27 aprile 2016

Se ricordo chi fui - Fernando Pessoa

Se ricordo chi fui – Fernando Pessoa

Se ricordo chi fui, diverso mi vedo,
e il passato è il presente della memoria.
Chi sono stato è qualcuno che amo,
ma soltanto nei sogni.
È la nostalgia che m'affligge la mente,
non è mia né del passato veduto,
ma di chi abito
dietro gli occhi ciechi.
Nulla, se non l'istante, mi conosce.
Nulla il mio stesso ricordo, e sento
che chi sono e chi sono stato
sono sogni differenti.
 
(da “Odi di Ricardo Reis”)

22 aprile 2016

Il mio Maggio - Vladimir Majakovskij

Renato Guttuso - Occupazione delle terre incolte in Sicilia
Il mio Maggio - Vladimir Majakovskij

A tutti,
a quanti,spossati dalle macchine,
si sono riversati per le strade,
a tutti,
alle schiene sfinite dalla terra
e che invocano una festa,
il primo maggio!
Al primo fra tutti i maggi
andiamo incontro,compagni,
con la voce affratellata nel canto.
E' mio il mondo con le sue primavere.
Sciogliti in sole,neve!
Io sono operaio,
è mio questo maggio!
Io sono contadino,
questo maggio è mio!

A tutti
A quelli che, scatenata l'ira delle trincee,
si sono appostati in agguati omicidi,
a tutti,
a quelli che dalle corazzate
sui fratelli
hanno puntato le torri coi cannoni,
il primo maggio!
Al primo fra tutti i maggi
andiamo incontro,
allacciando le mani disgiunte dalla guerra.
Taci,ululato del fucile!
Chètati, abbaiare della mitragliatrice!
Sono marinaio,
è mio questo maggio!
Sono soldato,
questo maggio è mio!

A tutte
le case,
le piazze
le strade,
strette dall'inverno di ghiaccio,
a tutte
le fameliche
steppe,
alle foreste,
alle messi,
il primo maggio!
Salutate
il primo fra tutti i maggi
con una piena
di fertilità, di primavere,
di uomini!
Verde dei campi, canta!
Urlo delle sirene, innalzati!
Sono il ferro,
è mio questo maggio!
Sono la terra,
questo maggio è mio!

da "Il sentiero dei nidi di ragno" di Italo Calvino

(...)
Il nuovo accampamento è un fienile dove dovranno stare pigiati, con il tetto sfondato che lascia piovere dentro. Al mattino ci si semina a prendere il sole per i rododendri del dirupo, ci si corica sugli arbusti brinati è ci si toglie la maglia per cercare i pidocchi. A Pin piace quando Mancino lo manda per faccende nei posti intorno, fino alla fontana a riempire secchi per la marmitta, o per legna fin al bosco bruciato con una piccola accetta, o al ruscello a pescare le piante di crescione con cui il cuoco prepara le sue insalate. Pin canta e guarda il cielo e il mondo puliti del mattino e farfalle montanare dai colori sconosciuti che si librano sui prati. Mancino si spazie ntisce ogni volta perché Pin si fa aspettare mentre il fuoco si spegne o s'appiccica il riso, e lo copre d'improperi in tutte le lingue ogni volta che arriva con la bocca piena di sugo di fragole e gli occhi pieni di svolazzi di farfalle. Allora Pin ritorna il ragazzo lentigginoso di Carrugio Lungo, e pianta baccani che durano ore e che radunano attorno alla cucina gli uomini seminati per i rododendri. Invece, andando al mattino per i sentieri Pin dimentica le strade vecchie dove stagna l'orina dei muli, l'odore di maschio e femmina del letto sfatto di sua sorella, il gusto acre dei grilletti schiacciati e del fumo ch'esce dagli otturatori aperti, il sibilo rosso e rovente delle frustate nell'interrogatorio. Qui Pin ha fatto scoperte colorate e nuove: funghi gialli e marrone che affiorano umidi dal terriccio, ragni rossi su grandissime invisibili reti, leprotti tutti gambe e orecchie che ad un tratto sbucano sul sentiero e spariscono subito a zig zag. Ma basta un richiamo improvvi so e fuggevole e Pin è ripreso dal contagio del peloso e ambiguo carna io del genere umano: ed eccolo a occhi strabuzzati e lentiggini fitte che spia gli accoppiamenti dei grilli, o infilza aghi di pino nelle verruche del dorso di piccoli rospi, o piscia sopra i formicai guardando la terra porosa sfriggere e sfaldarsi e lo sfangare via di centinaia di formiche rosse e nere.
Allora Pin si sente attirato anco ra dal mondo degli uomini, degli uomini incomprensibili con lo sguardo opaco e la bocca umida d'ira. Torna da Mancino allora, da Mancino che ride sempre più agro, e non va mai in azione e resta sempre accanto alle sue marmitte, con il falchetto tarpato eincattivito che starnazza sulla sua spalla.
Ma la cosa più da ammirarsi in Mancino sono i tatuaggi, tatuaggi su tutte le parti del corpo: di farfalle, di velieri, di cuori, di falci e martelli, di madonne. Un giorno Pin l'ha visto mentre stava cacando e gli ha scoperto un tatuaggio su una natica: un uomo in piedi e una donna inginocchiata che s'abbracciano.
Il Cugino è diverso: sembra sempre che si lamenti e che lui solo sappia quanto la guerra sia faticosa. Eppure è sempre in giro da solo col suo mitra e arriva all'accampamento per ripa rtire dopo poche ore sempre a malincuore come fosse obbligato.
Quando c'è da mandare qualcuno in qualche posto, il Dritto guarda in giro e dice: -
Chi vuol andare?
(...)

