18 dicembre 2015

La strada. Dialoghi con Leucò - Cesare Pavese

Edipo e la Sfinge - Gustave Moreau
La strada. Dialoghi con Leucò - Cesare Pavese

Tutti sanno che Edipo, vinta la sfinge e sposata Giocasta, scoperse chi era interrogando il pastore che l’aveva salvato sul Citerone. E allora l’oracolo che avrebbe ucciso il padre e sposata la madre fu vero, e Edipo si accecò dall’orrore e uscì da Tebe e morì vagabondo.
(Parlano Edipo e un mendicante)

Edipo - Non sono un uomo come gli altri, amico. Io sono stato condannato dalla sorte. Ero nato per regnare tra voi. Sono cresciuto sulle montagne. Vedere una montagna o una torre mi rimescolava – o una città in distanza, camminando nella polvere. E non sapevo di cercare la
mia sorte. Adesso non vedo più nulla e le montagne son soltanto fatica. Ogni cosa che faccio è destino. Capisci?
Mendicante - Io sono vecchio, Edipo, e non ho visto che destini. Ma credi che gli altri – anche i servi, anche i gobbi o gli storpi – non amerebbero esser stati re di Tebe come te?
Edipo - Capiscimi, amico. Il mio destino non è stato di aver perso qualcosa. Né gli anni né gli acciacchi mi spaventano. Vorrei cadere anche più in basso, vorrei perdere tutto – è la sorte comune. Ma non essere Edipo, non essere l’uomo che senza saperlo doveva regnare.
Mendicante - Non capisco, Ringrazia che sei stato signore e hai mangiato, hai bevuto, hai dormito dentro un letto. Chi è morto sta peggio.
Edipo - Non è questo, ti dico. Mi duole di prima, di quando non ero ancora nulla e avrei potuto essere un uomo come gli altri. E invece no, c’era il destino. Dovevo andare e capitare proprio a Tebe. Dovevo uccidere quel vecchio. Generare quei figli. Val la pena di fare una cosa ch’era già come fatta quando ancora non c’eri?
Mendicante - Vale la pena, Edipo. A noi tocca e ci basta. Lascia il resto agli dei.
Edipo - Non ci son dei nella mia vita. Quel che mi tocca è più crudele degli dei. Cercavo, ignaro come tutti, di far bene, di trovare nei giorni un bene ignoto che mi desse la sera un sollievo, la speranza che domani avrei fatto di più. Nemmeno all’empio manca questa contentezza. M’accompagnavano sospetti, voci vaghe, minacce. Da principio era solo un oracolo, una trista parola, e sperai di scampare. Vissi tutti quegli anni come il fuggiasco si guarda alle spalle. Osai credere soltanto ai miei pensieri, agli istanti di tregua, ai risvegli improvvisi. Stetti sempre all’agguato. E non scampai. Proprio in quegli attimi il destino si compiva.
Mendicante - Ma, Edipo, per tutti è così. Vuol dir questo un destino. Certo i tuoi casi sono stati atroci.
Edipo - No, non capisci, non capisci, non è questo. Vorrei che fossero più atroci ancora. Vorrei essere l’uomo più sozzo e più vile purché quello che ho fatto l’avessi voluto. Non subito così. Non compiuto volendo far altro. Che cosa è ancora Edipo, che cosa siamo tutti quanti, se fin la voglia più segreta del tuo sangue è già esistita prima ancora che nascessi e tutto quanto era già detto?
Mendicante - Forse, Edipo, qualche giorno di contento c’è stato anche per te. E non dico quando hai vinto la Sfinge e tutta Tebe ti acclamava, o ti è nato il tuo primo figliolo, e sedevi in palazzo ascoltando il consiglio. A queste cose non puoi più pensare, va bene. Ma hai pure vissuto la vita di tutti; sei stato giovane e hai veduto il mondo, hai riso e giocato e parlato, non senza saggezza; hai
goduto delle cose, il risveglio e il riposo, e battuto le strade. Ora sei cieco, va bene. Ma hai veduto altri giorni.
Edipo - Sarei folle, a negarlo. E la mia vita è stata lunga. Ma di nuovo ti dico: ero nato per regnare tra voi. A chi ha la febbre le frutta più buone danno soltanto smanie e nausea. E la mia febbre è il mio destino – il timore, l’orrore perenne di compiere proprio la cosa saputa. Io sapevo – ho saputo sempre – di agire come lo scoiattolo che crede d’inerpicarsi e fa soltanto ruotare la gabbia. E mi
domando: chi fu Edipo?
Mendicante - Un grande un vero signore, puoi dirlo. Io sentivo parlare di te, sulle strade e alle porte di Tebe. Ci fu qualcuno che lasciò la casa e girò la Beozia e vide il mare, e per avere la tua sorte andò a Delfi a tentare l’oracolo. Vedi che il tuo destino fu tanto insolito da mutare l’altrui. Che dovrà dire invece un uomo sempre vissuto in un villaggio, in un mestiere, che fa ogni giorno un solo gesto, e ha i soliti figli, le solite feste, e muore all’età di suo padre del solito male?
Edipo - Non sono un uomo come gli altri, lo so. Ma so che anche il servo o l’idiota se conoscesse i suoi giorni, schiferebbe anche quel povero piacere che ci trova. I disgraziati che han cercato il mio destino, sono forse scampati al proprio?
Mendicante - La vita è grande, Edipo. Io, che ti parlo, sono stato di costoro. Ho lasciato la casa e percorso la Grecia. Ho visto Delfi e sono giunto al mare. Speravo l’incontro, la fortuna, la Sfinge. Ti sapevo felice nella reggia di Tebe. Ero un uomo robusto, allora. E se anche non ho trovato la Sfinge, e nessun oracolo ha parlato per me, mi è piaciuta la vita che ho fatto. Tu sei stato il mio
oracolo. Tu hai rovesciato il mio destino. Mendicare o regnare, che importa? Abbiamo entrambi vissuto. Lascia il resto agli dei.
Edipo - Non saprai mai se ciò che hai fatto l’hai voluto… Ma certo la libera strada ha qualcosa di umano, di unicamente umano. Nella sua solitudine tortuosa è come l’immagine di quel dolore che ci scava. Un dolore che è come un sollievo, come una pioggia dopo l’afa – silenzioso e tranquillo, pare che sgorghi dalle cose, dal fondo del cuore. Questa stanchezza e questa pace, dopo i clamori
del destino, son forse l’unica cosa che è nostra davvero.
Mendicante - Un giorno non c’eravamo, Edipo. Dunque anche le voglie del cuore, anche il sangue, anche i risvegli sono usciti dal nulla. Sto per dire che anche il tuo desiderio di scampare al destino, è destino esso stesso. Non siamo noi che abbiamo fatto il nostro sangue. Tant’è saperlo e viver franchi, secondo l’oracolo.
Edipo - Fin che si cerca, amico, allora sì. Tu hai avuto fortuna a non giungere mai. Ma viene il giorno che ritorni al Citerone e tu più non ci pensi, la montagna è per te un’altra infanzia, la vedi ogni giorno e magari ci sali. Poi qualcuno ti dice che sei nato lassù. E tutto crolla.
Mendicante - Ti capisco, Edipo. Ma abbiamo tutti una montagna dell’infanzia. E per lontano che si vagabondi, ci si ritrova sul suo sentiero. Là fummo fatti quel che siamo.
Edipo - Altro è parlare, altro soffrire, amico. Ma certo parlando, qualcosa si placa nel cuore. Parlare è un poco come andare per le strade giorno e notte a modo nostro senza mèta, non come i giovani che cercano fortuna. E tu hai molto parlato, e visto molto. Davvero volevi regnare?
Mendicante - Chi lo sa? Quel che è certo, dovevo cambiare. Si cerca una cosa e si trova tutt’altro. Anche questo è destino. Ma parlate ci aiuta a ritrovate noi stessi.
Edipo - E hai famiglia? hai qualcuno? Non credo.
Mendicante - Non sarei quel che sono.
Edipo - Strana cosa che per capire il prossimo ci tocchi fuggirlo. E i discorsi più veri sono quelli che facciamo per caso, tra sconosciuti. Oh così dovevo vivere, io Edipo, lungo le strade della Fòcide e dell’Istmo, quando avevo i miei occhi. E non salire le montagne, non dar retta agli oracoli…
Mendicante - Tu dimentichi almeno un discorso di quelli che hai fatto.
Edipo - Quale, amico?
Mendicante - Quello al crocicchio della Sfinge.

