre la sede del Vescovo anche quella di Stalin.

Cinque giorni dopo, si riuniva, per prendere atto delle dimissioni del segretario, il Consiglio della Democrazia Cristiana. Della riunione veniva redatto un verbale in cui tra le tante cose “considerate” una ce n’era di diretta accusa al vescovo:

Considerato che il Vescovo di Patti, nella preparazione delle elezioni preferì godersi l’aria della sua Canicattì, anziché portare il suo contributo alla Democrazia Cristiana e che, ritornato in sede il 14 ottobre, cioè alla vigilia delle elezioni, inviò dal Vicario Generale una commissione di donne, che era andata per protestare contro la indegna condotta del Clero, e che il Vicario Generale, anziché ascoltarle benignamente, la trattò male…

Dicitura invero poco chiara, , per quell’inviò che va così sciolto: non volle ricevere quella delegazione di donne; la scrollò, che ne ascoltasse la protesta, sul vicario. E il vicario, o perché quanto il vescovo insofferente a quella protesta, o per protesta contro il vescovo che gli rifilava quella seccatura, o per insieme le due ragioni, la trattò male. Ferita che, , tra le tante inferte alla Democrazia Cristiana di Patti, era la più profonda; sicché, dopo la finale considerazione, che “i seicentottantadue democristiani rimasti fedeli” non erano più disposti a tale fedeltà ove “il Vescovo di Patti non punisca i colpevoli e non collabori con tutte le forze dipendenti a favore della Democrazia Cristiana” il Consiglio, unanime, e sempre protestando contro i traditori, si dimetteva.
Copie del verbale furono mandate al papa, alla Concistoriale, alla Segreteria di Stato del Vaticano, al Vescovo di Patti e a quello di Agrigento (poiché conteneva anche accuse a un prete della diocesi agrigentina). A quanto pare, la copia destinata a monsignor Ficarra fu portata a mano da una commissione di democristiani che voleva a voce ribadirla e chiosarla: ma il vescovo non volle riceverla. Gliela mandarono per posta, e accompagnata da una lettera di deplorazione:

Memore dell’evangelico “bussate e vi sarà aperto” era venuta la Commissione suddetta a bussare al Vostro cuore paterno per ricevere conforto ed aiuto nell’ora triste che i sinceri democratici cristiani pattesi attraversano; ma non le fu aperto. In simili circostanze nessuna decisione poteva prendere il Consiglio direttivo della Sezione tranne quella di dimettersi; ciò non significa che abbia voluto ratificare l’atto di morte della Democrazia Cristiana pattese. Significa, invece, che il Consiglio vuole che essa risorga dalla sconfitta più robusta e più decisa a combattere per l’affermazione dei principi sociali della Chiesa: la Sezione democristiana di Patti sarà, cioè, ricostituita con l’aiuto di Dio e con la buona volontà di quegli uomini che ad essa, nelle elezioni politiche ed in quelle amministrative, consacrarono il loro tempo e le proprie energie.

Che voleva dire che non avevano più speranza, i democristiani di Patti, di ricevere conforto ed aiuto da monsignor Ficarra: ormai soltanto speravano che se ne andasse. Per dimissione: da uomo “santo” e “dotto” qual era e inadatto, appunto per santità e dottrina, al nuovo corso delle cose. O per trasferimento: come un maresciallo dei carabinieri che comincia a diventare scomodo, un giudice che comincia a diventare curioso.

27 agosto 2019

Mottetti - II.III - Eugenio Montale

Carla Prima - Senza titolo, 1942
Mottetti - II.III - Eugenio Montale

Brina sui vetri; uniti
sempre e sempre in disparte
gl’infermi; e sopra i tavoli
i lunghi soliloqui sulle carte.

Fu il tuo esilio. Ripenso
anche al mio, alla mattina
quando udii tra gli scogli crepitare
la bomba ballerina.

E durarono a lungo i notturni giuochi
di Bengala: come in una festa.

È scorsa un’ala rude, t’ha sfiorato le mani,
ma invano: la tua carta non è questa.

da Un amore – Dino Buzzati

da Un amore – Dino Buzzati

Ma nel momento stesso che la ebbe scaricata dinanzi alla casa di Milano con valige borse trousses e cagnolino e lei scomparve dietro la cancellata, e lui, credendosi liberato dalla smania, volse il pensiero al resto della vita, il lavoro, la famiglia, la mamma, gli amici, la città con tutte le sue quotidiane distrazioni e si aspettava di riassaporare il gusto dei giorni di una volta, quella complessiva tranquillità banale forse, di sicurezza quotidiana, di borghese appagamento, sul cammino ormai facile che lo portava a progressive soddisfazioni di carriera, allora si accorse di essere solo.
Solo, e nessuno era in condizione di aiutarlo e neppure di capirlo, forse di compatirlo neanche. E il lavoro, la famiglia, gli amici, le serate in compagnia non gli dicevano più niente, intorno a lui tutto era vuoto e senza senso. Non si era liberato, ecco la questione, non si era affatto liberato. Il pensiero di lei, tormento, inquietudine, angoscia, totale infelicità, lo possedeva come prima.

Il balcone - Eugenio Montale

dipinto di Antonio Donghi
Il balcone - Eugenio Montale

Pareva facile giuoco
mutare in nulla lo spazio
che m’era aperto, in un tedio
malcerto il certo tuo fuoco.

Ora a quel vuoto ho congiunto
ogni mio tardo motivo,
sull’arduo nulla si spunta
l’ansia di attenderti vivo.

La vita che dà barlumi
è quella che sola tu scorgi.
A lei ti sporgi da questa
finestra che non s’illumina.

