19 gennaio 2020

All'Emilia Romagna - Enzo Montano

All'Emilia Romagna - Enzo Montano


Sono lucano, amo la mia terra, la Basilicata Lucania Enotria Magna Grecia. Amo il mio mare, lo Ionio, lo stesso mare di Ulisse. Dalla mia terra sono passati Greci, Romani, Bizantini, Goti, Longobardi, Normanni… In questa terra meravigliosa di silenzio e luce, accarezzata dal sole rovente dell’estate, i colori sono vividi, decisi i sapori, intensi i profumi e il vino è forte. Nella mia terra la gente è silenziosa, austera, riservata ma accogliente. Sono orgoglioso della terra che amo, della mia regione. Amo i calanchi, i piccoli paesi in cima alle colline, paesi che si spopolano, senza giovani, senza futuro forse, ma li amo con tutto me stesso. Amo i grandi spazi deserti e silenziosi, amo i boschi, le vallate, il volo ponderato dei falchi. La Lucania è la mia terra, ma c’è un luogo dove risiede la mia anima, è l’Emilia Romagna, dove ho vissuto sette anni della fanciullezza/giovinezza tra persone meravigliose, dove torno sempre volentieri. Lì, in quella regione, sono diventato comunista la mattina di un 25aprile, in un cinema, al buio illuminato dai volti degli attori prestai ai fratelli Cervi: Gelindo, Antenore,  Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore. Dopo la scritta fine, tra gli applausi di ex partigiani, io mi spogliai di ogni dubbio. Divenni antifascista. Badate, l’antifascismo non è una categoria del pensiero, non è un derby come immagina qualcuno poco aduso ai libri, l’antifascismo è un valore costituzionale, un dovere di ogni democratico di cui avremmo voluto fare a meno se non ci fosse stato il fascismo. Scelta corroborata successivamente nelle lunghe notti trascorse a parlare con chi era stato protagonista della meravigliosa pagina della nostra storia chiamata Resistenza. Ecco perché l’Emilia Romagna è il luogo della mia anima, in quella terra ho imparato la solidarietà, le sfide collettive, lo stare insieme, l’antifascismo, i valori della Costituzione, della democrazia. Lì ho imparato cosa significa essere liberi. E ho imparato a conoscere la bellezza di cui l’essere umano è capace: il Correggio, il Parmigianino, Verdi, Toscanini, Ludovico Ariosto, Pascoli, Guccini… Terra di donne e uomini che non si piegano, di contadini capaci di sconfiggere la povertà, i soprusi, i fascisti. Terra bellissima dove mi hanno insegnato a riconoscere e apprezzare il prosciutto buono, la coppa stagionata al punto giusto, la spalla di San Secondo, il salame felino, il formaggio che non si può chiamare così se non è il Parmigiano Reggiano stagionato almeno 24 mesi, un lambrusco come si deve, un’albana dolce almeno quanto la giovinezza, lo gnocco fritto, la piadina, l’infinita varietà dei tortellini/cappelletti/anolini…
La storia dell’Emilia Romagna è anche mia che sono fieramente Lucano/Enotrio.