12 aprile 2016

Restaurazione - Ghiannis Ritsos



Restaurazione - Ghiannis Ritsos

Non amava affatto gli uccelli, i fiori, gli alberi
diventati simboli delle idee, utilizzati allo stesso modo
da schieramenti opposti. Lui tentava
di riportarli al loro fondamento naturale. Le colombe, per
esempio,
non emblema di un’infinità di convegni, ma begli uccelli
erotici, dal passo lento, che continuano a baciarsi
becco a becco nel mio cortile e mi riempiono le
mattonelle
di escrementi e piume (mi piacciono così); o, al massimo,
piccoli postini che portano al di sopra delle pallottole
le lettere dei bambini poveri a Dio, in cui gli chiedono
scarpe e quaderni e un po’ di caramelle. I gigli
non emblemi di purezza, ma piante profumate
e sensuali, dai petali slanciati
che mostrano eretti gli stami con i pollini d’oro. E l’ulivo
non premio di vittoria o di pace, ma genitore fruttifero
che dà il buon olio per le nostre pietanze e la lucerna,
per gli arrossamenti del neonato e il ginocchio ferito
del bambino irrequieto e disobbediente, e ancora
per il povero lume della Madonna. E io – disse –
nient’affatto mito, eroe o dio, ma semplice operaio
al pari di te, di te e dell’altro – proletario dell’arte
innamorato sempre degli alberi, degli uccelli, degli animali
e degli uomini,
innamorato soprattutto della bellezza dei pensieri puliti
e della bellezza dei corpi giovani – un operaio
che scrive, scrive incessantemente su tutti e tutto
e ha un nome breve e facile a pronunciarsi: Ghiannis Ritsos

Il tempo - Ghiannis Ritsos



Il tempo - Ghiannis Ritsos

Per anni e anni non considerava affatto il tempo.
Con le parole sostituiva assenze, privazioni, rifiuti
costruendo con compunzione piccole aureole
per uomini semplici e scene insignificanti. Un affresco
riempì a poco a poco la sua casa – le due stanze da letto,
la piccola camera per la musica, il soppalco occidentale,
perfino la cucina. Di notte, con una lampada a olio,
percorre tutta la casa, osserva, ammira –
ecco Petros, Marta, Maria, ecco Gogos, Telis,
ecco la rocca di Monemvasià, ecco lo scintillio del mare
nel tramonto a Samo – che giovinezza, mio dio, che secoli –
ma lui dov’è? dov’è? E’ assente.
Un vecchio tranquillo, triste, con una lampada.

Oceano - Juan Ramon Jimenez


Oceano - Juan Ramon Jimenez

Ho la sensazione che la mia nave
abbia sbattuto, giù negli abissi
contro un grande ostacolo.

E non succede niente!
Niente ...
Silenzio ... Onde ...

Non succede Niente?
O è che tutto è avvenuto,
e siamo ora, tranquilli, nel nuovo ...

9 aprile 2016

William Shakespeare - Sonetto n. 14

opera di Tamara de Lempicka
William Shakespeare - Sonetto n. 14

Non è degli astri il fato che indovino,
benché d’astronomia serbi nozione.
Non dico il buono e manco il rio destino,
non peste o fame o scognita stagione.
Né so ridir la sorte di un minuto,
se fulmine sia, vento o fortunale.
All’uomo incerto non so dare aiuto,
il cielo non mi è libro congeniale.
Leggo dagli occhi tuoi ogni mia scienza:
le stelle fisse che mi fan parola
di veritiera e bella discendenza,
se tu vivrai con me, né starai sola.
Se tu non vuoi, sarà il destino nero –
con te si muore tutto il bello e il vero.