Senza di te - John Keats

Antonio Dopnghi - Donna al caffè, dettaglio, olio su tela, 1931
Senza di te - John Keats

Non posso esistere senza di te.
Mi dimentico di tutto tranne che di rivederti:
la mia vita sembra che si arresti lì,
non vedo più avanti.
Mi hai assorbito.
In questo momento ho la sensazione
come di dissolvermi:
sarei estremamente triste
senza la speranza di rivederti presto.
Avrei paura a staccarmi da te.
Mi hai rapito via l’anima con un potere
cui non posso resistere;
eppure potei resistere finché non ti vidi;
e anche dopo averti veduta
mi sforzai spesso di ragionare
contro le ragioni del mio amore.
Ora non ne sono più capace.
Sarebbe una pena troppo grande.
Il mio amore è egoista.
Non posso respirare senza di te

Nella mia tasca - Jan Spiewak

Antonio Donghi - Strumentimusicali, 1935
Nella mia tasca - Jan Spiewak

Nella mia tasca – un cerbiatto e una stella.
Nella mia tasca – colibrì, una gazzella.

Nei miei capelli – fulmini e nevi.
Nei miei capelli – il cielo sorridente.

Nelle mie mani – una carrozza, bisonti.
Nelle mie mani – pifferi e un violino.
La stella e il cerbiatto, i bisonti, i colibrì,
le nevi, le tormente, la carrozza, i meli.

Ecco le mie meraviglie, ecco i miei tesori,
che il vento spazzerà via.

Traduzione di Paolo Statuti
Poesia n. 316 Giugno 2016

Là fuoresce il Tritone - Eugenio Montale

Antonio Donghi - Ragazzi alla finestra
Là fuoresce il Tritone - Eugenio Montale

Portovenere

Là fuoresce il Tritone
dai flutti che lambiscono
le soglie d'un cristiano
tempio, ed ogni ora prossima
è antica. Ogni dubbiezza
si conduce per mano
come una fanciulletta amica.
Là non è chi si guardi
o stia di sé in ascolto.
Quivi sei alle origini
e decidere è stolto:
ripartirai più tardi
per assumere un volto.

Mottetti II.IV - Eugenio Montale

Antonio Donghi - Cocottina, 1927
Mottetti II.IV - Eugenio Montale

Lontano, ero con te quando tuo padre
entrò nell’ombra e ti lasciò il suo addio.
Che seppi fino allora? Il logorìo
di prima mi salvò solo per questo:

che t’ignoravo e non dovevo: ai colpi
d’oggi lo so, se di laggiù s’inflette
un’ora e mi riporta Cumerlotti
o Anghébeni – tra scoppi di spolette
e i lamenti e l’accorrer delle squadre.

da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa

Antonio Donghi - Dalie, 1925 circa
da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa

100. 

Coltivo l’odio per l’azione come un fiore di serra. Mi compiaccio con me stesso della mia dissidenza con la vita.

Mottetti II.XX - Eugenio Montale

Pietro Annigoni - Ritratto di signora
Mottetti II.XX - Eugenio Montale

... ma così sia. Un suono di cornetta
dialoga con gli sciami del querceto.
Nella valva che il vespero riflette
un vulcano dipinto fuma lieto.

La moneta incassata nella lava
brilla anch’essa sul tavolo e trattiene
pochi fogli. La vita che sembrava
vasta è più breve del tuo fazzoletto.