I due. Dialoghi con Leucò - Cesare Pavese

Charles Antoine Coype - l'ira di Achille
I due. Dialoghi con Leucò - Cesare Pavese

Superfluo rifare Omero. Noi abbiamo voluto semplicemente riferire un colloquio che ebbe luogo la vigilia della morte di Patroclo.
(Parlano Achille e Patroclo)

ACHILLE: Patroclo, perché noi uomini diciamo sempre per farci coraggio: “Ne ho viste di peggio” quando dovremmo dire: “Il peggio verrà. Verrà un giorno che saremo cadaveri”?
PATROCLO: Achille, non ti conosco più.
ACHILLE: Ma io sì ti conosco. Non basta un pò di vino per uccidere Patroclo. Stasera so che dopotutto non c’è differenza tra noialtri e gli uomini vili. Per tutti c’è un peggio.
E questo peggio vien per ultimo, viene dopo ogni cosa, e ti tappa la bocca come un pugno di terra. È sempre bello ricordarsi: “Ho visto questo, ho patito quest’altro” – ma non è iniquo che proprio la cosa più dura non la potremo ricordare?
PATROCLO: Almeno, uno di noi la potrà ricordare per l’altro. Speriamolo. Così giocheremo il destino.
ACHILLE: Per questo, la notte, si beve. Hai mai pensato che un bambino non beve, perché per lui non esiste la morte? Tu, Patroclo, hai bevuto da ragazzo?
PATROCLO: Non ho mai fatto nulla che non fosse con te o come te.
ACHILLE: Voglio dire, quando stavamo sempre insieme e giocavamo e cacciavamo, e la giornata era breve ma gli anni non passavano mai, tu sapevi cos’era la morte, la tua morte? Perché da ragazzi si uccide, ma non si sa cos’è la morte. Poi viene il giorno che d’un tratto si capisce, si è dentro la morte, e da allora si è uomini fatti. Si combatte e si gioca, si beve, si passa la notte impazienti. Ma hai mai veduto un ragazzo ubriaco?
PATROCLO: Mi chiedo quando fu la prima volta. Non lo so. Non ricordo. Mi pare di aver sempre bevuto, e ignorato la morte.
ACHILLE: Tu sei come un ragazzo, Patroclo.
PATROCLO: Chiedilo ai tuoi nemici, Achille.
ACHILLE: Lo farò. Ma la morte per te non esiste. E non è buon guerriero chi non teme la morte.
PATROCLO: Pure bevo con te, questa notte.
ACHILLE: E non hai ricordi, Patroclo? Non dici mai: “Quest’ho fatto. Quest’ho veduto” chiedendoti che cos’hai fatto veramente, che cos’è stata la tua vita, cos’è che hai lasciato di te sulla terra e nel mare? A che serve passare dei giorni se non si ricordano?
PATROCLO: Quand’eravamo due ragazzi, Achille, niente ricordavamo. Ci bastava essere insieme tutto il tempo.
ACHILLE: Io mi chiedo se ancora qualcuno in Tessaglia si ricorda d’allora. E quando da questa guerra torneranno i compagni laggiù, chi passerà su quelle strade , chi saprà che una volta ci fummo anche noi – ed eravamo due ragazzi come adesso ce n’è certo degli altri. Lo sapranno i ragazzi che crescono adesso, che cosa li attende?
PATROCLO: Non ci si pensa da ragazzi.
ACHILLE: Ci sono giorni che dovranno nascere noi non vedremo.
PATROCLO: Non ne abbiamo veduti già molti?
ACHILLE: No, Patroclo, non molti. Verrà il giorno che saremo cadaveri. Che avremo tappata la bocca con un pugno di terra. E nemmeno sapremo quel che abbiamo veduto.
PATROCLO: Non serve pensarci.
ACHILLE: Non si può non pensarci. Da ragazzi si è come immortali, si guarda e si ride. Non si sa quello che costa. Non si sa la fatica e il rimpianto. Si combatte per gioco e ci si butta a terra morti. Poi si ride e si torna a giocare.
PATROCLO: Noi abbiamo altri giochi. Il letto e il bottino. I nemici. E questo bere di stanotte. Achille, quando torneremo in campo?
ACHILLE: Torneremo, sta’ certo. Un destino ci aspetta. Quando vedrai le navi in fiamme, sarà l’ora.
PATROCLO: A questo punto?
ACHILLE: Perché? Ti spaventa? Non ne hai viste di peggio?
PATROCLO: Mi mette la smania. Siamo qui per finirla. Magari domani.
ACHILLE: Non avere fretta, Patroclo. Lascia dire “domani” agli dèi. Solamente per loro quel che è stato sarà.
PATROCLO: Ma vederne di peggio dipende da noi. Fino all’ultimo. Bevi, Achille. Alla lancia e allo scudo. Quel che è stato sarà ancora. Torneremo a rischiare.
ACHILLE: Bevo ai mortali e agli immortali, Patroclo. A mio padre e amia madre. A quel che è stato, nel ricordo. E a noi due.
PATROCLO: Tante cose ricordi?
ACHILLE: Non più di una donnetta o un pezzente. Anche loro sono stati ragazzi.
PATROCLO: Tu sei ricco, Achille, e per te la ricchezza è uno straccio che si butta. Tu solo puoi dire di essere come un pezzente. Tu che hai preso d’assalto lo scoglio del Ténedo, tu che hai spezzato la cintura dell’amazzone, e lottato con gli orsi sulla montagna. Quale altro bimbo la madre ha temprato nel fuoco come te? Tu sei spada e sei lancia, Achille.
ACHILLE: Tranne nel fuoco, tu sei stato con me sempre.
PATROCLO: Come l’ombra accompagna la nube. Come Teseo con Piritoo. Forse un giorno ti aspetta, Achille, che anche tu verrai nell’Ade a liberarmi. E vedremo anche questa.
ACHILLE: Meglio quel tempo in cui no c’era l’Ade. Allora andavamo tra boschi e torrenti e, lavato il sudore, eravamo ragazzi. Allora ogni gesto, ogni cenno era un gioco. Eravamo ricordo e nessuno sapeva. Avevamo del coraggio? Non so. Non importa. So che sul monte del centauro era l’estate, era l’inverno, era tutta la vita. Eravamo immortali.
PATROCLO: Ma poi venne il peggio. Venne il rischio e la morte. E allora noi fummo guerrieri.
ACHILLE: Non si sfugge alla sorte. E non vidi mio figlio. Anche Deidamia è morta. Oh perché non rimasi sull’isola in mezzo alle donne?
PATROCLO: Avresti poveri ricordi, Achille. Saresti un ragazzo. Meglio soffrire che non essere esistito.
ACHILLE: Ma chi ti dice che la vita fosse questa?…Oh Patroclo, è questa. Dovevamo vedere il peggio.
PATROCLO: Io domani scendo in campo. Con te.
ACHILLE: Non è ancora il mio giorno.
PATROCLO: E allora andrò da solo. E per farti vergogna prenderò la tua lancia.
ACHILLE: Io non ero ancora nato, che abbatterono il frassino. Vorrei vedere la radura che ne resta.
PATROCLO: Scendi in campo e la vedrai degna di te. Tanti nemici, tanti ceppi.
ACHILLE: Le navi ardono ancora.
PATROCLO: Prenderò i tuoi schinieri e il tuo scudo. Sarai tu nel mio braccio. Nulla potrà sfiorarmi. Mi parrà di giocare.
ACHILLE: Sei davvero il bambino che beve.
PATROCLO: Quando correvi col centauro, Achille, non pensavi ai ricordi. E non eri più immortale che stanotte.
ACHILLE: Solamente gli dèi sanno il destino e vivono. Ma tu giochi col destino.
PATROCLO: Bevi ancora con me. Poi domani, magari nell’Ade, diremo anche questa.

La Madre. Dialoghi con Leucò - Cesare Pavese

Meleagro e Atalanta - Jacob Jordaens
La Madre. Dialoghi con Leucò - Cesare Pavese

La vita di Meleagro era legata a un tizzone che la madre Altea cavò dal fuoco quando le nacque il figlio. Madre imperiosa che, quando Meleagro ebbe ucciso lo zio che pretendeva la sua parte della pelle del cinghiale, in uno scatto d’ira ributtò il tizzone nel fuoco e lo lasciò morire.
(Parlano Meleagro e Ermete)

