23 marzo 2019

Domani si vota in Basilicata - e.m.

Domani si vota in Basilicata

In premessa mi piace ricordare il tempo in cui le elezioni regionali si svolgevano nella stessa giornata, o meglio due, poiché si votava la domenica e il lunedì mattina.
A questo proposito chiedo al ministro dell’interno, se c’è: sarebbe tanto difficile provare, in accordo con le regioni, a predisporre un quadro normativo per tornare a votare tutti insieme, e con un sistema elettorale che valga per le elezioni delle Camere, dei Consigli Regionali, dei Consigli Provinciali (finché esistono) e dei Consigli Comunali?
E’ terminata, dunque, una campagna elettorale poco vivace sia per le condizioni climatiche e sia, soprattutto, a causa dello scarso interesse della gran parte dei cittadini dovuto, secondo me, alla loro progressiva emarginazione dai processi politici e dalle scelte da parte delle varie aggregazioni politiche, poco propense a dare dei solidi riferimenti data la loro natura mutevole.
Una competizione povera di argomenti e povera di politica. Una contesa, trasferitasi in buona parte sui social network, basata quasi esclusivamente su polemiche sterili molto prossime al pettegolezzo.
Da chi aspira a governare la Basilicata mi sarei aspettato molto altro.
Con questo non voglio dire che i partiti e le coalizioni non abbiano un loro programma, anzi, spesso è condivisibile e articolato. Quello che mi chiedo è:
Chi li ha elaborati?
Con quali criteri sono stati scelti gli argomenti?
Quali gli obiettivi strategici su cui si chiede il consenso?
Vi sono stati degli studi di approfondimento? D parte di chi?
Con chi è avvenuto il confronto?
Quali categorie di persone sono state coinvolte?
Quali fasce sociali si intendono rappresentare?
Sulla base di quali esigenze espresse?
Quali le prospettive di sviluppo? Su quali compartimenti dell’economia?
Quali le leve da utilizzare?
Etc.
Con tutto il rispetto, i programmi che ho avuto modo di leggere (non facilmente reperibili, contrariamente alla disponibilità di valanghe di “santini” e faccioni sui manifesti e le vele in giro per i paesi) a me sembrano documenti scritti per necessità elettorale, mera incombenza burocratica, senza nessun coinvolgimento degli strati sociali che si intendono rappresentare (ammesso che quegli strati sociali sappiano che qualcuno intende rappresentarli). Programmi in cui non riscontro una sufficiente articolazione delle proposte. Dopo tutto ai candidati serve la preferenza, l’approfondimento delle piattaforme programmatiche altri non è che un fastidioso orpello.
Nella sostanza, ritengo siano elaborazioni romanzesche partorite in ristretti conciliabili negli stessi luoghi, con le identiche procedure e i medesimi criteri utilizzati per formulare liste elettorali, senza, cioè, assolvere ai compiti propri di un partito politico, entità, queste, che appaiono meri retaggi del passato, soppiantati dai tanti IO che si autoproclamano esclusivi portatori del volere collettivo.
Come dire? Nulla di nuovo sotto il sole!
Una situazione cristallizzata da diversi decenni caratterizzata dal dialogo tra sordi dove l’unica novità è l’aumento del consenso al partito razzista, azionista egemone del governo più a destra che la repubblica abbia conosciuto.
Altra considerazione riguarda il mio comune, Pisticci, da troppi anni assente dal panorama regionale. L’aver espresso ben nove aspiranti a un seggio in Consiglio Regionale, altro non è che la conferma dell’incapacità della politica locale (TUTTA) di mettere al primo posto il bene collettivo, di parlarsi, di trovare le migliori soluzioni a beneficio della comunità intera. Ancora una volta, constato con amarezza, non si è stati capaci di stabilire un criterio di scelta, ancora una volta l’IO è stato anteposto ad ogni altra priorità, ancora una volta non si è stati capaci di dare indicazioni chiare a un elettorato smarrito che dovrà barcamenarsi nel ventaglio variegato delle possibilità, in una fase storico-politica molto  complessa.
Altro che avanguardie di gramsciana memoria.
I miei personali ricordi della campagna elettorale appena terminata sono:
1.    Le ripetute passerelle dei vari ministri sulle quali mi sono fatte alcune domande:
·         Erano in missione, i ministri, per conto del governo?
·         La campagna elettorale è un missione su mandato del governo?
·         Le loro trasferte, con al seguito eserciti di scorte e di auto blu, in territori a loro sconosciuti, erano a carico dei cittadini?
2.    Le apparizioni di un tizio travestito da ministro, noto razzista antimeridionalista e assenteista conclamato dai suoi posti di lavoro, che si presenta come il conquistatore in possesso di  tutte le ricette per il benessere di una terra a lui sconosciuta poiché sempre disprezzata e, ciononostante, acclamato da cospicue folle come un liberatore.
3.    Sottolineo anche la memoria progressivamente accorciata delle lucane e dei lucani fulminati sulla via di Pontida.
POSSO CAPIRE TUTTO: ASTENSIONE, DELUSIONE, L’AMBIZIONE PERSONALE, PERFINO, MA NON L’ENTUSIASMO DEI LUCANI PER UN POLITICO (SIC!) TUTT’ALTRO CHE NUOVO.
Il collezionista di giubbe, infatti, vanta una lunghissima permanenza sui banchi della maggioranza nei vari governi Berlusconi,  è famoso per le sue assenza al parlamento europeo dove senza lasciare alcuna traccia del suo passaggio se non le impronte de fondoschiena su una poltrona e le coordinate bancarie dove tutti noi abbiamo accreditato un più che lauto stipendio.
IN ALTRE PAROLE SIAMO DI FRONTE A UN FANNULLONE INVETERATO  a capo di un partito, l’unico in Italia, condannato dalla Corte di Cassazione a restituire 49 milioni di euro rubati ai cittadini italiani.
Se questo tizio è degno del voto dei lucani allora tutto è possibile, anche che il sole ruoti intorno alla terra.
4.    Il solito florilegio di opportunisti dei quali evidenzio solo le acrobatiche piroette. Si tratta veri saltimbanchi della politica, che senza alcun pudore ostentano un vessillo sempre di colore, sui quali non vale la pena soffermarsi. Certo, tra questi, il podio più alto spetta di diritto a coloro che, da varie provenienze, sono approdati nelle truppe del partito razzista. A costoro mi sento di augurare un cocente insuccesso personale.
Ciononostante il mio augurio va a tutti (tranne i saltimbanchi) poiché amministrare in questi anni, a tutti i livelli, è cosa assai difficile. Farlo a livello individuale, senza il sostegno continuo di un partito o un gruppo di riferimento, è impresa da titani.
Un pensiero particolare agli elettori affinché, per quanto disillusi e frastornati, riescano a trovare le motivazioni che consenta loro di recarsi a votare, di lasciare i portatori di razzismo fuori dai confini regionali e, infine, cerchino di capire, nella situazione data, quale scelta potrebbe essere più utile al territorio.