da Anatomia di un istante – Javier Cercas

da Anatomia di un istante – Javier Cercas

Sono le diciotto e ventitré minuti del 23 febbraio 1981. Nell’emiciclo del Congresso dei deputati si tiene la votazione di investitura di Leopoldo Calvo Sotelo, che sta per essere eletto presidente del governo in sostituzione di Adolfo Suarez, dimessosi venticinque giorni prima e tuttora presidente facente funzioni dopo quasi cinque anni di mandato durante i quali il Paese ha posto fine a una dittatura e ha costruito una democrazia. Seduti nei loro scranni in attesa del proprio turno per votare, i deputati conversano, dormicchiano o fantasticano chissà che nel tepore del tardo pomeriggio: l’unica voce che risuona stentorea nella sala è quella di Victor Carrascal, segretario del Congresso, che legge dalla tribuna degli oratori l’elenco dei parlamentari affinché, una volta nominati, questi si alzino e pronuncino un si o un no sulla candidatura di Calvo Sotelo, oppure si astengano. Siamo già alla seconda votazione e non c’è alcuna suspense: nella prima, tenutasi tre giorni fa, calvo Sotelo non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei deputati, mentre in questa seconda tornata gli basta una maggioranza semplice, quindi – dato che tale maggioranza è assicurata – a meno di imprevisti il candidato verrà eletto tra pochi minuti presidente del governo.
Ma l’imprevisto si verifica: Victor Carrascal legge il nome di José Nasarre de Letosa Conde, che vota si; poi legge il nome di Carlos Novarrete Merino, che vota no; poi legge il nome di Manuel Nunez Encabo, e in quel momento si sente un rumore anomalo, forse un grido, proveniente dalla porta di destra dell’emiciclo, e Nunez Encabo non vota o il suo voto non viene udito o si perde nel trambusto, alcuni deputati si scambiano uno sguardo, incerti se dare credito o meno alle proprie orecchie, mentre altri si alzano dagli scranni per cercare di capire cosa sta accadendo, forse più incuriositi che preoccupati. nitida e sconcertata la voce del segretario del Congresso chiede: “Che cosa sta succedendo?”, balbetta qualcosa, chiede nuovamente: “Che cosa sta succedendo?” e al contempo entra dalla porta di destra un usciere in divisa, attraversa a passi frettolosi il semicerchio centrale dell’emiciclo, dove stanno gli stenografi, e inizia a salire le scale che portano agli scranni; a metà salita si ferma, scambia qualche parola con un deputato e si volta indietro; poi sale altri tre gradini e torna a voltarsi indietro. È a questo punto che echeggia un secondo urlo, confuso, proveniente dall’ingresso sinistro dell’emiciclo, e poi un terzo, sempre inintelligibile, e diversi deputati – e tutti gli stenografi e anche l’usciere – si voltano a guardare verso l’ingresso sinistro.
L’inquadratura cambia; una seconda telecamera mette a fuoco l’ala sinistra dell’emiciclo: pistola in pugno il tenente colonnello della guardia civile Antonio Tejero sale con una certa disinvoltura le scale della presidenza del Congresso, passa dietro il segretario e rimane in piedi accanto al presidente Landelino Lavilla, che lo guarda incredulo. Il tenente colonnello urla. “State tutti fermi dove siete!”, dopodiché trascorrono alcuni secondi durante i quali, come per un incantesimo, non accade nulla e nessuno si muove e sembra non debba accadere niente, in un silenzio assoluto. Cambia l’inquadratura, resta lo stesso silenzio: il tenente colonnello è scomparso perché la prima telecamera mette a fuoco l’ala destra dell’emiciclo, dove tutti i parlamentari che si erano alzati sono tornati a sedere, e l’unico che rimane i piedi è il generale Manuel Gutiérrez Mellado,vicepresidente del governo facente funzioni; di fianco a lui Adolfo Suàrez è sempre seduto nel suo scranno di presidente del governo, il busto chino in avanti, una mano sul bracciolo, come se ache lui stesse per alzarsi in piedi. Quattro urli ravvicinati, distinti e inequivocabili, rompono l’incantesimo: “Silenzio!”, qualcuno grida: “State fermi!”, qualcuno grida: “A terra!”, qualcuno grida: “Buttatevi tutti a terra!”. L’emiciclo si appresta ad obbedire: gli uscieri e gli stenografi si inginocchiano accanto al tavolo; alcuni deputati sembrano rattrappirsi nei propri scranni. Il generale Gutiérrez Mellado, invece, parte in direzione del tenente colonnello sedizioso, mentre il presidente Suàrez tenta di trattenerlo senza riuscirci, afferrandolo per la giubba

26 agosto 2019

Attesa - Raymond Carver

Pablo Picasso - Femme assise en tailleur: Geneviève Laporte, 1951, 31.1 × 23.5 cm
Attesa - Raymond Carver

Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. È quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. È quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”

Trad. Riccardo Duranti e Francesco Durante

Il tramonto del sole – Federico Garcia Lorca

Egon Schiele Four Trees, 1917
Il tramonto del sole – Federico Garcia Lorca

Il sole è tramontato. Gli alberi
meditano come statue.
Ormai il grano è falciato.
Che tristezza
le norie ferme!

Un cane campagnolo
vuole mangiarsi Venere, e le latra.
Splende sul suo campo di pre-bacio
come una grande mela.

Le zanzare - Pegasi della rugiada -
volano nell'aria calma.
La Penelope immensa della luce
tesse una notte chiara.

«Figlie mie, dormite, viene il lupo»,
le pecorelle belano.
«È arrivato l'autunno, compagne?»
dice un fiore avvizzito.

A momenti verranno i pastori coi loro nidi
dalla sierra lontana!
Giuocheranno le bambine sulla porta
della vecchia casa,
e ci saranno strofe d'amore
che già sanno
a memoria le case.

Agosto 1920

Canzone minore – Federico Garcia Lorca

Egon Schiele - Bohemian landscape (1911-1913)
Canzone minore – Federico Garcia Lorca
 

Porta gocce di rugiada
sopra le ali l’usignolo,
splendide gocce lunari
rapprese dall’illusione.

Il marmo della fontana
ha il bacio dello zampillo,
sogno di stelle pudiche.

Le bambine dei giardini
mi dicono tutte addio
quando passo. Le campane
mi dicono anch’esse addio.
E si danno baci gli alberi
nel crepuscolo. Io
cammino e piango per strada,
grottesco e senza rimedio,
con tristezza da Cyrano,
da Chisciotte,
redentore
di impossibili infiniti
col ritmo dell’orologio.
E vedo appassire i gigli
se li tocca la mia voce
sporca di luce sanguigna,
e nella mia lirica canzone
vesto abiti da pagliaccio
incipriato. S’è nascosto
l’amore bello e vezzoso
sotto un ragno. Il sole come
un altro ragno mi occulta
con le zampe d’oro. Non
otterrò la mia fortuna:
io sono come l’Amore
che ha di lacrime le frecce
e per faretra il suo cuore.

Darò tutto agli altri
piangendo la mia passione
come un bimbo abbandonato
in una fiaba scomparsa.