William Shakespeare - Sonetto n. 13

opera di Tamara de Lempicka
William Shakespeare - Sonetto n. 13

Se tu restassi tua! ma ti possiedi
soltanto per il lasso di una vita.
Contro la fine appronta i tuoi rimedi,
affida ad altri la forma squisita.
Né mai decada il patto che ti presta
questa bellezza, sì che dopo morta
ritorni a possedere quel che resta
di te, per quella prole che ti porta.
Tanta dimora chi vorrebbe persa,
che per durare chiede un buon governo
contro il vento d’inverno che riversa
dentro lande di rabbia un gelo eterno?
Pròdigo scialo, amore, niente più.
Avesti madre: sii madre anche tu.

William Shakespeare - Sonetto n. 12

opera di Tamara de Lempicka

William Shakespeare - Sonetto n. 12

Conto i rintocchi che mi dicon l’ora,
notte funesta cui il giorno s’avventa;
e della viola bruna, che si sfiora,
il riccio già inargenta.
L’immenso ramo d’ogni chioma manca,
onde le greggi furon confortate:
cinge il covone il verde dell’estate,
ispida bara bianca.
Penso alla tua bellezza, che in ambasce
va camminando per la strada oscura,
dolce prezioso bene che non dura,
morto come altri nasce.
Del tempo non puoi vincere la lama,
se un figlio non lo sfida, quando chiama.

William Shakespeare - Sonetto n. 11

opera di Tamara de Lempicka
William Shakespeare - Sonetto n. 11

Svelta come declini, tu rinasci
nei figli, a ristorare quel che langue;
resterà tuo, se gioventù ti lasci,
l’avallo che concedi al nuovo sangue.
Qui trovi senno, qui prosperità:
altrove, un folle gelo di vecchiaia.
Chi come te si nega al tempo, fa
che in pochi inverni il mondo già scompaia.
Lascia chi nasce a un fato che non dura
anonimarsi d’una morte grama;
più chiede a chi più dà madre natura,
che a frutto di sua dote ti richiama.
Matrice naturale, a te la cura
di generosa prole imperitura.

William Shakespeare - Sonetto n. 10

opera di Tamara de Lempicka
William Shakespeare - Sonetto n. 10

Vergogna nega che tu senta amore,
amica così improvvida a te stessa;
da mille amata, la mia dèa non cessa
nutrire ai pretendenti il suo livore.
Temperie tua possiede odio rapace
che contro te non perita tramare:
rovinerà il prezioso lacunare,
la reggia onde dovresti avere pace.
Muta pensiero, sì che muti anch’io;
a che albergare un sentimento ostile?
Come nel volto, in cuore sii gentile,
àbbiti cura, per l’amor di dio.
Fàtti per l’amor mio doppia e diversa:
che o l’una o l’altra dèa non mi sia persa.

8 aprile 2016

William Shakespeare - Sonetto n. 9

ritratto di Luigia Douglas Scotti d'Adda - Francesco Hayez
William Shakespeare - Sonetto n. 9

Forse temendo di bagnare i cigli
d’un vedovo, tu sola ti consumi?
Se morte t’avrà colta senza figli
piangerà il mondo, orbato dei tuoi lumi.
E vivrà il mondo in vedovanza amara,
se partirai senza lasciare un’orma:
chi perde moglie serba per sé cara,
negli occhi dei bambini, la sua forma.
Il bene che un incauto ha prodigato
si muta luogo, e sempre dà conforto;
beltà sprecata la divora il fato,
chi l’ha e non l’usa, ne commette aborto.
Amor non fa sentire la sua voce
a chi compie di sé il delitto atroce.

William Shakespeare - Sonetto n.8

opera di Tamara de Lempicka

William Shakespeare - Sonetto n.8

Musica mia, che musica t’è amara?
Dolce nel dolce ha pace, gioia in gioia:
forse che non t’allieta cosa cara?
forse che ti compiaci alla tua noia?
Se i levigati suoni d’armonia
uniti nell’accordo son molesti,
lamentan dolci come per te sia
cantato a solo il coro che dovresti.
Vedi come ogni corda all’altra dice
il senso d’una vibrazione eguale:
come una coppia, del figlio felice,
canta con voce unita il madrigale.
Molteplice canzone, muta e una,
dice del solitario la sfortuna.