20 marzo 2019

Il paradosso di negare l’autorizzazione a chi rivendica il reato di LUIGI FERRAJOLI

Vignetta di AGJ
da “il manifesto” del 20/03/2019
Parlamento
Il paradosso di negare l’autorizzazione a chi rivendica il reato di LUIGI FERRAJOLI

L’aspetto più minaccioso dell’ideologia populista, allorquando i populisti, come in Italia, sono al potere, risiede in una concezione elementare e tendenzialmente antirappresentativa e anti-costituzionale della democrazia, frutto di due mistificazioni ideologiche.
La prima mistificazione è l’identificazione dei vincitori delle elezioni con il popolo, degli eletti con gli elettori, della volontà del ceto politico con la volontà popolare. La seconda è l’idea che la democrazia consista nell’onnipotenza della maggioranza in quanto espressione della sovranità popolare e, quindi, la negazione di quel tratto distintivo della democrazia costituzionale che è l’insieme di limiti e vincoli imposti dalla Costituzione alla legislazione e perciò ai poteri politici di maggioranza.
Questa tendenza dei rappresentanti a identificarsi con il popolo rappresentato e perciò a concepire la sovranità popolare come la loro sovranità, benché rifletta una tentazione diffusa in tutto il ceto politico, forma il tratto distintivo soprattutto dei populisti, la cui concezione primitiva della democrazia consiste nell’idea dell’assenza di limiti alla volontà popolare, a sua volta identificata con la loro volontà, e perciò nella rimozione di quella grande conquista del secolo scorso che è stata la subordinazione della politica ai diritti costituzionalmente stabiliti.
È precisamente questo il senso e la portata della probabile negazione dell’autorizzazione a procedere richiesta dal Tribunale di Catania contro Matteo Salvini per il sequestro di 177 migranti, privati per lunghi giorni della loro libertà personale sulla nave Diciotti. Il ministro Salvini ha costruito il consenso popolare e la sua fortuna politica mediante l’ostentazione di misure tanto disumane quanto illegali: non solo la privazione della libertà per la quale è stato incriminato, ma anche la preordinata omissione di soccorso, la chiusura dei porti oggi nuovamente ordinata contro la nave Mare Jonio che ha salvato la vita a 49 migranti, la violazione della convenzione di Amburgo sui salvataggi in mare e perfino del nostro Testo unico sull’immigrazione che vieta i respingimenti di quanti intendono chiedere asilo, delle donne incinte e dei minori non accompagnati.
Ebbene, la negazione dell’autorizzazione a procedere contro Salvini non viene motivata da questa maggioranza con la supposta esistenza, come nelle comuni autorizzazioni, di un qualche fumus persecutionis o comunque, come nel caso del famoso voto del Parlamento sulla minorenne Ruby nipote di Mubarak con la tesi dell’inesistenza del reato contestato. In questi casi, con la negazione sia pure non credibile del reato, il vizio rendeva omaggio alla virtù. Al contrario, la proposta di negare l’autorizzazione a procedere avanzata lo scorso febbraio dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato è stata basata sull’aperta rivendicazione del reato - e ovviamente di tutte le altre violazioni dei diritti umani, passate e future - da parte dell’intero governo in nome di un “preminente interesse pubblico”. Non dimentichiamo che Salvini, quando ricevette l’avviso di garanzia, dichiarò che l’avrebbe appeso al muro come una medaglia.
Si sta così dando vita a un precedente gravissimo, forse - è sperabile - nell’inconsapevolezza generale. Certamente la probabile negazione dell’autorizzazione a procedere sarebbe formalmente legittima. L’articolo 9, comma 3 della legge costituzionale
n.1 del 1989 – una vera mina collocata alla base del nostro assetto costituzionale – prevede infatti che il Parlamento possa negare l’autorizzazione a procedere contro un ministro sulla base della “valutazione insindacabile” da parte della maggioranza, del cui sostegno i ministri godono per definizione, “che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico”.
Tuttavia dovrebbe essere chiaro che la legittimità formale di tale negazione nulla toglierebbe alla sua enorme gravità politica. La negazione dell’autorizzazione a procedere - anche con il voto di quanti gridavano “onestà” e “legalità” e che evidentemente considerano assai più grave un fatto di corruzione che l’omissione di soccorso e le stragi in mare di centinaia di migranti – varrebbe ad avallare due tesi, l’una di merito e l’altra di metodo, equivalenti, di fatto, alla negazione dello stato costituzionale di diritto.
La prima è che è nell’interesse dello Stato la violazione dei diritti inviolabili dell’uomo e dei doveri di solidarietà stabiliti dalla nostra Costituzione; la seconda è l’affermazione dell’insindacabilità della politica e del potere di governo come potere assoluto, e perciò l’archiviazione del sistema di limiti, di vincoli e di controlli di legalità nel quale risiedono la Costituzione e il costituzionalismo.