MELEAGRO Sono bruciato come un tizzo, Ermete.
ERMETE Ma non avrai sofferto molto.
MELEAGRO Era peggio la pena, la passione di prima.
ERMETE E adesso ascolta, Meleagro. Tu sei morto. La fiamma, l’arsione sono cose passate. Tu sei meno del fumo che si è staccato da quel fuoco. Sei quasi nulla. Rassegnati. E per te non sono nulla le cose del mondo, il mattini, la sera, i paesi. Guardati intorno adesso.
MELEAGRONon vedo nulla e non m’importa. Sono ancora una brace… Cos’hai detto dei paesi del mondo? O Ermete, come a dio che tu sei, certo il mondo è bello, e diverso, e sempre dolce. Hai i tuoi occhi, Ermete. Ma io Meleagro fui soltanto cacciatore e figlio di9 cacciatori, non uscii mai dalle mie selve, vissi davanti a un focolare, e quando nacqui il mio destino era già chiuso nel tizzone che mia madre rubò. Non conobbi che qualche compagno, le belve, e mia madre.
ERMETE Tu credi che l’uomo, qualunque uomo, abbia mai conosciuto altro?
MELEAGRO Non so. Ma ho sentito parlare di libere vite di là dai monti e dai fiumi, di traversate, di arcipelaghi, d’incontri con mostri e con dèi. Di uomini più forti anche di me, più giovani, segnati da strani destini.
ERMETE Avevano tutti una madre, Meleagro. E fatiche da compiere e una morte li attendeva, per la passione di qualcuno. Nessuno fu signore de né conobbe mai altro.
MELEAGRO Una madre… nessuno conosce la mia. Nessuna sa cosa significhi saper la propria vita in mano a lei e sentirsi bruciare, e quegli occhi che fissano il fuoco. Perché, il giorno che nacqui, strappò il tizzone dalla fiamma e non lasciò che incenerissi? E dovevo crescere, diventare quel Meleagro, piangere, giocare, andare a caccia, veder l’inverno, veder le stagioni, essere uomo - ma saper l’altra cosa, portare nel cuore quel peso, spiarle in viso la mia sorte quotidiana. Qui è la pena. Non è nulla un nemico.
ERMETE Siete stranezze voi mortali. Vi stupite di ciò che sapete. Che un nemico non pesi, è evidente. Così come ognuno ha una madre. E perché dunque è inaccettabile saper la propria vita in mano a lei?
MELEAGRO Noi cacciatori, Ermete, abbiamo un patto. Quando saliamo la montagna ci aiutiamo a vicenda - ciascuno ha in pugno la vita dell’altro, ma non si tradisce il compagno.
ERMETE O sciocco, non si tradisce il compagno… Ma non è questo. Sempre la vostra vita è nel tizzone, e la madre che vi ha strappati dal fuoco, e voi vivete mezzo riarsi. E la passione che vi finisce è ancora quella della madre. Che altro siete se non carne e sangue suoi?
MELEAGRO Ermete, bisogna aver visto i suoi occhi. Bisogna averli visti dall’infanzia, e saputi familiare e sentirli fissi su ogni tuo passo e gesto, per giorni, per anni, e sapere che invecchiano, che muoiono, e soffrirci, farsene pena, temere di offenderli. Allora si, è inaccettabile che fissino il fuoco vedendo il tizzone.
ERMETE Sai anche questo e ti stupisci, Meleagro? Ma che invecchino e muoiano vuol dire che tu intanto ti sei fatto uomo e sapendo di offenderli li vai cercando altrove vivi e veri. E se trovi questi occhi - si trovano sempre, Meleagro - chi li porta è di nuovo la madre. E tu allora non sai più con chi hai da fare e sei quasi contento, ma sta certo che loro - la vecchia e le giovani - sanno. E nessuno può sfuggire al destino che l’ha segnato dalla nascita col fuoco.
MELEAGRO Qualche altro ha avuto il mio destino, Ermete?
ERMETE Tutti, Meleagro, tutti. Tutti attende una morte, per la passione di qualcuno. Nella carne e nel sangue di ognuno rugge la madre. Vero è che molti sono vili, più di te.
MELEAGRO Non ero vile, Ermete.
ERMETE Ti parlo come a ombra, non come a mortale. Fin che l’uomo non sa, è coraggioso.
MELEAGRO Non sono vile, se mi guardo intorno. So tante cose adesso. Ma non credo che anche lei - la giovane - sapesse quegli occhi.
ERMETE Non li sapeva. Era quegli occhi.
MELEAGRO o Atalanta, io mi domando se anche tu sarai madre, e capace di guardare nel fuoco.
ERMETE Vedi se ti ricordi le parole che disse, la sera che scannaste il cinghiale.
MELEAGRO Quella sera, la sera del patto. Non la dimentico, Ermete. Atalanta era piena di furia perché avevo lasciato sfuggire la belva nella neve. Mi menò un colpo con la scure e mi prese alla spalla. Io da quel colpo mi sentii toccare appena, ma le urlai più furente di lei: “Ritorna a casa. Ritorna con le donne, Atalanta. Qui non è il luogo da capricci di ragazze”. E la sera, quando il cinghiale fu morto, Atalanta camminò con me in mezzo ai compagni e mi diede la scure ch’era cercata a trovare da sola sul nevaio. Facemmo il patto, quella sera, che, andando a caccia, uno dei due sarebbe a turno stato disarmato, perché l’altro non fosse tentato dall’ira.
ERMETE e che cosa ti disse Atalanta?
MELEAGRO Non l’ho scordato, Ermete. “O figlio di Altea, - disse, - la pelle del cinghiale starà sul nostro letto di nozze. Sarà come il prezzo del tuo sangue - e del mio”. E sorrise, così per farsi perdonare.
ERMETE Nessun mortale, Melagro, riesce a pensare sua madre ragazza. Ma non ti pare che dice queste cose sarà capace di guardare il fuoco? Anche la vecchia Altea ti uccise per un prezzo del sangue.
MELEAGRO O Ermete, tutto ciò è il mio destino. Ma son pure esistiti mortali che vissero a sazietà senza che nessuno avesse in pugno il loro giorni…
ERMETE Tu ne conosci, Meleagro? Sarebbero dèi. Qualche vile è riuscito a nascondere il capo, ma anche lui portava sangue di madre, e allora l’odio, la passione, la furia son divampati nel suo cuore solo. In qualche sera della vita anche lui si è sentito riardere. Non tutti - è vero - siete morti di questo. Tutti, quando sapete, conducete una vita di morti. Credimi, Meleagro, tu hai avuto fortuna.
MELEAGRO Ma nemmeno vedere i miei figli… non conoscere quasi il mio letto…
ERMETE Hai avuto fortuna. I tuoi figli non nasceranno. Il tuo letto è deserto. I tuoi compagni vanno a caccia come quando non c’eri. Tu sei un’ombra e il nulla.
MELEAGRO E Atalanta, Atalanta?
ERMETE La casa è vuota come quando annottava e tardavate a ritornare dalla caccia. Atalanta, che ti ha istigato a vendicarti, non è morta. Le due donne convivono senza parole, guardano il focolare, dov’è stramazzato il fratello di tua madre e dove tu sei fatto cenere. Forse non si odiano nemmeno. Si conoscono troppo. Senza l’uomo le donne son nulla.
MELEAGRO Ma allora perché ci hanno ucciso?
ERMETE Chiedi perché vi han fatto, Meleagro.

La belva. Dialoghi con Leucò - Cesare Pavese

Sebastiano Ricci - Endimione e Selene
La belva. Dialoghi con Leucò - Cesare Pavese

Noi siamo convinti che gli amori di Artemide con Endimione non furono cosa carnale. Ciò beninteso non esclude - tutt'altro - che il meno energico dei due anelasse a sparger sangue. Il carattere non dolce della dea vergine - signora delle belve, ed emersa nel mondo da una selva d'indescrivibili madri divine del mostruoso Mediterraneo - è noto. Altrettanto noto è che uno quando non dorme vorrebbe dormire e passa alla storia come l'eterno sognatore.
(Parlano Endimione e uno straniero)