6 aprile 2016

William Shakespeare - Sonetto n. 7

 i calanchi di Pisticci
William Shakespeare - Sonetto n. 7


Vedi a levante, che la bella aurora
sorge dal fuoco, quando l’occhio basso
di tanta maestà gode, e l’onora
servendo del suo sguardo il sacro passo.
E ascende il colle ripido dei cieli
come al meriggio d’una età più piena:
gli occhi mortali adorano, fedeli,
avvinti al cerchio aureo di sua lena.
Quando dal sommo muoverà spossata,
debole vecchia in bilico sul giorno,
l’occhio devoto l’avrà abbandonata
al suo cammino, per guardarsi intorno.
Al tuo meriggio, pure, segue il limbo:
presto è l’oblio per chi non lascia un bimbo.

William Shakespeare - Sonetto n. 6

Joseph Karl Stieler - Caroline, Countess of Holnstein
William Shakespeare - Sonetto n. 6

Prima che inverno dall’artiglio scabro
ghermisca estate, l’avrai distillata
in dolce fiala, che nel suo cinabro
serbi quella bellezza inalterata.
Legittima è del tuo bene l’usura,
patto che rende gioia a chi ha firmato.
Spendi te stessa, non aver paura
se l’interesse vien decuplicato.
Dieci volte sarai più sorridente,
creata in dieci identiche figure:
la morte non saprà sottrarti niente,
se vivi nelle immagini future.
Tu troppo bella, splendida egoista,
per cedere alla morte la conquista.

5 aprile 2016

Parla per me - Emily Bronte

opera di Edson Campos
Parla per me - Emily Bronte

Deve rispondere la luce del tuo sguardo,
ora che la ragione, con occhi sdegnosi,
irride alla mia piena sconfitta!
La tua lingua di miele deve parlare per me
e dire perché io ti abbia scelto!

La severa ragione viene al giudizio,
vestita delle sue vesti più cupe:
sarai muto tu, mio difensore?
No, angelo radioso, parla per me,
spiega perché io abbia scagliato lontano il mondo.

Perché con tanta ostinazione ho evitato
il comune sentiero che ognuno ha seguito,
perché ho percorso una strada sconosciuta,
ignorando a un tempo potere e ricchezza,
le ghirlande della gloria e i fiori del piacere.

Un tempo apparivano creature divine;
un tempo forse udirono i miei voti,
e sui loro altari videro le mie offerte;
ma, doni senza amore non sono apprezzati,
e i miei vennero disprezzati giustamente.

Con un cuore pronto ho giurato
di ignorare i loro altari di pietra;
ho consacrato il mio spirito ad adorare
te, creatura fantasma, onnipresente;
mio schiavo, mio compagno e mio re,

Schiavo, perché ancora ti governo;
ti piego alla mia volontà che vuol mutare,
rendo buono o cattivo il tuo influsso:
compagno, perché la notte e il giorno
tu sei la mia intima delizia.

Pena tanto amata che lacera e ferisce
e strappa dalle lacrime un grido di gioia
offuscando per me ogni terrena cura;
tuttavia, re, se pure la prudenza
ha insegnato alla tua schiava a ribellarsi.

Sono in torto se mi inchino a venerare
là dove la fede non ha dubbi, né la speranza dispera,
poiché la mia stessa anima può esaudire la preghiera?
Parla, dio delle visioni, parla per me,
spiega perché io ti abbia scelto!

2 aprile 2016

William Shakespeare - Sonetto n. 5

Tamara de Lempicka - Piena estate
William Shakespeare - Sonetto n. 5

L’ore cortesi che squisite danno
le forme al tuo bel viso, onde ogni sguardo
è avvinto, quel potere empio s’avranno:
fare meschino quel ch’era gagliardo.
Il tempo senza posa estate infonde
al tristo inverno, ch’entro lei s’inuna:
gelide linfe stringono le fronde,
beltà innevata è persa in plaga bruna.
Non rimanesse estate distillata,
liquida essenza in carceri di vetro,
beltà dal proprio effetto rovinata
senza rimedio avrebbe il tempo tetro.
fior distillato, se l’inverno avanza
perde il sembiante, e non dolce sostanza.