LUIGI FERRAJOLI
 

19 marzo 2019

Italo Calvino - L’altra Euridice

Italo Calvino - L’altra Euridice

Voi avete vinto, uomini del fuori, e avete rifatto le storie come vi piace a voi, per condannare noi del dentro al ruolo che vi piace attribuirci, di potenze delle tenebre e della morte, e il nome che ci avete dato, gli Inferi, lo caricate di accenti funesti. Certo, se tutti dimenticheranno cosa veramente accadde tra noi, tra Euridice e Orfeo e me Plutone, quella storia tutta all’incontrario da come la raccontate voi, se veramente nessuno più ricorderà che Euridice era una di noi e che mai aveva abitato la superficie della Terra prima che Orfeo me la rapisse con le sue musiche menzognere, allora il nostro antico sogno di fare della Terra una sfera vivente sarà definitivamente perduto.
Già quasi nessuno ormai ricorda cosa voleva dire far vivere la Terra: non quello che credete voi, paghi dello spolverio di vita che s’è posato sul confine tra la terra l’acqua l’aria. Io volevo che la vita si espandesse dal centro della Terra, si propagasse alle sfere concentriche che la compongono, circolasse tra i metalli fluidi e compatti. Questo era il sogno di Plutone. Solo così sarebbe diventata un enorme organismo vivente, la Terra,
solo così si sarebbe evitata quella condizione di precario esilio cui la vita ha dovuto ridursi, con il peso opaco di una palla di pietra inanimata sotto di sé, e sopra il vuoto.
Voi nemmeno più immaginate che la vita poteva essere qualcosa di diverso da quel che avviene lì fuori, dato che sopra di voi e della crosta terrestre esiste pur sempre l’altra tenue crosta dell’aria. Ma non c’è paragone con la successione di sfere nei cui interstizi noi creature della profondità abbiamo sempre vissuto, e da cui ancora risaliamo a popolare i vostri sogni. La Terra, dentro, non è compatta: è discontinua, fatta di bucce sovrapposte di densità diverse, fin giù al nucleo di ferro e nichel, che è pur esso un sistema di nuclei uno dentro l’altro e ognuno ruota separato dall’altro a seconda della maggiore o minore fluidità dell’elemento.
Vi fate chiamare terrestri, non si sa con che diritto: perché il vero nome vostro sarebbe extraterrestri, gente che sta fuori: terrestre è chi vive dentro, come me e come Euridice, fino al giorno in cui me l’avete portata via, ingannandola, in quel vostro fuori desolato.
Il regno di Plutone è questo, perché io è qua dentro che ho sempre vissuto, insieme ad Euridice prima, e poi da solo, in una di queste terre interne. Un cielo di pietra ruotava sopra le nostre teste, più limpido del vostro, e attraversato, come il vostro, da nuvole, là dove s’addensano sospensioni di cromo o di magnesio. Ombre alate si levano a volo: i cieli interni hanno i loro uccelli, concrezioni di roccia leggera che descrivono spirali scorrendo verso l’alto finchè non spariscono alla vista. Il tempo cambia d’improvviso: quando scariche di pioggia plumbea si abbattono, o quando grandinano cristalli di zinco, non c’è altro scampo che infiltrarsi nelle porosità della roccia spugnosa. A tratti il buio è solcato da un zig zag infuocato: non è un fulmine, è metallo incandescente che serpeggia giù per una vena.
Consideravamo terra la sfera interna sulla quale accadeva di posarci, e cielo la sfera che circonda quella sfera: tal quale come fate voi, insomma, ma da noi queste distinzioni erano sempre provvisorie, arbitrarie, dato che la consistenza degli elementi cambiava di continuo, e a un certo momento ci accorgevamo che il nostro cielo era duro e compatto, una macina che ci schiacciava, mentre la terra era una colla vischiosa, agitata da gorghi, pullulante di bolle gassose. Io cercavo d’approfittare delle colate d’elementi più pesanti per avvicinarmi al vero centro della Terra, al nucleo che fa da nucleo di ogni nucleo, e tenevo per mano Euridice, guidandola nella discesa. Ma ogni infiltrazione che apriva la sua via verso l’interno, scalzava dell’altro materiale e l’obbligava a risalire verso la superficie: alle volte nel nostro sprofondare venivamo accolti dall’ondata che zampillava verso gli strati superiori e che ci arrotolava nel suo ricciolo. Così ripercorrevamo in senso inverso il raggio terrestre; negli strati minerali si aprivano meati che ci aspiravano e sotto di noi la roccia tornava a solidificarsi. Finchè non ci ritrovavamo sostenuti da un altro suolo e sovrastati da un altro cielo di pietra, senza sapere se eravamo più in alto o più in basso del punto donde eravamo partiti.
Euridice appena vedeva sopra di noi il metallo di un nuovo cielo farsi fluido, era presa dall’estro di volare. Si tuffava verso l’alto, attraversava a nuoto la cupola di un primo cielo, d’un altro, di un terzo, s’aggrappava alle stalattiti che pendevano dalle volte più alte. Io le tenevo dietro, un po’ per secondare il suo gioco, un po’ per ricordarle di riprendere il nostro cammino in senso opposto. Certo, anche Euridice era convinta come me che il punto cui dovevamo tendere era il centro della Terra. Solo raggiunto il centro potevamo dire nostro tutto il pianeta. Eravamo i capostipiti della vita terrestre e per questo dovevamo incominciare a render la Terra vivente nel suo nucleo, irradiando via via la nostra condizione a tutto il globo. Alla vita terrestre, tendevamo, cioè della Terra e nella Terra; non a ciò che spunta dalla superficie e voi credete di poter chiamare vita terrestre mentre è solo una muffa che dilata le sue macchie sulla scorza rugosa della mela.
Sotto i cieli di basalto già vedevamo sorgere le città plutoniche che avremmo fondato, circondate da mura di diaspro, città sferiche e concentriche, naviganti, su oceani di mercurio, attraversate da fiumi di lava incandescente. Era un corpo vivente-cittàmacchina che volevamo crescesse e occupasse tutto il globo, una macchina tellurica che avrebbe adoperato la sua energia smisurata per costruirsi continuamente, per combinare e permutare tutte le sostanze e le forme, compiendo con la velocità di una scossa sismica il lavoro che voi là fuori avete dovuto pagare col sudore di secoli. E questa città-macchina-corpo vivente sarebbe stata abitata da esseri come noi, giganti che dai cieli rotanti avrebbero proteso il loro membruto abbraccio sopra gigantesse che nelle rotazioni delle terre concentriche si sarebbero esposte in sempre nuove positure rendendo possibili sempre nuovi accoppiamenti.
Era il regno della diversità e della totalità che doveva prendere origine da quelle mescolanze e vibrazioni: era il regno del silenzio e della musica. Vibrazioni continue, propagatesi con diversa lentezza, a seconda delle profondità e della discontinuità dei materiali, avrebbero increspato il nostro grande silenzio, l’avrebbero trasformato nella musica incessante del mondo, nella quale si sarebbero armonizzate le voci profonde degli elementi.
Questo per dirvi com’è sbagliata la vostra via, la vostra vita, dove lavoro e godimento sono in contrasto, dove la musica e il rumore sono divisi; questo per dirvi come fin da allora le cose fossero chiare, e il canto d’Orfeo non fosse altro che un segno di questo vostro mondo parziale e diviso. Perché Euridice cadde nella trappola? Apparteneva interamente al nostro mondo, Euridice, ma la sua indole incantata la portava a prediligere ogni stato di sospensione, e appena le era dato di librarsi in volo, in balzi, in scalate dei camini vulcanici, la si vedeva atteggiare la sua persona in torsioni e falcate e cabrate e contorsioni.
I luoghi di confine, i passaggi da uno strato terrestre all’altro, le davano una sottile vertigine. Ho detto che la Terra è fatta di tetti sovrapposti, come involucri di un cipollone immenso, e che ogni tetto rimanda a un tetto superiore, e tutti insieme preannunciano il tetto estremo, là dove la Terra finisce d’esser Terra, dove tutto il dentro resta al di qua, e al di là c’è solo il fuori. Per voi questo confine della Terra si identifica con la Terra stessa; credete che la sfera sia la superficie che la fascia, non il volume; siete sempre vissuti in quella dimensione piatta piatta e non supponete nemmeno che si possa esistere altrove e altrimenti; per noi allora questo confine era qualcosa che si sapeva che c’era ma non immaginavamo di poter vedere, a meno d’uscire dalla Terra, prospettiva che ci pareva, ancor più che paurosa, assurda. Era là che veniva proiettato in eruzioni e zampilli bituminosi e soffioni tutto ciò che la Terra espelleva dalle sue viscere: gas, miscele liquide, elementi volatili, materiali di poco conto, rifiuti d’ogni genere. Era il negativo del mondo, qualcosa che non potevamo raffigurare nemmeno col pensiero, e la cui astratta idea bastava a provocare un brivido di disgusto, no: d’angoscia, o meglio, uno stordimento, una – appunto – vertigine (ecco, le nostre reazioni erano più complicate di quello che si può credere, specialmente quelle di Euridice), e vi s’insinuava una parte di fascinazione, come un’attrazione del vuoto, del bifronte, dell’ultimo.