ENDIMIONE Ascolta, passante. Come a straniero posso dirti queste cose. Non spaventarti dei miei occhi di folle. Gli stracci che ti avvolgono i piedi sono brutti come i miei occhi, ma tu sembri un uomo valido che quando vorrà si fermerà nel paese che ha scelto, e qui avrà un riparo, un lavoro, una casa. Ma sono convinto che se adesso cammini è perché non hai nulla se non la tua sorte. E tu vai per le strade a quest'ora dell'alba - dunque ti piace essere sveglio tra le cose quando escono appena dal buio e nessuno le ha ancora toccate. Vedi quel monte? E’ il Latmo. Io l'ho salito tante volte nella notte, quand'era più nero, e ho atteso l'alba tra i suoi faggi. Eppure mi pare di non averlo toccato mai.
STRANIERO Chi può dire di aver mai toccato quello accanto a cui passa?
ENDIMIONE Penso a volte che noi siamo come il vento che trascorre impalpabile. O come i sogni di chi dorme. Tu ami, straniero, dormire di giorno?
STRANIERO Dormo comunque, quando ho sonno e casco.
ENDIMIONE E nel sonno ti accade - tu che vai per le strade - di ascoltar lo stormire del vento, e gli uccelli, gli stagni, il ronzio, la voce dell'acqua? Non ti pare, dormendo, di non essere mai solo?
STRANIERO Amico, non saprei. Sono vissuto sempre solo.
ENDIMIONE O straniero, io non trovo più pace nel sonno. Credo di aver dormito sempre, eppure so che non e vero.
STRANIERO Tu mi sembri uomo fatto, e robusto.
ENDIMIONE Lo sono, straniero, lo sono. E so il sonno del vino, e quello pesante che si dorme al fianco di una donna, ma tutto questo non mi giova. Dal mio letto oramai tendo l'udito, e sto pronto a balzare, e ho questi occhi, questi occhi, come di chi fissa nel buio. Mi pare di esser sempre vissuto così.
STRANIERO Ti è mancato qualcuno?
ENDIMIONE Qualcuno? O straniero, tu lo credi che noi siamo mortali?
STRANIERO Qualcuno ti è morto?
ENDIMIONE Non qualcuno. Straniero, quando salgo sul Latmo io non sono più un mortale. Non guardare i miei occhi, non contano. So che non sogno, da tanto non dormo. Vedi le chiazze di quei faggi, sulla rupe? Questa notte ero la e l'ho aspettata.
STRANIERO Chi doveva venire?
ENDIMIONE Non diciamo il suo nome. Non diciamolo. Non ha nome. O ne ha molti, lo so. Compagno uomo, tu sai cos'è l'orrore del bosco quando vi si apre una radura notturna? O no. Quando ripensi nottetempo alla radura che hai veduto e traversato di giorno, e la c'è un fiore, una bacca che sai, che oscilla al vento, e questa bacca, questo fiore, è una cosa selvaggia, intoccabile, mortale, fra tutte le cose selvagge? Capisci questo? Un fiore che è come una belva? Compagno, hai mai guardato con spavento e con voglia la natura di una lupa, di una daina, di una serpe?
STRANIERO Intendi, il sesso della belva viva?
ENDIMIONE Si ma non basta. Hai mai conosciuto persona che fosse molte cose in una, le portasse con sé, che ogni suo gesto, ogni pensiero che tu fai di lei racchiudesse infinite cose della tua terra e del tuo cielo, e parole, ricordi, giorni andati che non saprai mai, giorni futuri, certezze, e un'altra terra e un altro cielo che non ti è dato possedere?
STRANIERO Ho sentito parlare di questo.
ENDIMIONE O straniero, e se questa persona è la belva, la cosa selvaggia, la natura intoccabile, che non ha nome?
STRANIERO Tu parli di cose terribili.
ENDIMIONE Ma non basta. Tu mi ascolti, com'è giusto. E se vai per le strade, sai che la terra è tutta piena di divino e di terribile. Se ti parlo è perché, come viandanti e sconosciuti, anche noi siamo un poco divini.
STRANIERO Certo, ho veduto molte cose. E qualcuna terribile. Ma non occorre andar lontano. Se può giovarti, ti dirò che gli immortali sanno la strada della cappa del camino.
ENDIMIONE Dunque, lo sai, e mi puoi credere. Io dormivo una sera sul Latmo - era notte - mi ero attardato nel vagabondare, e seduto dormivo, contro un tronco. Mi risvegliai sotto la luna - nel sogno ebbi un brivido al pensiero ch'ero là, nella radura - e la vidi. La vidi che mi guardava, con quegli occhi un poco obliqui, occhi fermi, trasparenti, grandi dentro. Io non lo seppi allora, non lo sapevo l'indomani, ma ero già cosa sua, preso nel cerchio dei suoi occhi, dello spazio che occupava, della radura, del monte. Mi salutò con un sorriso chiuso; io le dissi: «Signora»; e aggrottava le ciglia, come ragazza un po' selvatica, come avesse capito che mi stupivo, e quasi dentro sbigottivo, a chiamarla signora. Sempre rimase poi fra noi quello sgomento.
O straniero, lei mi disse il mio nome e mi venne vicino - la tunica non le dava al ginocchio - e stendendo la mano mi toccò sui capelli. Mi toccò quasi esitando, e le venne un sorriso, un sorriso incredibile, mortale. Io fui per cadere prosternato - pensai tutti i suoi nomi - ma lei mi trattenne come si trattiene un bimbo, la mano sotto il mento. Sono grande e robusto, mi vedi, lei era fiera e non aveva che quegli occhi - una magra ragazza selvatica - ma fui come un bimbo. «Tu non dovrai svegliarti mai», mi disse. «Non dovrai fare un gesto. Verrò ancora a trovarti». E se ne andò per la radura.
Percorsi il Latmo quella notte, fino all'alba. Seguii la luna in tutte le forre, nelle macchie, sulle vette. Tesi l'orecchio che ancora avevo pieno, come d'acqua marina, di quella voce un poco rauca, fredda, materna. Ogni brusio e ogni ombra mi arrestava. Delle creature selvagge intravvidi soltanto le fughe. Quando venne la luce – una luce un po' livida, coperta - guardai dall'alto la pianura, questa strada che facciamo, straniero, e capii che mai più sarei vissuto tra gli uomini. Non ero più uno di loro. Attendevo la notte.
STRANIERO Cose incredibili racconti, Endimione. Ma incredibili in questo che, poiché senza dubbio sei tornato sul monte, tu viva e cammini tuttora, e la selvaggia, la signora dai nomi, non ti abbia ancora fatto suo.
ENDIMIONE Io sono suo, straniero.
STRANIERO Voglio dire... Non conosci la storia del pastore lacerato dai cani, l'indiscreto, l'uomo-cervo...?
ENDIMIONE O straniero, io so tutto di lei. Perché abbiamo parlato, parlato, e io fingevo di dormire, sempre, tutte le notti, e non toccavo la sua mano, come non si tocca la leonessa o l'acqua verde dello stagno, o la cosa che è più nostra e portiamo nel cuore. Ascolta. Mi sta innanzi - una magra ragazza, non sorride, mi guarda. E gli occhi grandi, trasparenti, hanno visto altre cose. Le vedono ancora. Sono loro queste cose. In questi occhi c'è la bacca e la belva, c'è l'urlo, la morte, l'impetramento crudele. So il sangue sparso, la carne dilaniata, la terra vorace, la solitudine. Per lei, la selvaggia, è solitudine. Per lei, la belva, è solitudine. La sua carezza è la carezza che si fa al cane o al tronco d'albero. Ma, straniero, lei mi guarda, mi guarda, e nella tunica breve è una magra ragazza, come tu forse ne hai vedute al tuo paese.
STRANIERO Della tua vita d'uomo, Endimione, non avete parlato?
ENDIMIONE Straniero, tu sai cose terribili, e non sai che il selvaggio e il divino cancellano l'uomo?
STRANIERO Quando sali sul Latmo non sei più mortale, lo so. Ma gli immortali sanno stare soli. E tu non vuoi la solitudine. Tu cerchi il sesso delle bestie. Tu con lei fingi il sonno. Che cos'è dunque che le hai chiesto?
ENDIMIONE Che sorridesse un'altra volta. E questa volta esserle sangue sparso innanzi, essere carne nella bocca del suo cane.
STRANIERO E che ti ha detto?
ENDIMIONE Nulla dice. Mi guarda. Mi lascia solo, sotto l'alba. E la cerco tra i faggi. La luce del giorno mi ferisce gli occhi. «Tu non dovrai svegliarti mai», mi ha detto.
STRANIERO O mortale, quel giorno che sarai sveglio veramente, saprai perché ti ha risparmiato il suo sorriso.
ENDIMIONE Lo so fin d'ora, o straniero, o tu che parli come un dio.
STRANIERO Il divino e il terribile corron la terra, e noi andiamo sulle strade. L'hai detto tu stesso.
ENDIMIONE O dio viandante, la sua dolcezza è come l'alba, e terra e cielo rivelati. Ed è divina. Ma per altri, per le cose e le belve, lei la selvaggia ha un riso breve, un comando che annienta. E nessuno le ha mai toccato il ginocchio.
STRANIERO Endimione, rassegnati nel tuo cuore mortale. Né dio né uomo l'ha toccata. La sua voce ch'è rauca e materna è tutto quanto la selvaggia ti può dare.
ENDIMIONE Eppure.
STRANIERO Eppure?
ENDIMIONE Fin che quel monte esisterà non avrò più pace nel sonno.
STRANIERO Ciascuno ha il sonno che gli tocca, Endimione. E il tuo sonno è infinito di voci e di grida, e di terra, di cielo, di giorni. Dormilo con coraggio, non avete altro bene. La solitudine selvaggia è tua. Amala come lei l'ama. E adesso, Endimione, io ti lascio. La vedrai questa notte.
ENDIMIONE O dio viandante, ti ringrazio.
STRANIERO Addio. Ma non dovrai svegliarti più, ricorda.

Il fiore . Dialoghi con leucò - Cesare Pavese

La morte di Giacinto - Karel Philips Spierincks
Il fiore . Dialoghi con leucò - Cesare Pavese

Che a questo fatto dolce-atroce, il quale non riesce a disgustarci di un dio primaverile come Apolline il Chiaro, assistessero i leopardiani Eros e Tànatos, è di solare evidenza.
(Parlano Eros e Tànatos)

EROS Te l’aspettavi questo fatto, Tànatos?
TANATOS Tutto mi aspetto, ds un Olimpico. Ma che finisse in questo modo, no.
EROS Per fortuna, i mortali la chiameranno una disgrazia.
TANATOS Non è la prima, e non sarà l’ultima volta.
EROS E intanto Iacinto è morto. Le sorelle già lo piangono. L’inutile fiore spruzzato del suo sangue, costella ormai tutte le valli dell’Europa. È primavere, Tànatos, ed il ragazzo non la vedrà
TANATOS Dov’è passato un immortale, sempre spuntano di questi fiori. Ma le altre volte, almeno, c’era una fuga, un pretesto, un’offesa. Riluttavano al dio, o commettevano empietà. Così accadde di Dafne, di Elmo, di Atteone. Iacinto invece non fu che un ragazzo. Visse i suoi giorni venerando il suo signore. Giocò con lui come gioca il fanciullo. Era scosso e stupito. Tu, Eros, lo sai.
EROS Già i mortali dicono che fu una disgrazia. Nessuno pensa che il Radioso non è uso fallire i suoi colpi.
TANATOS Ho assistito soltanto al sorriso aggrottato con cui seguì il volo del disco e lo vide cadere. Lo lanciò in alto nel senso del sole, e Iacinto levò gli occhi e le mani, e l’attese abbagliato. Gli piombò sulla fronte. Perché questo, Eros? Tu certo lo sai.
EROS Che devo dirti, Tànatos? Io non posso intenerirmi su un capriccio. E lo sai anche tu – quando un dio avvicina un mortale, segue sempre una cosa crudele. Tu stesso hai parlato di Dafne e Atteone.
TANATOS Che fu dunque, stavolta?
EROS Te l’ho detto, un capriccio. Il Radioso ha voluto giocare. È disceso tra gli uomini e ha visto Iacinto. Per sei giorni è vissuto in Amicle, sei giorni che a Iacinto cambiarono il cuore e rinnovarono la terra. Poi quando al signore venne voglia di andarsene, Iacinto lo guardava smarrito. Allora il disco gli piombò tra gli occhi…
TANATOS Chi sa… il Radioso non voleva che piangesse.
EROS No. Che cosa sia piangere il Radioso non sa. Lo sappiamo noialtri, dèi e demoni bambini, ch’eravamo già in vita quando l’olimpo era soltanto un monte brullo. Abbiamo visto molte cose, abbiamo visto piangere anche gli alberi e le pietre. Il signore è diverso. Per lui sei giorni o un’esistenza non fa nulla. Nessuno seppe tutto ciò come Iacinto.
TANATOS Credi davvero che Iacinto abbia capito queste cose? Che il signore sia stato per lui altro che un modello, un compagno maggiore, un fratello fidato e venerato? Io l’ho veduto solamente quando tese le mani alla gara - non aveva sulla fronte che fiducia e stupore. Iacinto ignorava che fosse il Radioso.
EROS Tutto può darsi, Tànatos. Può anche darsi che il ragazzo non sapesse di Elino e di Dafne. Dove finisca lo sgomento e incominci la fede, è difficile dire. Ma certo trascorse sei giorni di ansiosa passione.
TANATOS Secondo te che, cosa accadde nel suo cuore?
EROS Quel che accade a ogni giovane. Ma stavolta l’oggetto dei pensieri e degli atti per un ragazzo fu eccessivo. Nella palestra, nelle stanze, lungo le acque dell’Eurota, parlava con l’ospite, s’accompagnava a lui, lo ascoltava. Ascoltava le storie di Delo e di Delfi, il Tifone, la Tessaglia, il paese degli Iperborei. Il dio parlava sorridendo tranquillo, come fa il viandante che credevano morto e ritorna più esperto. Quel che è certo, il signore non disse mai del suo Olimpo, dei compagni immortali, delle cose divine. Parlò si sé, della sorella, delle Càriti, come si parla di una vita familiare - meravigliosa e familiare. Qualche volta ascoltarono insieme un poeta girovago, ospitato per la notte.
TANATOS Nulla di brutto in tutto questo.
EROS Nulla di brutto, e anzi parole di conforto. Iacinto imparò che il signore di Delo con quegli occhi indicibili e quella pacata parola aveva visto e trattato molte cose nel mondo che potevano anche a lui toccare un giorno. L’ospite discorreva anche di lui, della sua sorte. La vita spicciola di Amicle gli era chiara e familiare. Faceva progetti. Trattava Iacinto come un eguale e coetaneo, e nomi di Aglaia, di Eurinòme, di Auxò - donne lontane e sorridenti, donne giovani, vissute con l’ospite in misteriosa intimità - venivano detti con noncuranza tranquilla, con un gusto indolente che a Iacinto faceva rabbrividire il cuore. Questo lo stato del ragazzo. Davanti al signore ogni cosa era agevole, chiara. A Iacinto pareva di potere ogni cosa.
TANATOS Ho conosciuto altri mortali. E più esperti, più esperti, più saggi, più forti che Iacinto. Tutti distrusse questa smania di potere ogni cosa.
EROS Mio caro, in Iacinto non fu che speranza, una trepida speranza di somigliarsi all’ospite. Né il Radioso raccolse l’entusiasmo che leggeva in quegli occhi - gli bastò suscitarlo -, lui scorgeva già allora negli occhi e nei riccioli il bel fiore chiazzato ch’era la sorte di Iacinto. Non pensò né a parole né a lacrime. Era venuto per vedere un fiore. Questo fiore doveva esser degno di lui - meraviglioso e familiare, come il ricordo delle Càriti. E con calma indolenza creò questo fiore.
TANATOS Siamo cose feroci, noialtri immortali. Io mi chiedo fin dove gli Olimpici faranno il destino. Tutto osare può darsi distrugga anche loro.
EROS Chi può dirlo? Dai tempi del caos non si è visto che sangue. Sangue d’uomini, di mostri e di dèi. Si comincia e si muore nel sangue. Tu come credi di esser nato?
TANATOS Che per nascere occorra morire, lo sanno anche gli uomini. Non lo sanno gli Olimpici. Se lo sono scordato. Loro durano in un mondo che passa. Non esistono:sono. Ogni loro capriccio è una legge fatale. Per esprimere un fiore distruggono un uomo.
EROS Si, Tànatos. Ma non vogliamo tener conto dei ricchi pensieri che Iacinto incontrò? Quell’ansiosa speranza che fu il suo morire fu pure il suo nascere. Era un giovane inconscio, un poco assorto, annebbiato d’infanzia, il figliolo d’Amicle, re modesto di terra modesta - che cosa mai sarebbe stato senza l’ospite di Delo?
TANATOS Un uomo tra gli uomini, Eros.
EROS Lo so. E so pure che alla sorte non si sfugge. Ma non son uso intenerirmi su un capriccio. Iacinto ha vissuto sei giorni nell’ombra di una luce. Non gli mancò, della gioia perfette, nemmeno la fine rapida e amara. Quella che Olimpici e immortali non conoscono. Che altro vorresti, Tànatos, per lui?
TANATOS Che il Radioso lo piangesse come noi.
EROS Tu chiedi troppo, Tànatos.