William Shakespeare - Sonetto n. 4

opera di Tamara Lempicka
William Shakespeare - Sonetto n. 4

Bellezza hai liberale, poiché spende
tutta per sé l’eredità gentile.
Retaggio di natura dà e riprende,
pròdigo al generoso e meno al vile.
Avara e bella, fa’ come conviene,
rendi quel patrimonio all’indigente:
l’usura è vana, se di tanto bene
la somma immensa non ti è sufficiente.
Se del tuo bene a te fai evizione,
sarai come un sensale disonesto:
quando a natura dovrai dar ragione,
come potrai lasciare un buon regesto?
Beltà infruttuosa ha esito infelice:
invèstila, e sarà tua curatrice.

William Shakespeare - Sonetto n. 3

Christoffer Wilhelm Eckersberg - Morning Toilette
William Shakespeare - Sonetto n. 3

Guarda lo specchio: al volto ch’è riflesso
di’ che a un secondo volto doni il vanto.
Se la tua grazia non rinnovi adesso,
dài frode al mondo, ad una madre il pianto.
Donna non è sì bella che il suo seno
fiero disdegni il seme dell’amato,
né uomo che l’orgoglio senza freno
d’amor di sé, d’un figlio abbia privato.
Specchio a tua madre, tu di sua bellezza
il vago aprile nel tuo viso porta.
Sia dolce, ai vetri spessi di vecchiezza,
l’età dell’oro, fra le rughe scorta.
Ma se vivrai senza lasciar memoria,
morirà solitaria la tua gloria.

Ritratto di donna - Wisława Szymborska

Jeune Fille Aux Gants - Tamara De Lempicka
Ritratto di donna - Wisława Szymborska

Deve essere a scelta.
Cambiare, purché niente cambi.
È facile, impossibile, difficile, ne vale la pena.
Ha gli occhi, se occorre, ora azzurri, ora grigi,
neri, allegri, senza motivo pieni di lacrime.
Dorme con lui come la prima volta, l’unica al mondo.
Gli darà quattro figli, nessuno, uno.
Ingenua, ma è un ottima consigliera.
Debole, ma lo sosterrà.
Non ha la testa sulle spalle, però l’avrà.
Legge Jaspers e le riviste femminili.
Non sa a che serve questa vite, e costruirà un ponte.
Giovane, come al solito giovane, sempre ancora giovane.
Tiene nelle mani un passero con l’ala spazzata,
soldi suoi per un viaggio lungo e lontano,
una mezzaluna, un impacco, e un bicchierino di vodka.
Dov’è che corre, non sarà stanca?
Ma no, solo un poco, molto, non importa.
O lo ama, o si è intestardita.
Nel bene, nel male, e per l’amor di Dio.


Traduzione di Piero Marchesani

William Shakespeare - Sonetto n. 1

opera di Tamara De Lempicka
William Shakespeare - Sonetto n. 1

Belle creature, a voi chiediamo figli
perché in quel fiore la bellezza duri:
quando saran gualciti i vostri gigli,
ne fioriranno ancora eredi puri.
Tu no, non curi. Al tuo sguardo di brace
nutri la fiamma di propria sostanza,
oscuri ogni chiarezza, togli pace,
fai carestia là dov’era abbondanza.
La tua bellezza fulgida, l'orgoglio
che primavera annuncia, e porta gaia,
fiorisce e muore in un solo germoglio,
paga il suo dolce pegno a te, usuraia.
Sii generosa al mondo, o ridi forte:
bevi alla stessa coppa vita e morte.

William Shakespeare - Sonetto n.2

opera di Tamara de Lempicka
William Shakespeare - Sonetto n.2

Quaranta inverni al tuo bell’incarnato
in guerra di trincea daranno assedio;
sarà il tuo manto, fiero ed invidiato,
lacera veste senza più rimedio.
Ti chiederanno dov’è lo splendore,
dove il tesoro dei giorni migliori:
togli lo sguardo, spento d’ogni ardore,
non far che la vergogna ti divori.
Sii prodiga di te, rendi la pura
bellezza del sembiante ad un erede:
sarà il tuo pegno, pagherà l’usura.
Questa salvezza un figlio ti concede.
Rinasci in lui, sconfiggi il tuo declino:
scalda il tuo sangue al sangue d’un bambino.

1 aprile 2016

The cast will know - Cesare Pavese

The cast will know - Cesare Pavese

Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l'alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.

Ci saranno altri giorni,
si saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.

Farai gesti anche tu.
Risponderai parole -
viso di primavera,
farai gesti anche tu.

I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l'alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi più non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffieremo nell'alba,
viso di primavera.

10 aprile 1950
(da “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, 1951)