Seguendo Euridice in questi suoi estri vaganti, infilammo la gola di un vulcano spento. Sopra di noi, attraversando come una strozzatura di clessidra, s’aperse la cavità del cratere, grumosa e grigia, un paesaggio non molto diverso, per forma e sostanza, dai soliti delle nostre profondità; ma ciò che ci fece restare attoniti era il fatto che la Terra lì si fermava, non ricominciava a gravare su se stessa sotto altro aspetto, e di lì in poi cominciava il vuoto, o comunque una sostanza incomparabilmente più tenue di quelle che avevamo fino allora attraversato, una sostanza trasparente e vibrante, l’aria azzurra.
Furono queste vibrazioni a perdere Euridicie, così diverse da quelle che si propagano lente attraverso il granito e il basalto, diverse da tutti gli schiocchi, i clangori, i cupi rimbombi che percorrono torpidamente le masse dei metalli fusi o le muraglie cristalline. Qui le venivano incontro come uno scoccare di scintille sonore minute e puntiformi che si succedevano a una velocità per noi insostenibile da ogni punto dello spazio: era una specie di solletico che metteva addosso una smania incomposta. Ci prese – o, almeno, mi prese: da qui in poi sono costretto a distinguere gli stati d’animo miei da quelli di Euridice – il desiderio di ritrarci nel nero fondo di silenzio su cui l’eco dei terremoti passa soffice e si perde in lontananza. Ma per Euridice, attratta come sempre dal raro e dall’inconsulto, c’era l’impazienza d’appropriarsi di qualcosa d’unico, buono o cattivo che fosse.
Fu in quel momento che scattò l’insidia: oltre l’orlo del cratere l’aria vibrò in modo continuo, anzi in un modo continuo che conteneva più modi discontinui di vibrare. Era un suono che si alzava pieno, si smorzava, riprendeva volume, e in questo modularsi seguiva un disegno invisibile disteso nel tempo come una successione di pieni e di vuoti. Altre vibrazioni vi si sovrapponevano, ed erano acute e ben distaccate l’una dall’altra, ma stringevano in un alone ora dolce ora amaro, e contrapponendosi o accompagnando il corso del suono più profondo, imponevano come un cerchio o campo o dominio sonoro.
Subito il mio impulso fu di sottrarmi a quel cerchio, di ritornare nella densità ovattata: e scivolai dentro il cratere. Ma Euridice, nello stesso istante, aveva preso la corsa su per i dirupi nella direzione da cui proveniva il suono, e prima che io potessi trattenerla aveva superato l’orlo del cratere. O fu un braccio, che la ghermì, serpentino, e la trascinò fuori; riuscii a udire un grido, il grido di lei, che si univa al suono di prima, in armonia con esso, in un unico canto che lei e lo sconosciuto cantore intonavano, scandito sulle corde di uno strumento, scendendo le pendici esterne del vulcano.
Non so se quest’immagine corrisponde a ciò che vidi o a ciò che immaginai: stavo già sprofondando nel mio buio, i cieli interni si chiudevano a uno a uno sopra di me: volte silicee, tetti di alluminio, atmosfere di zolfo vischioso; e il variegato silenzio sotterraneo mi echeggiava intorno coi suoi boati trattenuti, coi suoi tuoni sottovoce. Il sollievo a ritrovarmi lontano dal nauseante margine dell’aria e dal supplizio delle onde sonore mi prese insieme alla disperazione d’aver persa Euridice. Ecco, ero solo: non avevo saputo salvarla dallo strazio di esser strappata alla Terra, esposta alla continua percussione di corde tese nell’aria con cui il mondo del vuoto si difende dal vuoto. Il mio sogni di rendere vivente la Terra raggiungendone con Euridice l’ultimo centro era fallito. Euridice era prigioniera, esiliata nelle lande scoperchiate del fuori.
Seguì un tempo d’attesa. I miei occhi contemplavano i paesaggi fittamente premuti uno sull’altro che riempiono il volume del globo: caverne filiformi, catene montuose addossate in scaglie e lamine, oceani strizzati come spugne: più riconoscevo con commozione il nostro mondo stipato, concentrato, compatto, più soffrivo che non ci fosse Euridice ad abitarlo.
Liberarla diventò il mio solo pensiero: forzare le porte del fuori, invadere coll’interno l’esterno, riannettere Euridice alla materia terrestre, costruire sopra di lei una nuova volta, un nuovo cielo minerale, salvarla dall’inferno di quell’aria vibrante, di quel suono, di quel canto. Spiavo il raccogliersi della lava nelle caverne vulcaniche, il premere su per i condotti verticali della crosta terrestre: questa era la via.
Venne il giorno dell’eruzione, una torre di lapilli s’innalzò nera nell’aria sopra il Vesuvio decapitato, la lava galoppava sulle vigne del golfo, forzava le porte d’Ercolano, schiacciava il mulattiere e la bestia contro la muraglia, strappava l’avaro alle monete, lo schiavo ai ceppi, il cane stretto dal collare sradicava la catena e cercava scampo nel granaio. Io ero là in mezzo: avanzavo con la lava, la valanga infuocata si frastagliava in lingue, in rivoli, in serpenti, e nella punta che si infiltrava più avanti ero io che correvo alla ricerca di Euridice. Sapevo – qualcosa m’avvertiva – che era ancora prigioniera dello sconosciuto cantore: dove avrei riudito la musica di quello strumento e il timbro di quella voce, là sarebbe stata lei.
Correvo trasportato dalla colata di lava tra orti appartati e templi di marmo. Udii il canto e un arpeggio; due voci s’alternavano; riconobbi quella d’Euridice – ma quanto cambiata! – che teneva dietro la voce ignota. Una scritta sull’archivolto in caratteri greci: Orpheos. Sfondai l’uscio, dilagai oltre la soglia. La vidi solo un istante, accanto all’arpa. Il luogo era chiuso e cavo, fatto apposta – si sarebbe detto – perché la musica vi si raccogliesse, come in una conchiglia. Una tenda pesante – di cuoio mi sembrò, anzi imbottita come una trapunta -, chiudeva una finestra, in modo da isolare la loro musica dal mondo circostante. Appena entrai, Euridice tirò la tenda di strappo, spalancando la finestra; fuori s’apriva il golfo abbagliante di riflessi e la città e le vie.
La luce del mezzogiorno invase la stanza, la luce e i suoni: uno strimpellio di chitarre si levava da ogni parte e l’ondeggiante mugghio di cento altoparlanti, e si mischiavano a un frastagliato scoppiettio di motori e strombettio. La corazza del rumore s’estendeva di là in poi sulla crosta del globo: la fascia che delimita la vostra vita di superficie, con le antenne inalberate sui tetti a trasformare in suono le onde che percorrono invisibili e inudibili lo spazio, coi transistor appiccicati agli orecchi per riempirli in ogni istante della colla acustica senza la quale non sapete se siete vivi o morti, coi jukebox che immagazzinano e rovesciano suoni, e l’ininterrotta sirena dell’ambulanza che raccoglie ora per ora i feriti della vostra carneficina ininterrotta.
Contro questo muro sonoro la lava si fermò. Trafitto dalle spine del reticolato di vibrazioni strepitanti, io feci ancora un movimento avanti verso il punto dove per un istante avevo visto Euridice, ma lei era sparita, sparito il suo rapitore: il canto da cui e di cui vivevano era sommerso dall’irruzione della valanga del rumore, non riuscivo più a distinguere lei né il suo canto.
Mi ritirai, muovendomi a ritroso nella colata di lava, risalii le pendici del vulcano, tornai ad abitare il silenzio, a seppellirmi.
Ora, voi che vivete fuori, ditemi, se per caso vi accade di cogliere nella fitta pasta di suoni che vi circonda il canto di Euridice, il canto che la tiene prigioniera ed è a sua volta prigioniero del non-canto che massacra tutti i canti, se riuscite a riconoscere la voce di Euridice in cui risuona ancora l’eco lontana della musica silenziosa degli elementi, ditemelo, datemi notizie di lei, voi extraterrestri, voi provvisoriamente vincitori, perché io possa riprendere i miei piani per riportare Euridice al centro della vita terrestre, per ristabilire il regno degli dei del dentro, degli dei che abitano lo spessore denso delle cose, ora che gli dei del fuori, gli dei degli alti Olimpi e dell’aria rarefatta vi hanno dato tutto quello che potevano dare, ed è chiaro che non basta.