Ricordo il terremoto del 23 novembre 1980. Il giorno dopo e il 25 di quel novembre con alcuni amici a bordo di un furgone sgangherato portavamo coperte, vestiti, alimentari e altro generosamente offerti dai concittadini, ci stavamo recando in un piccolo centro, uno di quelli non citati dai giornali o dalla televisione, Ricigliano credo fosse, in provincia di Salerno, appena dopo Balvano. Lungo la superstrada Basentana,  incrociammo una colonna di 4 o 5  TIR, tutti uguali, erano soccorsi per le popolazioni, sul telone di ognuno di essi c’era scritto “Regione Emilia Romagna. Quanto orgoglio avvertii dentro di me, quanta commozione al pensiero del mio luogo dell’anima.
È passato quasi mezzo secolo dagli anni vissuti in quella regione, tanto tempo per commettere errori anche da parte di chi in quella regione ha governato. Intendiamoci, ha ben governato, e se si ha l’accortezza di uscire dalla propaganda, dagli slogan fasulli, se si fa un confronto col passato e con le altre regioni si comprende che in Emilia Romagna hanno governato bene. Non hanno commesso degli errori? Certo che ne sono stati fatti, alcuni di quegli errori non li perdonerò mai a chi è stato dirigente della mia parte politica. Fu un errore enorme, per esempio, quando, alle elezioni  regionali precedenti, non ci si interrogò sull’imbarazzante 37,71% di affluenza nella regione più politicizzata d’Italia. un dato che avrebbe meritato ben altre riflessioni non certo la rapidità con cui l’ineffabile segretario nazionale di allora liquidò la questione con uno sprezzante “l’affluenza è un problema secondario”. Un problema secondario? In Emilia Romagna? Non ci volevo credere. Quell’atteggiamento, a mio parere, fu il modo più semplice per regalare consensi ai populisti razziasti, agli sciacalli senza scrupoli, capaci di strumentalizzare ogni cosa per un tornaconto elettorale.
Lì forse cominciò il declino culturale della sinistra. E sia chiaro, che se si dovesse evitare la sconfitta, il merito sarà del movimento delle Sardine.
In 50 anni di errori se ne possono fare a bizzeffe, ma non c’è dubbio che oggi l’Emilia Romagna è una delle regione dove meglio si vive. Fidatevi di un lucano. Ma vi prego, Emiliani e Romagnoli, vi esorto, vi scongiuro, vi supplico. Non fatevi turlupinare come gli altri dai razzisti, da chi fa opera di sciacallaggio continuo (Bibbiano), chi ridicolizza un ragazzo coraggioso, chi mette alla gogna mediatica chiunque osi contraddirlo, chi delle vostra regione importa assai poco oltre il dato elettorale. Capisco la voglia di cambiamento ma che senso ha cambiare verso il peggio? Bisogna chiede, pretendere, esigere dagli amministratori che si impegnino a migliorare le cose che non funzionano come dovrebbero (poche in verità rispetto alle atre regioni) ma non consegnarsi a chi dimostra ogni giorno di non saper fare. Non consegnate la vostra bellissima terra ai bugiardi della destra, non regalatela ai seminatori di odio, a voi non è consentito di fare lo stesso errore fatto da altri, voi siete gente concreta, voi avete guardato in faccia il fascismo, lo avete combattuto, lo avete sconfitto, voi avete costruito un sistema economico e sociale solido. Vi prego in ginocchio, non lasciatevi turlupinare. Non consegnate il mio luogo dell’anima a chi non lo merita.