Dicembre 1918, Granada

trad. Renato bruno
Federico Garcia Lorca – Tutte le poesie, Radici BUR Rizzoli
A cura di Nobert Von Prellwitz
Traduzioni di Lorenzo Blini, Renato Bruno, Nobert Von Prellwitz

Un amore – Dino Buzzati

dipinto di Malcolm Liepke
Un amore – Dino Buzzati

La rivide qualche giorno dopo, sempre dalla signora Ermelina. Aveva telefonato come al solito, chiedendo però della Laide. Come la trovò di nuovo in quella specie di salotto, restò un poco deluso. Stavolta aveva tirato su i capelli raccogliendoli sulla nuca e sembrava trasandata. Spiccavano nel volto quei tratti vagamente popolareschi e sguaiati, il naso petulante che terminava in patatina, il moto delle labbra, che si aprivano di tanto in tanto a valva, con espressione furbesca, provocante e sicura di sé. Lo impressionò anche la disinvoltura con cui, alla presenza di lui, dell’Ermelina e di un’altra ragazza bruttina di passaggio, Laide parlava di cose sconce. Raccontava delle sue colleghe ballerine, le definiva tutte puttane.
«Ce ne sarà pur qualcheduna ancora vergine» disse la Ermelina.
«Oh sì, sì» disse la Laide ridendo «ma poi magari sono peggio delle altre. C’è una mia amica, una di buona famiglia si intende, che è una tale porca, a forza di…» e qui fece un piccolo terribile gesto «le sono venuti due fianchi così, e ha dovuto smettere di ballare, figuratevi che attività. Eppure è ancora vergine.»
«Perché vuoi che si sia ingrossati i fianchi?» disse Dorigo.
«Non c’è niente di peggio» spiegò Laide recisa, con l’aria di una che se ne intende.
Anche l’amore in letto non fu più come la prima volta. Carezze e baci sembravano formalità burocratiche. Intanto lui cercava di sapere qualcosa di lei. Ma Laide non era disposta alle confidenze. Seppe soltanto che viveva con una sorella sposata, di dodici anni più vecchia di lei; che sua mamma era morta da qualche mese, suo padre da quindici anni. Sua sorella era sempre malata, suo cognato aveva una piccola industria. L’essere ballerina della Scala le consentiva grande libertà di uscire e di far tardi alla sera.

Madrigale – Federico Garcia Lorca

dipinto di Malcolm Liepke
Madrigale – Federico Garcia Lorca

Ti ho guardato negli occhi
quand'ero bambino e buono.
Le tue mani m'hanno sfiorato
e mi hai dato un bacio.

(Gli orologi hanno la stessa cadenza
e le notti le stesse stelle.)

Il mio cuore si è aperto
come un fiore sotto il cielo,
i petali di lussuria
e gli stami di sogno.

(Gli orologi hanno la stessa cadenza
e le notti le stesse stelle.)

Piangevo nella mia stanza
come il principe della favola
per l'Estrellita d'oro
che aveva lasciato il ballo.

(Gli orologi hanno la stessa cadenza
e le notti le stesse stelle.)

Mi sono allontanato da te
amandoti in segreto.
Non so come sono i tuoi occhi.
le mani e i capelli.
Solo mi resta sulla fronte
la farfalla del bacio.

(Gli orologi hanno la stessa cadenza
e le notti le stesse stelle.)

1919

da La noia – Alberto Moravia

da La noia – Alberto Moravia

Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza. Per esempio, può accadermi di guardare con una certa attenzione un bicchiere. Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente di cristallo o di metallo fabbricato per metterci un liquido e portarlo alle labbra senza che si spanda, finché, cioè, sono in grado di rappresentarmi con convinzione il bicchiere, mi sembrerà di avere con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla sua esistenza e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo, col quale non ho alcun rapporto, cioè, in una parola, mi appaia come un oggetto assurdo, e allora da questa assurdità scaturirà la noia la quale, in fin dei conti, è giunto il momento di dirlo, non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne. Ma questa noia, a sua volta, non mi farebbe soffrire tanto se non sapessi che, pur non avendo rapporti con il bicchiere, potrei forse averne, cioè che il bicchiere esiste in qualche paradiso sconosciuto nel quale gli oggetti non cessano un solo istante di essere oggetti. Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse uscirne, grazie a non so quale miracolo. Ho detto che mi sono annoiato sempre; aggiungo che soltanto in tempi abbastanza recenti sono riuscito a capire con sufficiente chiarezza che cosa sia realmente la noia. Durante l’infanzia e poi anche durante l’adolescenza e la prima giovinezza, ho sofferto della noia senza spiegarmela, come coloro che soffrono di continui mal di testa ma non si decidono mai a interrogare un medico. Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di spiegare e che gli altri, nel caso mia madre, attribuivano a disturbi della salute o altre simili cause; un po’ come il malumore dei bimbi più piccoli viene attribuito allo spuntare dei denti. Mi avveniva, in quegli anni, di cessare improvvisamente di giocare e di restare ore intere, immobile, come attonito, sopraffatto in realtà dal malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l' avvizzimento degli oggetti, ossia dall’oscura consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto. Se in quei momenti mia madre entrava nella stanza e vedendomi muto, inerte e pallido per la sofferenza, mi domandava che cosa avessi, rispondevo invariabilmente: “mi annoio”; spiegando così, con una parola di significato chiaro e angusto, uno stato d’animo vasto e oscuro. Mia madre, allora, prendendo sul serio la mia affermazione, si chinava ad abbracciarmi e poi mi prometteva di portarmi al cinema quel pomeriggio stesso, ossia mi proponeva un divertimento che, come sapevo ormai benissimo, non era il contrario della noia né il suo rimedio. E io, pur fingendo di accogliere con gioia la proposta, non potevo fare a meno di provare quello stesso sentimento di noia, che mia madre pretendeva fugare, per le sue labbra che si posavano sulla mia fronte, per le sue braccia che mi circondavano le spalle, nonché per il cinema che lei mi faceva balenare come un miraggio davanti agli occhi. Anche con le sue labbra, con le sue braccia, con il cinema, infatti, io non avevo alcun rapporto in quel momento. Ma come avrei potuto spiegare a mia madre che il sentimento di noia di cui soffrivo non poteva essere alleviato in alcun modo? Ho già notato che la noia consiste principalmente nell’ incomunicabilità. Ora, non potendo comunicare con mia madre dalla quale ero separato come da qualsiasi altro oggetto, in certo modo ero costretto ad accettare il malinteso e a mentirle.