Sonetti a Orfeo 2, XXVI – Rainer Maria Rilke

Pieter Bruegel the Elder - Giochi di bambini, olio su tavola, 1560 cm 118x161, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Sonetti a Orfeo 2, XXVI – Rainer Maria Rilke

Come ci afferra il grido degli uccelli
Qualsiasi grido un tempo creato.

Ma già i bambini, giocando all'aperto,
lanciano grida al grido più vero.

Gridano il caso. Tra le fessure di questo,
spazio cosmico (dove il grido intatto
degli uccelli passa come uomini nel sogno)
si configge il loro cuneo stridulo.

E noi, dove siamo? Più liberi sempre,
come aquiloni strappati via, dispersi a mezz'aria,
a nostri bordi le risa, laceri al vento.

Ordina le voci di chi grida, tu,
dio del canto! Che si destino in fragore,
corrente che il capo trascina e la lira.

Leonardo da Vinci

Leonardo da Vinci (attribuito?) - “Autoritratto di Acerenza” , tempera su tavola, XV sec. – Museo delle Antiche Genti di Lucania, Vaglio di Basilicata (Pz)
 Leonardo da Vinci

“Alla mia età, ho incontrato tanta gente, ho sofferto e gioito, ma soprattutto ho imparato ad amare l'Amore, e a rifiutare l'odio. L'Amore dona a noi stessi l'eterna gioventù, e ogni domani è importante per incontrare nuova gente e vivere nuove storie importanti.”

Sonetti a Orfeo 1, XX – Rainer Maria Rilke

Artista sconosciuto - Cavalli di San Marco, IV secolo a.C. o IV secolo d.C.?, bronzo fuso a cera perduta con doratura, Basilica di San Marco, Venezia
Sonetti a Orfeo 1, XX – Rainer Maria Rilke

Ma a te Signore cosa consacrare, dimmi,
a te che rendesti docili all'ascolto le creature?
Il mio ricordo di un giorno di primavera
quella sera, in Russia, un cavallo bianco...

Solitario scendeva dal villaggio
per passare la notte sui prati,
alla zampa era ancora legato il paletto;
sul collo il battito della criniera,

i suoi riccioli, al ritmo superbo
di un galoppo rudemente trattenuto.
Come guizzava la fonte del suo sangue!

Sentiva le distese, le sentiva!
Cantava e ascoltava. In lui era
racchiuso il tuo ciclo leggendario.
La sua immagine: io questo ti consacro.

Sonetti a Orfeo 2, X – Rainer Maria Rilke

Giacomo Balla - Velocita più paesaggio, 1913
Sonetti a Orfeo 2, X – Rainer Maria Rilke
 

Ogni conquista minaccia la macchina, finché
persiste nella volontà e non nell'obbedienza.
Perché la mano non splenda esitando con grazia,
lei rigida squadra la pietra al palazzo in progetto.

Mai resta indietro se anche le sfuggissimo una volta
e oleandosi nel silenzio della fabbrica solo a se stessa
appartiene. E' lei la vita: In questo si crede la migliore
e con la stessa fermezza ordina, cerca e distrugge.

Ma a noi l'esistenza è ancora incanto; in cento luoghi
è ancora origine. Un gioco di pure energie
che mai nessuno sfiora, se non in preghiera e stupore.

E ancora vanno tenere parole verso l'Indicibile...
E la musica, sempre nuova, da pietre più vibranti,
innalza nel suo spazio intangibile la sua divina dimora.

18 marzo 2019

Quando scolpisco il mio poema – Anise Koltz

Maria Grazia Montano - Segno antico n.7, 2012, tecnica mista su tavola cm 82x82
Quando scolpisco il mio poema – Anise Koltz

Quando scolpisco il mio poema
a colpi d'ascia
il sole s'annera
il tempo trattiene le sue ore
come una muta di cani

Sonetti a Orfeo 1, XXIV – Rainer Maria Rilke

Baccio Bandinelli, pseudonimo di Bartolommeo Brandini - Orfeo
Sonetti a Orfeo 1, XXIV – Rainer Maria Rilke

La nostra antica amicizia, i grandi dèi
che mai lusingano, dovremmo ripudiarli perché
l'acciaio che severi educammo li ignora, o forse
cercarli d'un tratto come punti su una mappa?