dialoghi con Leucò. Le cavalle - Cesare Pavese

Pompeo Batoni - Teti affida Achille al centauro Chirone

dialoghi con Leucò. Le cavalle - Cesare Pavese


Di Ermete, dio ambiguo tra la vita e la morte, tra il sesso e lo spirito, fra i Titani e gli dei dell’Olimpo, non è il caso di parlare. Ma che cosa significhi che il buon medico Asclepio esca da un mondo di divine metamorfosi bestiali, vale invece la pena di dirlo.

(Parlano Ermete ctonio e il centauro Chirone)

Ermete - Il Dio ti chiede di allevare questo figlio, Chirone. Già sai della morte della bella Corònide. L’ha strappato il Dio dalle fiamme e dal grembo di lei con le mani immortali. Io fui chiamato presso il triste corpo umano che già ardeva – i capelli avvampavamo come paglia di grano. Ma l’ombra nemmeno mi attese. Con un salto, dal rogo scomparve nell’Ade
Chirone – Tornò puledra nel trapasso?
Ermete - Così credo. Ma le fiamme e le vostre criniere si somigliano troppo. Non feci in tempo a sincerarmene. Dovetti afferrare il bambino per portarlo quassù.
Chirone – Bimbetto, era meglio se restavi nel fuoco. Tu non hai nulla di tua madre se non la triste forma umana. Tu sei figliolo di una luce abbacinante ma crudele, e dovrai vivere in un mondo di ombra esangue e angosciosa, di carne corrotta, di sospiri e di febbri – tutto ti viene dal Radioso. La stessa luce che ti ha fatto frugherà il mondo, implacabile, e dappertutto ti mostrerà la tristezza, la piaga, la viltà delle cose. Su di te veglieranno i serpenti.
Ermete - Certo il mondo di ieri è scaduto se anche i serpenti son passati alla Luce. Ma, dimmi, tu sai perché è morta?
Chirone – Enodio, mai più la vedremo balzare felice dal Dìdimo al Pelio fra i canneti e le rupi. Tanto ci basti. Le parole sono sangue.
Ermete - Chirone, puoi credermi quando ti dico che la piango come voi la piangete. Ma, ti giuro, non so perché il Dio l’abbia uccisa. Nella mia Làrissa si parla d’incontri bestiali nelle grotte e nei boschi …
Chirone – Che vuol dite? Lo siamo bestiali. E proprio tu, Enodio, che a Làrissa eri coglia di toro, e all’inizio dei tempi ti sei congiunto nel fango della palude con tutto quanto di sanguigno e ancora informe c’era al mondo, proprio tu ti stupisci?
Ermete - È lontano quel tempo, Chirone, e adesso vivo sottoterra o sui crocicchi. Vi vedo a volte venir giù dalla montagna come macigni e saltare le pozze e le forre, e inseguirvi, chiamarvi, giocare. Capisco gli zoccoli, la vostra natura, ma non sempre-voi siete così. Le tue braccia e il tuo petto di uomo, a dirne una, e il vostro grosso riso umano, e lei l’uccisa, e gli amori col Dio, le compagne che adesso la piangono – siete cose diverse. Anche tua madre, se non sbaglio, piacque a un dio.
Chirone – Altri tempi davvero. Fu il vecchio dio per amarla si fece stallone. Sulla vetta del monte.
Ermete - Dunque, dimmi perché Corònide bella fu invece una donna e passeggiava nei vigneti e tanto giocò col Radioso che lui la uccise e bruciò il corpo?
Chirone – Enodio, dalla tua Làrissa quante volte hai veduto dopo una notte di vento la montagna dell’Olimpo stagliare nel cielo?
Ermete - Non solo la vedo, ma a volte ci salgo.
Chirone – Un tempo, anche noi si galoppava fin lassù di costa in costa.
Ermete - Ebbene, dovreste tornarci.
Chirone – Amico, Corònide c’è tornata.
Ermete - Che vuoi dire con questo?
Chirone -. Voglio dire che quella è la morte. Là ci sono i padroni. Non più padroni come Crono il vecchio, o l’antico suo padre o noi stessi nei giorni che ci accadeva di pensarci e la nostra allegria non sapeva più confini e balzavamo come cose che eravamo. A quel tempo la bestia e il pantano eran terra d’incontro di uomini e dei. La montagna il cavallo la pianta la nube il torrente – tutto eravamo sotto il sole. Chi poteva morire a quel tempo? Che cos’era bestiale se la bestia era in noi come il dio?
Ermete - Tu hai figliole, Chirone, e sono donne e son puledre a volontà. Perché ti lamenti? Qui avete il monte, avete il piano, e le stagioni. Non vi mancano neppure, per compiacervi, le dimore umane, capanne e villaggi, agli sbocchi delle vallate, e le stalle i focolari, dove i tristi mortali favoleggiano di voi pronti ad ospitarvi. Non ti pare che il mondo sia meglio tenuto dai nuovi padroni?
Chirone – Tu sei dei loro e li difendi. Tu che un giorno eri coglia e furore, ora conduci le ombre esangui sottoterra. Cosa sono i mortali se non ombre anzitempo? Ma godo a pensare che la madre di questo bimbetto c’è saltata da sola: se non altro ha trovato se stessa morendo.
Ermete - Ora so perché è morta, lei che se ne andò alle pendici del monte e fu donna e amò il Dio col suo amore tanto che ne ebbe questo figlio. Tu dici che il Dio fu spietato. Ma puoi dire che lei, Corònide, abbia lasciato dietro a sé nel pantano la voglia bestiale, l’informe furore sanguigno che l’aveva generata?
Chirone – Certo che no. E con questo?
Ermete - Gli dei nuovi di Tessaglia che molto sorridono, soltanto di una cosa non possono ridere: credi a me che ho veduto il destino. Ogni volta che il caos trabocca alla luce, alla loro luce, devon trafiggere e distruggere e rifare. Per questo Corònide è morta.
Chirone – Ma non potranno più rifarla. Dunque avevo ragione che l’Olimpo è la morte.
Ermete - Eppure, il Radioso l’amava. L’avrebbe pianta se non fosse stato un dio. Le ha strappato il bimbetto. Te l’affida con gioia. Sa che tu solo potrai farne un uomo vero.
Chirone – Ti ho già detto la sorte che attende costui nelle case mortali. Sarà Asclepio, il signore dei corpi, un uomo-dio. Vivrà tra la carne corrotta e i sospiri. A lui guarderanno gli uomini per sfuggire il destino, per ritardare di una notte, di un istante, l’agonia. Passerà questo bimbetto tra la vita e la morte, come tu ch’eri coglia di toro e non sei più che il guidatore delle ombre. Questa la sorte che gli Olimpici faranno ai vivi, sulla terra.
Ermete - E non sarà meglio, ai mortali, finire così, che non l’antica dannazione d’incappare nella bestia o nell’albero, e diventare bue che mugge, serpente che striscia, sasso eterno, fontana che piange.
Chirone – Fin che l’Olimpo sarà il cielo, certo. Ma queste cose passeranno. 