Sarebbe certo andato tutto bene - Patrizia Cavalli

dipinto di Osvaldo Licini
Sarebbe certo andato tutto bene - Patrizia Cavalli

Sarebbe certo andato tutto bene,
una passeggiata un caffè, al cinema
qualche volta insieme, le cene
a casa o al ristorante; sarebbe stato
insomma tutto regolare
se all’improvviso togliendosi gli occhiali
non si fosse seduta sorridendo
con un’aria leggermente impaurita
e i capelli un po’ spettinati
che la facevano sembrare appena uscita
da un sonno o da una corsa.

Da Patrizia Cavalli, “Il cielo”, in “Poesie (1974-1992)”, Einaudi, Torino 1992

Canzone orientale – Federico Garcia Lorca

Peter Paul Rubens - Giudizio di Paride, 1638, 1639, olio su tavola, 199×379 cm, Museo del Prado, Madrid
Canzone orientale – Federico Garcia Lorca

È la melagrana profumata
un cielo cristallizzato.
(Ogni grana è una stella
ogni velo è un tramonto.)
Cielo secco e compresso
dalle unghie del tempo.

La melagrana è come un seno
vecchio di pergamena,
e il capezzolo si è fatto stella
per illuminare il campo.

È un'arnia minuscola
col favo insanguinato,
e le api l'hanno formata
con bocche di donne.
Per questo scoppiando ride
con porpore di mille labbra...

La melagrana è un cuore
che batte sul seminato,

un cuore sdegnoso
dove non beccano gli uccelli,
un cuore che fuori
è duro come il cuore umano
ma dà a chi lo trafigge
odore e sangue di maggio.
La melagrana è il tesoro
del vecchio gnomo del prato,
quello che parlò con la piccola Rosa,
nel bosco solitario.
Quello con la barba bianca
e il vestito rosso.
È il tesoro che ancora conservano
le verdi foglie dell'albero.
Arca di pietre preziose
in visceri di oro vago.

La spiga è il pane. È Cristo
in vita e morte rappreso.

L'olivo è la costanza
della forza e del lavoro.

La mela è il frutto carnale,
sfinge del peccato,
goccia di secoli che tiene
i contatti con Satana.

L'arancio è la tristezza
delle corolle profanate,
così diventa fuoco e oro
ciò che prima era puro e bianco.

Le viti sono la lussuria
che si coagula nell'estate,
e da esse la chiesa ricava,
benedetto, il santo liquore.

Le castagne sono la pace
del focolare. Cose d'altri tempi.
Crepitare di vecchi legni,
pellegrini smarriti.

La ghianda è la serena
poesia del passato,
e il cotogno d'oro debole
la pulizia della salute.

Ma la melagrana è il sangue,
sangue sacro del cielo,
sangue di terra ferita
dall'ago del torrente.
Sangue del vento che viene
dal rude monte graffiato.
Sangue del mare tranquillo,
sangue del lago dormiente.
La melagrana è la preistoria
dei sangue che portiamo,
l'idea di sangue, chiuso
in globuli duri e acidi,
che ha una vaga forma
di cuore e di cranio.
O melagrana aperta, tu sei
una fiamma sopra l'albero,
sorella carnale di Venere,
riso dell'orto ventoso.
Ti circondano le farfalle
credendoti un sole fermo
e per paura di bruciarsi
ti sfuggono i vermi.

Perché sei la luce della vita,
femmina dei frutti. Chiara
stella della foresta
del ruscello innamorato.

Potessi essere come sei tu, frutto,
passione sulla campagna!