Questi amici potenti che ci prendono
i morti, mai li sfiora la corsa delle nostre ruote.
Lontano da loro spostiamo le terme, i banchetti,
oltre il lento passaggio di quei messaggeri

da sempre avanziamo veloci. Noi assegnati
gli uni agli altri, e più soli, tra sguardi che s'ignorano
noi non tracciamo sentieri su dolci meandri,

ma su vie dritte. Solo nelle fabbriche brucia ancora
il fuoco antico e si levano i martelli, sempre più enormi.
Ma la nostra forza come nuotando si disperde.

l’Orfeo di Claudio Monteverdi (su libretto di A. Striglio), del 1607 - (atto IV ritornello- atto V):

l’Orfeo di Claudio Monteverdi (su libretto di A. Striglio), del 1607 - (atto IV ritornello- atto V):

SPIRITI INFERNALI
Pietate oggi e Amore
trionfan ne l'inferno.
Ecco il gentil cantore,
che sua sposa conduce al ciel superno.
ORFEO
Qual onor di te fia degno,
mia cetra onnipotente,
s'hai nel tartareo regno
piegar potuto ogn'indurata mente?
ORFEO
Luogo avrai fra le più belle
immagini celesti
ond'al tuo suon le stelle
danzeranno co' giri or tardi or presti.
ORFEO
Io, per te felice a pieno,
vedrò l'amato volto,
e nel candido seno
de la mia donna oggi sarò raccolto.
ORFEO Ma mentre io canto, ohimè chi m'assicura
ch'ella mi segua? Ohimè, chi mi nasconde
de l'amate pupille il dolce lume?
Forse d'invidia punte
le deità d'Averno
perch'io non sia qua giù felice a pieno
mi tolgono il mirarvi,
luci beate e liete,
che sol col guardo altrui bear potete?
Ma che temi, mio core?
Ciò che vieta Pluton, comanda Amore;
a nume più possente,
che vince uomini e dèi,
ben ubbidir dovrei.
(qui si fa strepito dietro alla scena)
ORFEO Ma che odo, ohimè lasso?
S'arman forse a' miei danni
con tal furor le Furie innamorate
per rapirmi il mio bene, ed io 'l consento?
(qui si volta)
O dolcissimi lumi, io pur vi veggio,
io pur... ma qual eclissi, ohimè, v'oscura?
UNO SPIRITO
Rott'hai la legge, e se' di grazia indegno.
EURIDICE
Ahi, vista troppo dolce e troppo amara!
Così per troppo amor dunque mi perdi?
Ed io, misera, perdo
il poter più godere
e di luce e di vita, e perdo insieme
te d'ogni ben mio più caro, o mio consorte.
SPIRITI INFERNALI
Torna a l'ombre di morte,
infelice Euridice,
né più sperar di riveder il sole,
ch'omai fia sordo a' prieghi altrui l'inferno.
ORFEO
Dove te n' vai, mia vita? ecco i' ti seguo.
Ma chi me 'l vieta, ohimè, sogno o vaneggio?
Qual poter, qual furor da questi orrori,
da questi amati orrori
mal mio grado mi tragge e mi conduce
a l'odiosa luce?
SPIRITI INFERNALI
È la virtute un raggio
di celeste bellezza,
fregio dell'alma ond'ella sol s'apprezza:
questa di tempo oltraggio
non teme, anzi maggiore
divien se più s'attempa il suo splendore.
Nebbia l'adombra sol d'affetto umano,
a cui talor invano
tenta opporsi ragion, ch'ei la sua luce
spegne, e l'uomo cieco a cieco fin conduce.
Orfeo vinse l'inferno e vinto poi
fu da gli affetti suoi.
Degno d'eterna gloria
fia sol colui ch'avrà di sé vittoria.
Qui di nuovo si volge la scena.

ATTO QUINTO - Scena unica
ORFEO
Questi i campi di Tracia, e questo è il loco
dove passommi il core
per l'amara novella il mio dolore.
Poiché non ho più spene
di ricovrar pregando,
piangendo e sospirando
il perduto mio bene,
che poss'io più se non volgermi a voi,
selve soavi, un tempo
conforto ai miei martir, mentre a dio piacque
di farvi per pietà meco languire
al mio languire?
Voi vi doleste, o monti, e lagrimaste
voi, sassi, al dipartir del nostro sole,
ed io con voi lagrimerò mai sempre,
e mai sempre dorròmmi, ahi doglia, ahi pianto!
ECO
Ahi pianto.
ORFEO
Cortese Eco amorosa,
che sconsolata sei,
e consolar mi vuoi ne' dolor miei,
benché queste mie luci
sien già per lagrimar fatte due fonti,
in così grave mia fiera sventura
non ho pianto però tanto che basti.
ECO
Basti.
ORFEO
Se gli occhi d'Argo avessi
e spandessero tutti un mar di pianto,
non fora il duol conforme a tanti guai.
ECO
Ahi.
ORFEO
S'hai del mio mal pietade, io ti ringrazio
di tua benignitate.
Ma, mentr'io mi querelo,
deh, perché mi rispondi
sol con gl'ultimi accenti?
Rendimi tutti integri i miei lamenti.
ORFEO
Ma tu, anima mia, se mai ritorna
la tua fredd'ombra a queste amiche piagge,
prendi or da me queste tue lodi estreme
ch'or a te sacro la mia cetra e 'l canto
come a te già sopra l'altar del core
lo spirto acceso in sacrifizio offersi.
Tu bella fusti e saggia, e in te ripose
tutte le grazie sue cortese il cielo
mentre ad ogni altra de' suoi don fu scarso;
d'ogni lingua ogni lode a te conviensi
ch'albergasti in bel corpo alma più bella,
fastosa men quanto d'onor più degna.
Or l'altre donne son superbe e perfide,
ver chi le adora, dispietate instabili,
prive di senno e d'ogni pensier nobile,
ond'a ragion opra di lor non lodasi;
quinci non fia giamai che per vil femina
Amor con aureo stral il cor trafiggami.