I ciechi. Dialoghi con Leucò - Cesare Pavese

Charles Jalabert - La piaga di Tebe
I ciechi. Dialoghi con Leucò - Cesare Pavese

Non c’è vicenda di Tebe in cui manchi il cieco indovino Tiresia. Poco dopo questo colloquio cominciarono le sventure di Edipo – vale a dire, gli si aprirono occhi, e lui stesso se li crepò dall’orrore.
(Parlano Edipo e Tiresia)

EDIPO: Vecchio Tiresia, devo credere a quel che si dice qui in Tebe, che ti hanno accecato gli dèi per loro invidia?
TIRESIA: Se è vero che tutto ci viene da loro, devi crederci.
EDIPO: Tu che dici?
TIRESIA: Che degli dèi si parla troppo. Esser cieco non è una disgrazia diversa da esser vivo. Ho sempre visto le sventure toccare a suo tempo dove dovevano toccare.
EDIPO: Ma allora gli dèi che ci fanno?
TIRESIA: Il mondo è più vecchio di loro. Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l’unico dio – quando il tempo non era ancor nato. Le cose stesse, regnavano allora. Accadevano cose – adesso attraverso gli dèi tutto è fatto parole, illusione, minaccia. Ma gli dèi posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi.
EDIPO: Proprio tu, sacerdote, dici questo?
TIRESIA: Se non sapessi almeno questo, non sarei sacerdote. Prendi un ragazzo che si bagna nell’Asopo. E’ un mattino d’estate. Il ragazzo esce dall’acqua, ci ritorna felice, si tuffa e rituffa. Gli prende male e annega. Che cosa c’entrano gli dèi? Dovrà attribuire agli dèi la sua fine, oppure il piacere goduto? Né l’uno né l’altro. E’ accaduto qualcosa – che non è bene né male, qualcosa che non ha nome – gli daranno poi un nome gli dèi.
EDIPO: E dar il nome, spiegare le cose, ti par poco, Tiresia?
TIRESIA: Tu sei giovane, Edipo, e come gli dèi che sono giovani rischiari tu stesso le cose e le chiami. Non sai ancora che sotto la terra c’è roccia e che il cielo più azzurro è il più vuoto. Per chi come me non ci vede, tutte le cose sono un urto, non altro.
EDIPO: Ma sei pure vissuto praticando gli dèi. Le stagioni, i piaceri, le miserie umane ti hanno a lungo occupato. Si racconta di te più di una favola, come di un dio. E qualcuna così strana, così insolita, che dovrà pure avere un senso – magari quello delle nuvole nel cielo.
TIRESIA: Sono molto vissuto. Sono vissuto tanto che ogni storia che ascolto mi pare la mia. Che senso dici delle nuvole nel cielo?
EDIPO: Una presenza dentro il vuoto…
TIRESIA: Ma qual è questa favola che tu credi abbia un senso?
EDIPO: Sei sempre stato quel che sei, vecchio Tiresia?
TIRESIA: Ah ti afferro. La storia dei serpi. Quando fui donna per sette anni. Ebbene, che ci trovi in questa storia?
EDIPO: A te è accaduto e tu lo sai. Ma senza un dio queste cose non accadono.
TIRESIA: Tu credi? Tutto può accadere sulla terra. Non c’è nulla d’insolito. A quel tempo provavo disgusto delle cose del sesso – mi pareva che lo spirito, la santità, il mio carattere, ne fossero avviliti. Quando vidi i due serpi godersi e mordersi sul muschio, non potei trattenere il mio dispetto: li toccai col bastone. Poco dopo, ero donna – e per anni il mio orgoglio fu costretto a subire. Le cose del mondo sono roccia, Edipo.
EDIPO: Ma è davvero così vile il sesso della donna?
TIRESIA: Nient’affatto. Non ci sono cose vili se non per gli dèi.
Ci sono fastidi, disgusti e illusioni che, toccando la roccia, dileguano. Qui la roccia fu la forza del sesso, la sua ubiquità e onnipresenza sotto tutte le forme e i mutamenti. Da uomo a donna, e viceversa (sett’anni dopo rividi i due serpi), quel che non volli consentire con lo spirito mi venne fatto per violenza o per libidine, e io, uomo sdegnoso o donna avvilita, mi scatenai come una donna e fui abbietto come un uomo, e seppi ogni cosa del sesso: giunsi al punto che uomo cercavo gli uomini e donna le donne.
EDIPO: Vedi dunque che un dio ti ha insegnato qualcosa.
TIRESIA: Non c’è dio sopra il sesso. E’ la roccia, ti dico. Molti dèi sono belve, ma il serpe è il più antico di tutti gli dèi. Quando si appiatta nella terra, ecco hai l’immagine del sesso. C’è in esso la vita e la morte. Quale dio può incarnare e comprendere tanto?
EDIPO: Ma tu stesso. L’hai detto.
TIRESIA: Tiresia è vecchio e non è un dio. Quand’era giovane, ignorava. Il sesso è ambiguo e sempre equivoco. E’ una metà che appare un tutto. L’uomo arriva a incarnarselo, a viverci dentro come il buon nuotatore nell’acqua, ma intanto è invecchiato, ha toccato la roccia. Alla fine un’idea, un’illusione gli resta: che l’altro sesso ne esca sazio. Ebbene, non crederci: io so che per tutti è una vana fatica.
EDIPO: Ribattere a quanto tu dici non è facile. Non per nulla la tua storia comincia coi serpi. Ma comincia pure col disgusto, col fastidio del sesso. E che diresti a un uomo valido che ti giurasse d’ignorare il disgusto?
TIRESIA: Che non è un uomo valido – è ancora un bambino.
EDIPO: Anch’io, Tiresia, ho fatto incontri sulla strada di Tebe. E in uno di questi si è parlato dell’uomo – dall’infanzia alla morte – si è toccata la roccia anche noi. Da quel giorno fui marito e fui padre, e re di Tebe. Non c’è nulla d’ambiguo o di vano, per me, nei miei giorni.
TIRESIA: Non sei il solo, Edipo, a creder questo. Ma la roccia non si tocca a parole. Che gli dèi ti proteggano. Anch’io ti parlo e sono vecchio. Soltanto il cieco sa la tenebra. Mi pare di vivere fuori del tempo, di esser sempre vissuto, e non credo più ai giorni. Anche in me c’è qualcosa che gode e che sanguina.
EDIPO: Dicevi che questo qualcosa era un dio. Perché, buon Tiresia, non provi a pregarlo?
TIRESIA: Tutti preghiamo qualche dio, ma quel che accade non ha nome. Il ragazzo annegato un mattino d’estate, cosa sa degli dèi? Che gli giova pregare? C’è un grosso serpe in ogni giorno della vita, e si appiatta e ci guarda. Ti sei mai chiesto, Edipo, perché gli infelici invecchiandosi accecano?
EDIPO: Prego gli dèi che non mi accada.

La Chimera, Dialoghi con Leucò - Cesare Pavese

Giovan Francesco Gessi - Bellerofonte e la chimera
La Chimera, Dialoghi con Leucò - Cesare Pavese

Volentieri i giovani greci andavano a illustrarsi e morire in Oriente. Qui la loro virtuosa baldanza navigava in un mare di favolose atrocità cui non tutti seppero tener testa. Inutile far nomi. Del resto le Crociate furono molte più di sette. Della tristezza che consunse nei tardi anni l’uccisore di Chimera, e del nipote Sarpedonte che morì giovane sotto Troia, ci parla nientemeno che Omero nel sesto dell’Iliade.