1920

da Disonora il padre - Enzo Biagi

da Disonora il padre - Enzo Biagi

Una notte passò Davide. “Ho fretta,” disse “ma non volevo andarmene senza salutarti. Non so nulla dei miei, ma è finita. Cercherò di raggiungere l’Inghilterra, e se posso l’America.”
Mi sentii, all’improvviso, dall’altra parte, coi suoi nemici. “Davide,” mi scusai “qui nessuno ce l’ha con te, perfino mio padre dice che anche Gesù era ebreo”
“Lo so, ma non ne resterete fuori, nessuno ritroverà mai più certe cose che contavano, e non sapevamo quanto valevano. In ospedale hanno fatto una colletta per comperarmi il biglietto di viaggio; anche il primario di chirurgia, che è presidente dell’Istituto, di cultura fascista, ha voluto contribuire.”
“Cosa farai?”
“Mio nonno è sepolto in un paese che è diventato russo, mio padre e mia madre sono scomparsi in una Polonia che non esiste più, ho una sorella in Palestina. Voi dite che è una condanna divina: il giudeo deve espiare.”
“Io non lo penso, Davide.”
“Se ci riesci, non farti ammazzare.”
Lo accompagnai un po’. Bevemmo qualcosa nel caffè accanto al Teatro Verdi. Due ragazze della compagnia di Vivienne D’Arys inzuppavano la ciambella nel caffelatte; sorrisero inutilmente.
“Tutta la colpa è di Abramo” disse Davide. “Ormai verrà la fine del mondo.”
Ci abbracciammo, poi io ritornai in redazione.
Trovai il professore più entusiasta del solito. “Sotto con la Danimarca e la Norvegia, poi toccherà alla Francia, e poi sarà la volta dell’Inghilterra. Non possiamo aspettare, l’Asse dev’essere una realtà armata. Le democrazie sono sfinite e corrotte. È l’ora dei popoli forti.”
Ragionava come l’ex avanguardista cavalleggero Giuseppe Passadori, detto Pino. “Anche lei” dissi timidamente “ha più o meno le idee di quel rumeno, di Codreanu: gli eletti, i puri, poi gli altri, quelli che debbono servire. Gli israeliti, ad esempio.”
“Io credo nella razza come fatto di cultura, e anche di sangue. Ma non sono un mistico fanatico; sto preparando, figurati, un saggio su Epicuro. E lo sai cosa predicava il filosofo greco?”
“Mangia, bevi e chiava” disse subito il capo.
“Be’, così è un po’ riassunto. Diceva: “Nessun piacere in sé è un male; ma talune cose atte a procurare gioia, recano più danno che gaudio”.”
Intervenne Paolo Maria Fabbri; ascoltava attorcigliandosi i capelli, pareva distratto: “Heine di che razza è? Ed Einstein? Umana, io penso. Starace è invece un fiore della nostra stirpe? Mi hanno detto che c’è chi, chiamandosi Levi, per salvare la pelle, deve inventare una mamma che la dava via, o un battesimo che non c’è mai stato. mi illumini lei che è un dotto: questo era già previsto dal diritto romano?”.
“Ma, caro fabbri, lo sa o no che la finanza internazionale è nelle loro mani? Ignora forse che Marx era circonciso? E anche Trockij? Lei ritiene che per un semita, la sua patria sia l’Italia?”
“Io sono di Rovigo, e non posso capire. Ma so che a Ferrara, tra gli squadristi, ci sono manipoli di camice nere che ancora aspettano l’arrivo del Redentore. Invece ecco spuntare Farinacci, che vuole chiudere le sinagoghe, cacciare tutti i fedeli, ex camerati compresi. Non le pare una porcata bruciare i libri degli autori così detti proibiti, Feuchtwanger, o Mann, o Gide? ha un’idea degli ammessi? E non le sembra ridicolo che Moravia debba firmare Pseudo?”
La discussione stava prendendo un tono inopportuno; ma Antonelli la buttò in vacca alla svelta, ripetendo lo slogan che era stampato in tutti i locali pubblici. “Qui non si fanno discussioni di alta politica o di alta strategia; qui si lavora”.

Mottetti II.IX - Eugenio Montale

Vincent van Gogh - Covone sotto un cielo nuvoloso
Mottetti II.IX - Eugenio Montale

Il ramarro, se scocca
sotto la grande fersa
dalle stoppie –

la vela, quando fiotta
e s’inabissa al salto
della rocca –

il cannone di mezzodì
più fioco del tuo cuore
e il cronometro se
scatta senza rumore –
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

e poi? Luce di lampo
invano può mutarvi in alcunché
di ricco e strano. Altro era il tuo stampo.

Ballata di un giorno di luglio – Federico Garcia Lorca

Vincent van Gogh - Plain Near Auvers, 1890
Ballata di un giorno di luglio – Federico Garcia Lorca

Campani d'argento
portano i buoi.
Dove vai, bambina
di sole e di neve?

Vado per margherite
sul prato verde.

Il prato è molto lontano
e hai paura.

Né l'airone né l'ombra
teme il mio amore.

Teme il sole, bambina,
di sole e di neve.

Se ne andò dai miei capelli
ormai per sempre,

Chi sei, bianca bambina?
Di dove vieni?

Vengo dagli amori
e dalle fonti.

Campani d'argento
portano i buoi.

Che cos'hai in bocca
che prende fuoco?

La stella del mio amore
che vive e muore.

Che cosa porti nel cuore
così leggero e fine?

La spada del mio amore
che vive e muore.

Che cos'hai negli occhi,
nero e solenne?

I miei tristi pensieri
che mi feriscono.

Perché porti un mantello
nero di morte?
Ahi, sono la vedovella
triste e senza beni,

del conte dell'Alloro
degli Allori!

Chi cerchi qui,
se non ami nessuno?

Cerco il corpo del conte
degli Allori.

Tu cerchi l'amore,
vedovella perfida?
Tu cerchi un amore
che forse trovi.

Stelle del cielo
sono i miei desideri,
dove troverò il mio amante
che vive e muore?

È morto nell'acqua,
bambina di neve,
coperto di nostalgie
e di garofani.

Ah, cavaliere errante
dei cipressi,
una notte di luna
la mia anima t'offre.

Ah Isis sognatrice.
Bambina senza miele,
tu che in bocca di bambini
versi il racconto.
T'offro il mio cuore.
Cuore tenue,
ferito dagli occhi
delle donne.

Cavaliere galante,
resti con Dio.
Vado a cercare il conte
degli Allori.

Addio, signorina,
rosa dormiente
tu vai per amore
e io alla morte.

Campani d'argento
portano i buoi.

Il mio cuore sanguina
come una fonte.

Luglio 1919

Domande – Federico Garcia Lorca

Vincent Van Gogh vue de sa chambre detail Saint Remy de Provence
Domande – Federico Garcia Lorca

C'è un consiglio di cicale in campagna.
Che cosa dici, Marco Aurelio,
di queste vecchie filosofe del piano?
Com'è povero il tuo pensiero!

Scorre tranquilla l'acqua del fiume.
Socrate! Che cosa vedi
nell'acqua che va all'amara morte?
Come povera e triste è la tua fede!

Si sfogliano le rose nel fango.
O dolce Giovanni di Dio!
Che cosa vedi in questi petali gloriosi?
Com'è piccolo il tuo cuore!