Ovbidio - Metamorfosi X 1-85

Ovbidio - Metamorfosi X 1-85

Di là, avvolto nel manto di croco, Imeneo
andò per il cielo immenso e si diresse alla terra dei Ciconi,
mentre invano lo chiama la voce di Orfeo.
Ci fu infatti, ma non portò le parole solenni,
né un volto lieto, né i presagi propizi;
e la fiaccola in mano sua stridette, mandando fumo
che faceva piangere e, anche agitata, non prese fuoco.
L’esito fu peggiore dell’auspicio: la sposa novella,
mentre passeggia sui prati accompagnata da una schiera di Naiadi,
morì morsa da un serpente al tallone.
Dopo averla pianta abbastanza alla luce del sole,
il poeta tracio, per tentare anche le ombre,
osò discendere per la porta tenaria allo Stige,
e procedendo tra le folle lievi e i simulacri
dei defunti sepolti, andò da Persefone e dal signore
dello squallido regno delle ombre. Facendo vibrare la lira,
disse: «Dèi del mondo sotterraneo, nel quale
cadiamo noi tutti che siamo nati mortali,
se mi è lecito, se permettete che io, lasciando
i meandri del falso, dica la verità, non sono venuto
qui per vedere il Tartaro buio, o incatenare il triplo collo
del mostro meduseo che ha per vello i serpenti;
causa del mio viaggio è la mia sposa, su cui una vipera
calpestata ha diffuso il suo veleno e ne ha troncato la
vita ancora crescente.
Avrei voluto essere in grado di sopportare e, non
negherò, l’ho tentato,
ma Amore ha vinto! È un dio ben noto alla luce del sole;
che lo sia anche qui, ne dubito, ma lo credo;
se non è falsa la fama dell’antico ratto,
anche voi Amore ha unito: per questi luoghi orribili,
per questo enorme Caos e i silenzi del vasto regno, vi prego,
ritessete il destino precipitoso della mia Euridice!
Tutti vi siamo dovuti e, dopo un breve indugio,
presto o tardi tutti ci affrettiamo alla stessa sede.
Qui tutti siamo diretti, questa è la casa ultima:
voi tenete il più lungo dominio sul genere umano.
Anche lei, quando avrà compiuto un giusto numero d’anni,
vi sarà sottoposta: vi chiedo di darmela in prestito e non in dono.
Se i fati mi negano la grazia per la mia sposa,
ho deciso di non tornare: godete la morte di entrambi!»
Mentre così diceva e accompagnava con lo strumento le sue
parole, le anime esangui piangevano: Tantalo
non cerca più l’acqua fuggente, rimane attonita
la ruota di Issione, gli uccelli non mordono il fegato,
le nipoti di Belo lasciano l’urne, e tu sedesti sul sasso, Sisifo.
Allora per la prima volta dicono, s’inumidirono
di lacrime le gote delle Eumenidi, vinte: né la sposa del re
del profondo né il re stesso hanno il coraggio di opporre
un rifiuto e chiamano Euridice. Era fra le ombre recenti,
e camminava, per via della ferita, con passo tardo.
La ricevette Orfeo assieme a una condizione,
di non volgere indietro gli occhi finché non fosse
uscito dalle valli d’Averno, o il dono sarebbe stato vano.
Prendono attraverso il silenzio il sentiero arduo
oscuro, denso, coperto di caligine. Non erano lontani dalla
superficie terrestre, e qui Orfeo, per amore,
temendo che non gli venisse a mancare ed avido
di vederla, volse indietro gli occhi, ed ella subito
scivolò indietro e, tendendo le braccia e cercando
di afferrarla ed esserne afferrato, non prese altro che aria cedevole.
Morendo ormai per la seconda volta, non si lagnò del suo sposo
(di cosa avrebbe potuto lagnarsi altro che d’essere amata?)
e disse l’ultimo addio, che appena giunse alle orecchie di lui,
e di nuovo precipitò indietro. Dalla doppia morte
della sposa Orfeo rimase attonito, come quello
che vide con terrore i tre colli di Cerbero, con le catene a quello di mezzo,
e la paura abbandonò solo insieme
alla natura di prima, quando la pietra invase il suo corpo.
O come Oleno, che si addossò la colpa e volle sembrare
colpevole, e te, infelice Letea, che fidasti troppo
nella tua bellezza, cuori un tempo uniti,
ora pietre che sorgono sopra l’umida Ide.
Pregava e voleva di nuovo passare, ma il traghettatore
lo allontanò: eppure per sette giorni rimase
seduto tristemente sulla riva senza mangiare:
suo cibo era l’angoscia, il dolore, il pianto.
Lagnandosi che gli dèi dell’Erebo erano senza pietà,
andò nell’alta Rodope e sull’Emo battuto dall’Aquilone.
Per la terza volta il Sole aveva concluso l’anno
nella costellazione dei Pesci marini, ed Orfeo da allora evitava
ogni amore di donna, perché era finito male,
o perché aveva promesso: eppure tante donne bruciavano
per unirsi al poeta, e molte soffrirono per la repulsa.
Fu lui che insegnò ai Traci a indirizzare
l’amore sui teneri maschi, e a cogliere i primi fiori
della breve primavera di vita prima della giovinezza.
(Trad. G. Paduano)

Gli uomini che muoiono - Danielle Steel

Vincent Van Gogh - Natura morta con paio di scarpe, 34 x 41,5 cm. Baltimora Museum of Art
Gli uomini che muoiono - Danielle Steel

Gli uomini che muoiono sono i figli, gli amanti, i martiri.
Una donna può solo perdere in guerra, mai vincere.
E a lei la guerra non dà nessun brivido di emozione.

Una bomba nuova - Denise Levertov

Vincent Van Gogh - Natura morta con paio di scarpe
Una bomba nuova - Denise Levertov

                   da Life in the forest

Una bomba nuova, enorme, cade
ben oltre lo steccato del terreno
della nostra mente. E ci dicono “Con ciò
la guerra è finita”.

Scherzo - Edith Sordegran

Maria Grazia Montano - Tramonto, tecnica mista
Scherzo - Edith Sordegran

Stelle lassù, inequivocabilmente chiare;
il mio cuore sulla terra, inequivocabilmente chiaro.
Magnifica notte di stelle, noi siamo una cosa sola.
Non siedo, tremando, su una fune di stelle che potrebbero spezzarla?
Tempo, sei tu, abisso sonnolento, che mi provochi sbadigliando?
Pericolo per i piedi stanchi della danzatrice,
pericolo per le braccia dello scalatore, che allentano la presa,
pericolo per il nastro di perle, temerariamente teso.
Tempo ‑ perisci!
Ogni stella mi fa l'occhiolino: io sono te!
Ogni stella mi bacia sulla bocca: resta da me!
Le stelle chiudono un cerchio intorno a me sempre più vicino, più vicino,
tutto il mio busto dentro, in un vapore di stelle.
Cosa faccio là dentro? Piango?
La sera dorme. Il re del mare beve dalla conchiglia.
Nessuno si muoverà. Ma la danzatrice avanzi
sulle punte di mezzanotte,
e cada in ginocchio e tenda il braccio
e baci il bello.

L’arte - Herman Melville

Francesco Ubertini (il Bacchiacca) - Donna con gatto, 1525/1530 circa, olio su tavola, 53,6 x 43,8 cm
L’arte - Herman Melville

Compiaciuti, sogniamo nelle ore di calma
tanti bei progetti senza sostanza.
Ma per dare forma, far pulsare la vita,
quante cose diverse devono incontrarsi e sposarsi:
una fiamma per sciogliere, un vento per gelare,
mesta pazienza ed energia gioiosa:
umiltà, eppure orgoglio e spregio;
istinto e studio, amore e odio:
audacia, reverenza. Questi devono fondersi
e poi del cuore mistico di Giacobbe avere parte,
per lottare con l’angelo: l’Arte.

Traduzione di Massimo Bacigalupo
Poesia n. 223 Gennaio 2008
20 anni 500 poesie sulla poesia Crocetti Editore 2008

È venuta tutta intera - Maram Al-Masri

dipinto di Serge Marshennikov
È venuta tutta intera - Maram Al-Masri

È venuta tutta intera,
con l’odore del suo letto
e della sua cucina,
con i baci di suo marito
nascosti sotto la camicetta,
con il suo sperma
ancora caldo
nel ventre.

È venuta,
con la sua storia e i suoi sogni,
le sue rughe,
e il suo sorriso screpolato,
con la peluria che si tesse
sul bordo delle sue guance,
con i resti delle loro colazioni
appiccicati ai denti.

È venuta con tutti i miei dolori,
la donna che vive con il mio uomo.