(Parlano Ippòloco e Sarperdonte)

IPPOLOCO Eccoti, ragazzo.
SARPEDONTE Ho veduto tuo padre, Ippòloco. Non vuol saperne di tornare. Passeggia brutto e testardo le campagne, e non cura le intemperie, né si lava. È vecchio e pezzente, Ippòloco.
IPPOLOCO Di lui che dicono i villani?
SARPEDONTEil campo Aleio è desolato, zio. Non ci sono che canne e paludi. Sul Xanto dove ho chiesto di lui, non l’avevano visto da giorni.
IPPOLOCO e lui che dice?
SARPEDONTE Non ricorda né noi né le case. Quando incontra qualcuno, gli parla dei Sòlimi, e di Glauco, di Sìsifo, della Chimera. Vedendomi ha detto: “Ragazzo s’io avessi i tuoi anni, mi sarei già buttato a mare”. Ma non minaccia anima viva. “Ragazzo – mi ha detto, - tu sei giusto e pietoso, smetti di vivere”.
IPPOLOCO Davvero brontola e rimpiange a questo modo?
SARPEDONTE Dice cose minacciose e terribili. Chiama gli dèi a misurarsi con lui. Giorno e notte, cammina. Ma non ingiuria né compiange che i morti – o gli dèi.
IPPOLOCO Glauco e Sìsifo, hai detto?
SARPEDONTE Dice che furono puniti a tradimento. Perché aspettare che invecchiassero, per sorprenderli tristi caduchi? “Bellerofonte – dice – fu giusto e pietoso fin che il sangue gli corse nei muscoli. E adesso che è vecchio e che è solo, proprio adesso gli dèi l’abbandonano?”
IPPOLOCO Strana cosa, stupirsi di questo. E accusare gli dèi di ciò che tocca a tutti i vivi. Ma lui che cosa ha di comune con quei morti – lui che fu sempre giusto?
SARPEDONTE Ascolta, Ippòloco… Anch’io mi son chiesto, vedendo quell’occhio smarrito, se parlavo con l’uomo che un tempo fu Bellerofonte. A tuo padre è accaduto qualcosa. Non è vecchio soltanto. Tuo padre sconta la Chimera.
IPPOLOCO Sarpedonte, sei folle?
SARPEDONTE Tuo padre accusa l’ingiustizia degli dèi che hanno voluto che uccidesse la Chimera. “Da quel giorno – ripete – che mi sono arrossato nel sangue del mostro, non ho più avuto vita vera. Ho cercato nemici, domato le Amazzoni, fatto strage dei Sòlimi, ho regnato sui Lìci e piantato un giardino – ma cos’è tutto questo? Dov’è un’altra Chimera? Dov’è la forza delle braccia che l’uccisero? Anche Sìsifo e Glauco mio padre furon giovani e giusti – poi entrambi invecchiando, gli dèi li tradirono, li lasciarono imbestiarsi e morire. Chi una volta affrontò la Chimera, come può rassegnarsi amorire?” Questo dice tuo padre, che fu un giorno Bellerofonte.
IPPOLOCO Da Sisifo, che incatenò il fanciullo Tànatos, a Glauco che nutriva i cavalli con uomini vivi, la nostra stirpe ne ha violati di confini. Ma questi son uomini antichi e di un tempo mostruoso. La Chimera fu l’ultimo mostro che videro. La nostra terra ora è giusta e pietosa.
SARPEDONTE Tu credi, Ippoloco? Credi che basti averla uccisa? Nostro padre – lo posso chiamare così – dovrebbe saperlo. Eppure è triste come un dio – come un dio derelitto e canuto, e attraversa campagne e paludi parlando a quei morti.
IPPOLOCO Ma che cosa gli manca, che cosa?
SARPEDONTE Gli manca il braccio che l’ha uccisa. Gli manca l’orgoglio di Glauco e di Sisifo, proprio adesso che come i suoi padri è giunto al limite, alla fine. La loro audacia lo travaglia. Sa che mai più un’altra Chimera lo aspetterà in mezzo alle rupi. E chiama alla sfida gli dèi.
IPPOLOCO Sono suo figlio, Sarpedonte, ma non capisco queste cose. Sulla terra ormai fatta pietosa si dovrebbe invecchiare tranquilli. In un giovane, quasi un ragazzo, come te Sarpedonte, capisco il tumulto del sangue. Ma solo in un giovane. Ma per cause onorate. E non mettersi contro gli dèi.
SARPEDONTE Ma lui sa cos’è un giovane e un vecchio. Ha veduto altri giorni. Ha veduto gli dèi, come noi ci vediamo. Narra cose terribili.
IPPOLOCO Hai potuto ascoltarlo?
SARPEDONTE O Ippoloco, e chi non vorrebbe ascoltarlo Bellerofonte ha visto cose che non accadono sovente.
IPPOLOCO Lo so, Sarpedonte, lo so, ma quel mondo è passato. Quand’ero bambino, le narrava anche a me.
SARPEDONTE Solamente che allora non parlava coi morti. A quel tempo eran favole. Oggi invece i destini che tocca diventano il suo.
IPPOLOCO E cosa racconta?
SARPEDONTE Sono fatti che sai. Ma non sai la freddezza, lo sguardo smarrito, come di chi non è più nulla e sa ogni cosa. Sono storie di Lidia e di Frigia, storie vecchie, senza giustizia, né pietà. Conosci quella del Sileno che un dio provocò alla sconfitta sul monte Celene, e poi uccise macellandolo, come ilbeccaio ammazza un capro? Dalla grotta ora sgorga un torrente come fosse il suo sangue. La storia della madre impietrata, fatta rupe che piange, perché piacque a una dea di ucciderle i figli uno a uno a frecciate? E la storia di Aracne, che per l’odio di Atena inorridì e divenne ragno? Sono cose che accaddero. Gli dèi le hanno fatte.
IPPOLOCO E sta bene. Che importa? Non serve pensarci. Di quei destini non rimane nulla.
SARPEDONTE Rimane il torrente, la rupe, l’orrore. Rimangono i sogni. Bellerofonte non può fare un passo senza urtare un cadavere, un odio, una pozza di sangue, dei tempi che tutto accadeva e non erano sogni. Il suo braccio a quel tempo nel mondo e uccideva.
IPPOLOCO Anche lui fu crudele, dunque.
SARPEDONTE Era giusto e pietoso. Uccideva Chimere. E adesso che è vecchio e che è stanco, gli dèi l’abbandonano.
IPPOLOCO Per questo corre le campagne?
SARPEDONTE È figliolo di Glauco e di Sisifo. Teme il capriccio e la ferocia degli dèi. Si sente imbestiare e non vuole morire. “Ragazzo, - mi dice, - quest’è la beffa e il tradimento: prima ti tolgono ogni forza e poi si sdegnano se tu sarai meno che uomo. Se vuoi vivere, smetti di vivere…”
IPPOLOCO E perché non si uccide, lui che sa queste cose?
SARPEDONTE Nessuno si uccide. La morte è destino. Non si può che augurarsela, Ippoloco.

La Nube, Daloghi con Leucò - Cesare Pavese

Rubens - Issione ingannata da Giunone
La Nube, Daloghi con Leucò - Cesare Pavese

Che Issione finisse nel Tartaro per la sua audacia, è probabile. Falso invece che generasse i Centauri dalle nuvole. Costoro erano già un popolo al tempo delle nozze di suo figlio. Lapiti e Centauri escono da quel mondo titanico in cui era consentito alle creature più diverse di mischiarsi, e spesseggiavano quei mostri contro i quali l’Olimpo sarà poi implacabile.

(Parlano la Nube e Issione).

LA NUBE C’è una legge, Issione, cui bisogna ubbidire.
ISSIONE Quassù la legge non arriva, Nefele. Qui la legge è il nevaio, la bufera, la tenebra. E quando viene i giorno chiaro e tu ti accosti leggera alla rupe, è troppo bello per pensarci ancora.
LA NUBE C’è una legge, Issione, che prima non c’era. Le nubi le aduna una mano più forte.
ISSIONE Qui non arriva nessuna mano. Tu stessa, adesso che è sereno, ridi. E anche quando il cielo s’oscura e urla il vento, che importa la mano che ci sbatte come gocciole? Accadeva già ai tempi che non c’era padrone. Nulla è mutato sopra i monti. Noi siamo avvezzi a tutto questo.
LA NUBE Molte cose sono mutate sui monti. Lo sa il Pelio, lo sa l’Ossa e l’Olimpo. Lo sanno monti più selvaggi ancora.
ISSIONE E cosa è mutato, Nefele, sui monti?
LA NUBE Né il sole né l’acqua, Issione. La sorte dell’uomo, è mutata. Ci sono dei mostri. Un limite è posto a voi uomini. L’acqua, il vento, la rupe e la nuvola non sono più cosa vostra, non potete più stringerli a voi generando e vivendo. Altre mani ormai tengono il mondo. C’è una legge, Issione.
ISSIONE Quale legge?
LA NUBE Già lo sai. La tua sorte, il limite…
ISSIONE La mia sorte l’ho in pugno, Nefele. Che cosa è mutato? Questi nuovi padroni posson forse impedirmi di scagliare un macigno per gioco? o di scendere nella pianura e spezzare la schiena a un nemico? Saranno loro più terribili della stanchezza e della morte?
LA NUBE Non è questo, Issione. Tutto ciò lo puoi fare e altro ancora. Ma non puoi più mischiarti a noialtre, le ninfe delle polle e dei monti, alle figlie del vento, alle dee della terra. È mutato il destino.
ISSIONE Non puoi più… Che vuol dire, Nefele?
LA NUBE Vuol dire che, volendo far questo, faresti invece delle cose terribili. Come chi, per accarezzare un compagno, lo strozzasse o ne venisse strozzato.
ISSIONE Non capisco. Non verrai più sulla montagna? Hai paura di me?
LA NUBE Verrò sulla montagna e dovunque. Tu non puoi farmi nulla, Issione. Non puoi far nulla contro l’acqua e contro il vento. Ma devi chinare la testa. Solamente così salverai la tua sorte.
ISSIONE Tu hai paura, Nefele.
LA NUBE Ho paura. Ho veduto le cime dei monti. Ma non per me, Issione. Io non posso patire. Ho paura per voi che non siete che uomini. Questi monti che un tempo correvate da padroni, queste creature nostre e tue generate in libertà, ora tremano a un cenno. Siamo tutti asserviti a una mano più forte. I figli dell’acqua e del vento, i centauri, si nascondono in fondo alle forre. Sanno di essere mostri.
ISSIONE Chi lo dice?
LA NUBE Non sfidare la mano, Issione. È la sorte. Ne ho veduti di audaci più di loro e di te precipitare dalla rupe e non morire. Capiscimi, Issione. La morte ch’era il vostro coraggio, può esservi tolta come un bene. Lo sai questo?
ISSIONE Me l’hai detto altre volte. Che importa? Vivremo di più.
LA NUBE Tu giochi e non conosci gli immortali.
ISSIONE Vorrei conoscerli, Nefele.
LA NUBE Issione, tu credi sian presenze come noi, come la Notte, la Terra o il vecchio Pan. Tu sei giovane, Issione, ma sei nato sotto il vecchio destino. Per te non esistono mostri ma soltanto compagni. Per te la morte è una cosa che accade, come il giorno e la notte. Tu sei uno di noi, Issione. Tu sei tutto nel gesto che fai. Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga. Essi tastano tutto da lontano con gli occhi, le narici, le labbra. Sonno immortali e non san vivere da soli. Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi – tutto a loro contenta o dispiace. E se tu li disgusti – se per errore li disturbi nel loro Olimpo – ti piombano addosso, e ti danno la morte – quella morte che loro conoscono, ch’è un amaro sapore che dura e si sente.
ISSIONE Dunque si può ancora morire.
LA NUBE No, Issione. Faranno di te come un’ombra, ma un’ombra che rivuole la vita e non muore mai più.
ISSIONE Tu li hai veduti questi dèi?
LA NUBE Li ho veduti… O Issione, non sai quel che chiedi.
ISSIONE Anch’io ne ho veduti, Nefele. Non sono terribili.
LA NUBE Lo sapevo. La tua sorte è segnata. Chi hai visto?
ISSIONE Come posso saperlo? Era un giovane, che attraversava la foresta a piedi nudi. Mi passò accanto e non mi disse una parola. Po davanti a una rupe scomparve. Lo cercai a lungo per chiedergli chi era – lo stupore mi aveva inchiodato. Sembrava fatto della stessa carne tua.
LA NUBE hai veduto lui solo?
ISSIONE poi in sogno l’ho rivisto con le dee. E miparve di stare con loro, di parlare e di ridere con loro. E mi dicevano le cose che tu dici, senza paura, senza tremare come te. Parlammo insieme del destino e della morte. Parlammo dell’Olimpo, ridemmo dei ridicoli mostri…
LA NUBE O Issione, Issione, la tua sorte è segnata. Adesso sai cos’è mutato sopra i monti. E anche tu sei mutato. E credi di essere qualcosa più di un uomo.
ISSIONE Ti dico, Nefele, che tu sei come loro. Perché, almeno in sogno, non dovrebbero piacermi?
LA NUBE Folle, non puoi fermarti ai sogni. Salirai fino a loro. Farai qualcosa di terribile. Poi verrà quella morte.
ISSIONE Dimmi i nomi di tutte le dee.
LA NUBE Lo vedi che il sogno non ti basta già più? E che credi al tuo sogno come fosse reale? Io ti supplico, Issione, non salire sulla vetta. Pensa ai mostri e ai castighi. Altro da loro non può uscire.
ISSIONE Ho fatto ancora un altro sogno questa notte. C’eri anche tu, Nefele. Combattevamo coi Centauri. Avevo un figlio ch’era figlio di una dea, non so quale. E mi pareva quel giovane che attraversò la foresta. Era più forte anche di me, Nefele. I centauri fuggirono, e la montagna fu nostra. Tu ridevi, Nefele. Vedi che anche nel sogno, la mia sorte è accettabile.
LA NUBE La tua sorte è segnata. Non si sollevano impunemente gli occhi a una dea.
ISSIONE Nemmeno a quella della quercia, la signora delle cime?
LA NUBE L’una o l’altra, Issione, non importa. Ma non temere. Starò con te fino alla fine.