Maggio 1918

Mottetti II.VIII - Eugenio Montale

Vincent van Gogh The Pink Peach Tree, detail
Mottetti II.VIII - Eugenio Montale

Ecco il segno; s’innerva
sul muro che s’indora:
un frastaglio di palma
bruciato dai barbagli dell’aurora.

Il passo che proviene
dalla serra sì lieve,
non è felpato dalla neve, è ancora
tua vita, sangue tuo nelle mie vene.

25 agosto 2019

Il canto vuole essere luce – Federico Garcia Lorca

Vincent van Gogh Berges de la Seine au printemps 1887
Il canto vuole essere luce – Federico Garcia Lorca

Il canto vuole essere luce.
Nel buio ha il canto
fili di fosforo e di luna.
La luce non sa che cosa vuole.
Nei suoi limiti opalini,
incontra se stessa
e se ne va

LE STELLE

Le stelle
non hanno fidanzato.

Tanto belline,
le stelle!
Aspettano un rubacuori
che le porti
ad una sua ideale Venezia.

Tutte le notti s'affacciano
alle grate
- oh cielo di mille piani! -
e fanno segnali lirici
ai mari d'ombra
che le circondano.

Ma attente,ragazze,
perchè quando morirò
vi rapirò una dietro l'altra
sul mio cavallo di nebbia.

Notte dell'amore insonne

Notte alta, noi due e la luna piena;
io che piangevo, mentre tu ridevi.
Un dio era il tuo scherno; i miei lamenti
attimi e colombe incatenate.

Notte bassa, noi due. Cristallo e pena,
piangevi tu in profonde lontananze.
La mia angoscia era un gruppo di agonie
sopra il tuo cuore debole di sabbia.

L'alba ci ricongiunse sopra il letto,
le bocche su quel gelido fluire
di un sangue che dilaga senza fine.

Penetrò il sole la veranda chiusa
e il corallo della vita aprì i suoi rami
sopra il mio cuore nel sudario avvolto.

Solo il tuo cuore ardente .. e niente più
Il mio paradiso...
... un campo senza usignolo né lire,
con un fiume discreto e una fontanella.
Senza lo sprone del vento sopra le fronde
né la stella che vuole essere foglia.
Una grandissima luce
che fosse lucciola di un'altra,
in un campo di sguardi viziosi.
Un riposo chiaro e lì i nostri baci,
nèi sonori dell'eco,
si aprirebbero molto lontano.
Il tuo cuore ardente, niente più.

Mattino d'autunno – Federico Garcia Lorca

Vincent van Gogh - Edge of a Wood, 1882, olio su tela, Kröller-Müller Museum, Otterlo, Netherlands
Mattino d'autunno – Federico Garcia Lorca

Che dolcezza infantile
nella mattinata tranquilla!
C'è il sole tra le foglie gialle
e i ragni tendono fra i rami
le loro strade di seta

Tanto vivere – Federico Garcia Lorca

Vincent van Gogh - Shelter on Montmartre
Tanto vivere – Federico Garcia Lorca

Tanto vivere...
perché?
Il sentiero è noioso
e non c'è amore sufficiente.
Tanta fretta...
perché?
Per prendere la barca
che non va in nessun luogo.
Amici, tornate!
Tornate alla vostra sorgente.
Non versate l'anima dispersa
nella coppa della Morte.

Sul muro grafito - Eugenio Montale

opera di Victor Vasarely
Sul muro grafito - Eugenio Montale

Sul muro grafito
che adombra i sedili rari
l'arco del cielo appare
finito.

Chi si ricorda più del fuoco ch’arse
impetuoso
nelle vene del mondo; in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse.

Rivedrò domani le banchine
se la muraglia e l’usata strada
nel futuro che s’apre le mattine
sono ancorate come barche in rada.

da La noia – Alberto Moravia

da La noia – Alberto Moravia

Il cortile era deserto, in una luce smorta e bassa che rivelava la giornata sciroccosa e l’ora crepuscolare. Si vedevano gli altri finestroni, di fronte, dei quali un paio già illuminati; i cespugli di acanto, di un verde quasi nero, torno torno le aiuole, il selciato, di una bianchezza opaca e calcinosa. Molti gatti, come il solito, erano sparsi su questo selciato, in un ordine misterioso che non pareva casuale: alcuni accoccolati, con le gambe ripiegate sotto il corpo, altri seduti con la coda avvolta intorno ai piedi, altri ancora lentamente e cautamente deambulanti, il naso a terra e la coda dritta; gatti pezzati di bianco e di nero, gatti grigi, gatti completamente bianchi o completamente neri, gatti striati, gatti fulvi. Presi a guardare i gatti con attenzione, lo facevo spesso, era una maniera come un’altra d’ingannare il tempo. Poi Cecilia comparve, col suo grosso involto sotto il braccio. Camminava piano e a testa bassa, con i gatti che non si muovevano al suo passaggio.