Non star lontana da me – Pablo Neruda

Catherine Abel - Clare de lune 56X51cm
Non star lontana da me – Pablo Neruda

Non star lontana da me un solo giorno, perché,
perché, non so dirlo, è lungo il giorno,
e ti starò attendendo come nelle stazioni
quando in qualche parte si addormentano i treni.

Non andartene per un’ora perché allora
in quell’ora s’uniscono le gocce dell’insonnia
e forse tutto il fumo che va cercando casa
verrà a uccidere ancora il mio cuore perduto.

Ahi, non s’infranga la tua figura sull’arena,
ahi, non volino le tue palpebre nell’assenza:
non andartene per un minuto, adorata,

perché in quel minuto sarai andata così lontano
che attraverso tutta la terra domandando
se tornerai o se mi lascerai morire.

Si - Morten Sondergaard

Si - Morten Sondergaard
 

Si ricomincia!
ballo all’inferno

Non ho le ali
e
la morte fa la parte
del mio nome.

Gioco con i fiammiferi sotto la scala.
Brucio e brucio al suolo il mondo.

Colleziono bombe e scopo con rumori negli occhi.
Vengo condannato a morte da mamma e papà.

Sto sanguinando:
La carta mi fa da cerotto.

La gente ha il potere - Patti Smith

Polonia - donne contro l'abolizione della legge sull'aborto
La gente ha il potere - Patti Smith

Stavo sognando nel mio sognare
Di un aspetto luminoso e bello
Il mio sonno si è spezzato
Ma il mio sogno tardava a svanire
Sotto forma di valli splendenti
Dove si sentiva l'aria pura
E i miei sensi si rinnovavano
Mi svegliavo al grido
Che la gente ha il potere
Di riscattare il lavoro dei folli
E la grazia scenderà su chi è in basso
È certo che il potere sarà della gente
La gente ha il potere
La gente ha il potere
Aspetti vendicativi divennero sospetto
Piegandosi in basso per ascoltare
E gli eserciti cessarono di avanzare
Perché la gente era stata ascoltata
E i pastori e i soldati
Scambiandosi visioni
Giacevano sotto le stelle .
Mentre le armi giacevano a consumarsi nella polvere
Sotto forma di valli splendenti
Dove si sentiva l'aria pura
E i miei sensi si rinnovavano
lo mi svegliavo al grido
La gente ha il potere
La gente ha il potere
Dove c'erano deserti vidi fontane
Le acque si alzano come panna .
E giravamo insieme
E nessuno ironizzava o criticava
E il leopardo e l'agnello
Giacciono insieme lealmente accanto
Stavo sperando nella mia speranza
Di ricordare ciò che avevo trovato
Stavo sognando nel mio sognare
Dio conosce una visione più pura
Quando mi arrendo al mio sonno
Affido il mio sogno a te
La gente ha il potere
La gente ha il potere
Il potere di sognare di governare
Di liberare il mondo dai folli
Il governo della gente è certo
Il governo della gente è certo
Ascolta io credo che ogni cosa che sogniamo
Passerà attraverso la nostra unione
Possiamo far cambiare corso al mondo
Possiamo cambiare il moto di rivoluzione della terra
Abbiamo il potere
La gente ha il potere

Vieni, vieni - Maram Al-Masri

Alfredo Protti - Nudo allo specchio, 1925
Vieni, vieni - Maram Al-Masri

Vieni, vieni
ho preparato la tavola del mio ventre
il giardino delle mie cosce dai frutti maturi
le mie cosce calde e felici
succose di nettare di desiderio.
Ma
prepara la tua bocca affinché io possa mangiare.
Vieni, vieni
ben temperato è il mio vino sacro
che ti darà il godimento
di una donna
matura d’amore.

Non v’è differenza – Anise koltz

Dariusz Klimczak fotografia surreale
Non v’è differenza – Anise koltz

Non v'è differenza
tra interno ed esterno
tra parole e pietre

sollevandole
mi troverai
orbettino
arrotolato su me stesso

Ali - Morten Søndergaard

Inger Christensen
Ali - Morten Søndergaard

                             per Inger Christensen

Ci siamo registrati nell’albergo del sonno e abbiamo avuto la chiave
della stanza più interna in un morbido uragano.

Giaccio qui, così posso leggere poesie
nell’ora più rara del mondo. Mi esercito

a dirle senza muovere le labbra.
Lei bussa, ha le sue poesie

in un sacchetto della posta, le sa a memoria. Ha
ali e calca il caos con cautela, setaccia

le stesse strade romane e reinventa
la lingua nel tessuto urbano. Il vino bianco scorre

dentro di noi, guardiamo scarpe, mentre la Morte
aspetta col suo completo. Ha tutto il tempo. Ha

la Vita Nova di Dante in tasca.
Poi lei inizia a disfare le poesie

con la sua melodiosa voce e scompare
in ciò che nessun altro sa dire.

Endimione - Durs Grünbein

Ernst Ludwig Kirchner - La Toilette, 1912
Endimione - Durs Grünbein

Lì se ne va, il raccoglitore di versi, il perdigiorno
dell’universo. Non rivela perché lo guidi
il suo senso intimo per lo sfavillio.
È positivo, assoluto nei riguardi della luna,
questa butterata alleata dell’universo.
Quel che si dice di lei, lo lascia indifferente.
È ritornato, ora scopre sulla terra
i crateri e i deserti. Nel suo eremitaggio tiene
la porta aperta, vive in incognito, rivolto a tutto.
Traduzione di Gio Batta Bucciol


Poesia n. 332 Dicembre 2017
Durs Grünbein. Librazioni lunari e liriche a cura di Gio Batta Bucciol

Tre volte tre rose - Lars Forssel

Maestro di Hartford - Natura morta
Tre volte tre rose - Lars Forssel

Tre volte tre rose
ho scagliato nel mare oggi, quando
la corrente porta via da Itaca.

Tre volte tre colombe
svolazzando hanno preso il volo
dalla mia mano.

C’è porpora tanto potente,
Calipso, che qualche oncia
può tingere tutto il mare di rosso.

A che mi giova allora la distanza
e l’averti sfuggita? Le sirene
ancora allettano nel mio sogno.

E il mare ondeggia.
E il sogno chiama – tempesta –
e chiama te.

Rosa - piccolo - e puntuale - Emily Dickinson

dipinto di Maureen Thompson
Rosa - piccolo - e puntuale - Emily Dickinson

Rosa - piccolo - e puntuale -
Aromatico - umile -
Celato ad Aprile -
Schietto a Maggio -
Caro al Muschio -
Noto al Poggio -
Vicino al Pettirosso
In ogni Anima umana -
Piccola ardita Bellezza -
Adornata da te
La natura ripudia -

16 marzo 2019

La mia pelle odora – Anise Koltz

Dariusz Klimczak fotografia surreale
La mia pelle odora – Anise Koltz

                          A Renè Koltz (in memoriam)

La mia pelle odora
di cortili umidi
di campi abbandonati

Mi sporgo
sul bordo del mondo

Tu non sei da nessuna parte