16 dicembre 2015

Manuale degli inquisitori (1607) - Màrgara Russotto

Luis Ricardo Falero - Una visione del Faust o La partenza delle Streghe
Manuale degli inquisitori (1607) - Màrgara Russotto

In primo luogo è la lingua
che dev'essere domata
ritorta
mutilata
estirpata.

Giuramenti di purezza
sui Santi Vangeli:
rispondere di sì.

Riconoscimento dell'eretico nei giorni di festa.
Primo segno:
gli occhi affossati
da vedere gli spiriti cattivi.
Secondo:
volto nascosto nel cappuccio.
Terzo:
può non portare il cappuccio e zoppicare alquanto.

Le donne fattucchiere devono essere bruciate.
Immediatamente le conoscerete
perché parlano del futuro,
coltivano erbe puzzolenti
e matte da legare
vogliono fare il dottore.

L'abiura in lingua volgare
mai in latino ecclesiastico,
per collettiva punizione e terrore.

Perché hai tardato tanto a seguire
il nostro buon consiglio?

Ripetere tre volte il nome del Signore.
Segue ricettario per umiliare chi è sospettato:
Figlia mia, per quel che abbiamo sentito dire che tu pensavi

Ed è stato detto:
colui che non crede in me
sia spezzato in due come un ramo secco

e gettato nel fuoco.

13 dicembre 2015

Metamorfosi X 1-85 - Ovidio



Metamorfosi X 1- 85 - Ovidio



Di là, avvolto nel manto di croco, Imeneo

andò per il cielo immenso e si diresse alla terra dei Ciconi,

mentre invano lo chiama la voce di Orfeo.

Ci fu infatti, ma non portò le parole solenni,

né un volto lieto, né i presagi propizi;

e la fiaccola in mano sua stridette, mandando fumo

che faceva piangere e, anche agitata, non prese fuoco.

L’esito fu peggiore dell’auspicio: la sposa novella,

mentre passeggia sui prati accompagnata da una schiera di Naiadi,

morì morsa da un serpente al tallone.

Dopo averla pianta abbastanza alla luce del sole,

il poeta tracio, per tentare anche le ombre,

osò discendere per la porta tenaria allo Stige,

e procedendo tra le folle lievi e i simulacri

dei defunti sepolti, andò da Persefone e dal signore

dello squallido regno delle ombre. Facendo vibrare la lira,

disse: «Dèi del mondo sotterraneo, nel quale

cadiamo noi tutti che siamo nati mortali,

se mi è lecito, se permettete che io, lasciando

i meandri del falso, dica la verità, non sono venuto

qui per vedere il Tartaro buio, o incatenare il triplo collo

del mostro meduseo che ha per vello i serpenti;

causa del mio viaggio è la mia sposa, su cui una vipera

calpestata ha diffuso il suo veleno e ne ha troncato la

vita ancora crescente.

Avrei voluto essere in grado di sopportare e, non

negherò, l’ho tentato,

ma Amore ha vinto! È un dio ben noto alla luce del sole;

che lo sia anche qui, ne dubito, ma lo credo;

se non è falsa la fama dell’antico ratto,

anche voi Amore ha unito: per questi luoghi orribili,

per questo enorme Caos e i silenzi del vasto regno, vi prego,

ritessete il destino precipitoso della mia Euridice!

Tutti vi siamo dovuti e, dopo un breve indugio,

presto o tardi tutti ci affrettiamo alla stessa sede.

Qui tutti siamo diretti, questa è la casa ultima:

voi tenete il più lungo dominio sul genere umano.

Anche lei, quando avrà compiuto un giusto numero d’anni,

vi sarà sottoposta: vi chiedo di darmela in prestito e non in dono.

Se i fati mi negano la grazia per la mia sposa,

ho deciso di non tornare: godete la morte di entrambi!»

Mentre così diceva e accompagnava con lo strumento le sue

parole, le anime esangui piangevano: Tantalo

non cerca più l’acqua fuggente, rimane attonita

la ruota di Issione, gli uccelli non mordono il fegato,

le nipoti di Belo lasciano l’urne, e tu sedesti sul sasso, Sisifo.

Allora per la prima volta dicono, s’inumidirono

di lacrime le gote delle Eumenidi, vinte: né la sposa del re

del profondo né il re stesso hanno il coraggio di opporre

un rifiuto e chiamano Euridice. Era fra le ombre recenti,

e camminava, per via della ferita, con passo tardo.

La ricevette Orfeo assieme a una condizione,

di non volgere indietro gli occhi finché non fosse

uscito dalle valli d’Averno, o il dono sarebbe stato vano.

Prendono attraverso il silenzio il sentiero arduo

oscuro, denso, coperto di caligine. Non erano lontani dalla

superficie terrestre, e qui Orfeo, per amore,

temendo che non gli venisse a mancare ed avido

di vederla, volse indietro gli occhi, ed ella subito

scivolò indietro e, tendendo le braccia e cercando

di afferrarla ed esserne afferrato, non prese altro che aria cedevole.

Morendo ormai per la seconda volta, non si lagnò del suo sposo

(di cosa avrebbe potuto lagnarsi altro che d’essere amata?)

e disse l’ultimo addio, che appena giunse alle orecchie di lui,

e di nuovo precipitò indietro. Dalla doppia morte

della sposa Orfeo rimase attonito, come quello

che vide con terrore i tre colli di Cerbero, con le catene a quello di mezzo,

e la paura abbandonò solo insieme

alla natura di prima, quando la pietra invase il suo corpo.

O come Oleno, che si addossò la colpa e volle sembrare

colpevole, e te, infelice Letea, che fidasti troppo

nella tua bellezza, cuori un tempo uniti,

ora pietre che sorgono sopra l’umida Ide.

Pregava e voleva di nuovo passare, ma il traghettatore

lo allontanò: eppure per sette giorni rimase

seduto tristemente sulla riva senza mangiare:

suo cibo era l’angoscia, il dolore, il pianto.

Lagnandosi che gli dèi dell’Erebo erano senza pietà,

andò nell’alta Rodope e sull’Emo battuto dall’Aquilone.

Per la terza volta il Sole aveva concluso l’anno

nella costellazione dei Pesci marini, ed Orfeo da allora evitava

ogni amore di donna, perché era finito male,

o perché aveva promesso: eppure tante donne bruciavano

per unirsi al poeta, e molte soffrirono per la repulsa.

Fu lui che insegnò ai Traci a indirizzare

l’amore sui teneri maschi, e a cogliere i primi fiori

della breve primavera di vita prima della giovinezza.



(Trad. G. Paduano)