da Fontamara - Ignazio Silone

da Fontamara - Ignazio Silone

«Il Governo vi metterà a posto» strillava. «Il Governo vipunirà. Le autorità si occuperanno di voi.» Noi pensavamo:parlerà, ma poi tacerà, poi evidentemente tacerà e ci lasceràandare a casa. Però lui continuava. Lui non taceva.«Tu non sai» egli disse direttamente a Michele «che se io tidenunziassi, tu saresti condannato almeno a dieci anni dicarcere? Tu non sai che molti, per aver detto cose meno perfidedi quelle dette da te poco fa, stanno scontando anni di galera?Ma in che mondo vivi? Sai o non sai che cosa è successo inquesti ultimi anni? Sai chi comanda?Sai chi è il padrone oggi?»Sembrava un galletto inferocito. Zompa continuò per un po’asucchiare la cannuccia della pipa spenta, poi sputò per terra egli rispose con pazienza:«Vedi», gli disse «in città succedono molti fatti. In città,ogni giorno succede almeno un fatto. Ogni giorno, dicono, esceun giornale e racconta almeno un fatto. In capo all’anno, quantifatti sono? Centinaia e centinaia. E in capo a vari anni?Migliaia e migliaia. Immagina. Come può un cafone, un poverocafone, un povero verme della terra conoscere tutti
15questifatti? Non può. Ma una cosa sono i fatti, un’altra è chicomanda. I fatti cambiano ogni giorno, chi comanda è semprequello. L’autorità è sempre quella.»«E le gerarchie?» chiese il forestiero.Ma allora noi ancora non sapevamo che cosa significasse lastrana parola. Il cittadino dovette ripetercela varie volte econ altri termini. E Michele pazientemente gli spiegò la nostraidea:«In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa.«Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra.«Poi vengono le guardie del principe.«Poi vengono i cani delle guardie del principe.«Poi, nulla.«Poi, ancora nulla.«Poi, ancora nulla.«Poi vengono i cafoni.«E si può dire ch’è finito.»«Ma le autorità dove le metti? » chiese ancora più irritato ilforestiero.«Le autorità» intervenne a spiegare Ponzio Pilato «si dividonotra il terzo e il quarto posto. Secondo la paga. Il quarto posto(quello dei cani) è immenso. Questo ognuno lo sa.»Il cav. Pelino si era alzato. E tremavaper la rabbia. Ci disse:«Vi prometto che avrete presto notizie di me.»Con un salto fu sulla bicicletta e sparì.Noi non facemmo caso alle sue parole. Ci dicemmo buona notte eci avviammo verso casa. Ma risalendo a tastoni, a causa delbuio, la scalinatadel vicolo di Sant’Antonio, fui colpito da unrumore di sassate e di vetri rotti. In cima alla scalinata siprofilava l’ombra di un uomo, che per la sua forte staturariconobbi subito.«Brà», gli gridai «per Cristo, che vai facendo?»«Giuvà», mi rispose Berardo «le lampade, senza luce, a cheservono?»Io rientrai in casa, dove mi aspettava la minestra fredda, eBerardo continuò il suo giro.

Corrente – Federico Garcia Lorca

Pierre-Auguste Renoir - Donna in barca, 1867
Corrente – Federico Garcia Lorca

Chi cammina
s'intorbida.
l'acqua corrente
non vede le stelle.
chi cammina
dimentica.
e chi si ferma
sogna.

Il mattino, spazio per Leda – Dylan Thomas

Leda - Antonio Allegri (Correggio), 1530-1531, olio su tela, cm 152 x 19, Gemäldegalerie (Berlino), Berlino
Il mattino, spazio per Leda – Dylan Thomas

Il mattino, spazio per Leda
Per agitare l’acqua con piede festoso,
E intermezzo di violini
Per sorprenderla mentre segue la corrente -
Le parole sugli alberi non sono sue;
Un uccello che pesca ha note d’avorio
Vive, dentro la gola che s’allunga -
Vede la luna ancora su,
Il capo eretto, lucente,
E, come perno,
Le ombre che salgono dal mare di vetro
A bagnare di lacrime il cielo
E a imbrattare di brama il sole ancora non sorto.
Nella sua scia il cigno intreccia corde d’acqua;
Fra luna e sole c’è tempo
Per pizzicare un accordo sull’arpa,
E inumidire la bocca del sonno,
Per svegliare coi baci
La mia mano col miele che s’era chiusa sopra un fiore.
Fra il sorgere e il cadere,
La primavera può verdeggiare -
Sotto il suo panno d’alberi non c’è dolore,
Sotto il suo abito erboso non c’è corpo -
E l’inverno può seguire come un’eco
La voce dell’estate così calda dei frutti
Che crescevano a grappoli intorno alle sue spalle
E nascondevano il seno scoperto.
Il mattino è anche tempo d’amore,
Quando Leda, sulle punte di piuma,
Balla qualche battuta con il cigno
Che l’avvinghia con le forti ali bianche;
E il buio, tenendosi per mano con la luce,
È accecato da lacrime troppo tenui per avere sapore.

da Dylan Thomas Poesie inedite, a cura di Ariodante Marianni – Giulio Einaudi Edizioni

19 agosto 2019

Luce - Enzo Montano

opera di Igor Mitoraj
Luce - Enzo Montano

Luce.
Luce.
Luce.
Mi vedi
Luce del mattino?

Mi scorgi tra le pieghe anguste?
Dimmi allora se mi vedi
Dimmi se ci sono
O se sono ombra

Dimmi se ci sono
Luce
Se nel giorno tuo
Ci sono anch’io
Se percepisci il mio respiro
O se odi la mia scarsa voce
Se vedi il mio incerto incedere.

Luce.
Luce.
Luce.
Mi vedi
Luce dorata del  pomeriggio?

Dimmi se continuo a esistere
Raccontami del silenzio
Il magico silenzio che respiro
E dimmi degli innumeri profumi
Che rincorro e non afferro

Raccontami dei giorni mutevoli
Dei momenti delle stagioni
Del sole cocente sulla pelle
Dei visi arrossati delle fanciulle

Raccontami Luce
Quello che non è più mio
In questa piega angusta
Capriccio impietoso
Del tempo estraneo.