9 gennaio 2020

Rubens il partigiano e altri racconti - Enzo Montano


Rubens il partigiano e altri racconti
Da “La nera signora”

[…]
Bevvero silenziosamente del buon vino. Si guardavano, si studiavano, si sorridevano.
«Noto» riprese Vincenzo «che non vuoi cogliere i miei suggerimenti in termini di cambio di immagine, di adeguare il tuo incedere alla modernità.»
«Ah, la modernità, eccola di nuovo la modernità.»
«Ti pare strano che ci si adegui allo scorrere del tempo?»
«Per carità, quello che chiami modernità esiste da sempre.»
«Perché non l’hai colta?»
«Quale, amico mio, quale modernità avrei dovuto cogliere? Quella di secoli prima di Cristo? Quella che ogni generazione nuova immagina di modificare per poi rimpiangere quando invecchiano? Dimmi quale modernità?»
«La modernità dettata dall’epoca.»
«Dovrei cambiare sempre, come una valente trasformista: sarebbe un affanno continuo, una rincorsa al mutabile. Non dimenticare l’effimera dimensione del tempo in cui vivo. Per te una vita e la tutta la storia dell’esistenza, per me meno di due righe di un lungo romanzo.»
«Visto, allora, che la modernità cambia col tempo, tu preferisci conservare il marchio d’origine.»
«Ma si, sai quante modernità ho vissuto? Ogni generazione che ho visto passare, é andata via assieme alla modernità che vanamente aveva professato, soppiantata immediatamente dai quelli arrivati dopo nel rimpianto “dei bei tempi andati” delle persone più mature che deploravano le nuove tendenze. Non molto tempo fa, per esempio, sono passati solo quattrocento o cinquecento anni...»
«Ieri, si potrebbe affermare.»
«Mio caro, mezzo secolo o un secolo intero, per me è piccola cosa, un pulviscolo.»
«Cosa accadeva nel tuo ieri?»
«In quel periodo le neonate femmine con la sfortuna di nascere in famiglie povere, spesso venivano soppresse. Le sopravvissute erano considerate poco più che bestie. Allora anche una maggiore considerazione della donna era vissuta alla stregua di uno stravolgimento “dei bei tempi andati”. Vuoi un vero luogo comune? Eccolo: la modernità.»
«Allora niente concessione all’immagine.»
«Preferirei di no, col tempo magari.»
«Si, tra qualche millennio...»
«Se ci sarò ancora.»
«Tu ci sarai sempre.»
«Ho forti dubbi, ma tutto dipende da voi.»
«Da noi? Sei tu che attraversi i lunghissimi millenni e tu continuerai a farlo, inesorabilmente.»
«Su questo potremmo discutere a lungo poiché io non la determino, e vero, ma sono determinata dalla vita.»
«Quindi?»
«Metti caso che gli intelligenti della Terra non pongano nessun freno al disprezzo del pianeta, che continuino la loro opera di distruzione in ogni settore, pensi che non arriverà la fine di tutto? Basta lasciar fare ancora un poco e sarete senza foreste, ne piogge, ne freddo, con terra e aria fortemente inquinate e senza più acqua. Non rimarrà nessuna forma di vita, dunque, scomparirà anche la morte.»
«O forse sarà solo morte.»
«Se preferisci dire così, va bene, resta la sostanza: senza la vita tutto e morto e, perciò, non occorre il suo intervento. Rimane la morte quale inutile staticità del nulla, più che altro sarà deserto totale.»
«Quindi, alla fine, anche tu potresti finire?»
«Si… o restare inoperosa per millenni, forse milioni di anni finché non torni ad affacciarsi, lentamente, di nuovo la vita nelle sue forme primordiali elementari. E se dovesse rinascere la vita, rinascerebbe anche la morte.»
«Come se tutto ricominciasse.»
«Esatto, ammesso che un nuovo inizio possa ipotizzarsi dopo il passaggio di questa umanità.»
«È molto triste.»
«Già, intristisce anche me, pensa un po’.»
«Cominci a diventarmi simpatica.»
«Sono contenta, finalmente riesci a rompere il ghiaccio e guardare oltre l’immagine di superficie dello specchio.»
[…]

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7 gennaio 2020

da Don Camillo – Giovannino Guareschi

da Don Camillo – Giovannino Guareschi

Quando Peppone, seguito dalla commissione, si trovo davanti al Vescovo, fece fatica a incominciare il suo discorso. Ma poi prese l'aire.
«Eccellenza» disse «quello che ci avete mandato e un prete che non e degno delle tradizioni del capoluogo comunale.»
Il Vescovo alzo la testa per guardare la vetta di Peppone.
«Dite pure: cos'ha fatto?»
Peppone allargo le braccia:
«Per l'amor di Dio! Fatto, non ha fatto niente di grave… Anzi, non ha fatto niente… Il guaio e che, insomma… Eminenza: una mezza calzetta… voglio dire, un pretino cosi e roba da oratorio… Quello, quando e addobbato, scusate, ma sembra un attaccapanni con su tre paltò e un tabarro».
Il vecchio Vescovo tentenno gravemente il capo.
«Ma voi» disse con molta grazia «il valore dei sacerdoti lo misurate col metro e con la bilancia?»
«No, Eccellenza» rispose Peppone. «Mica siamo selvaggi! Il fatto e che, insomma, anche l'occhio vuole la sua parte, e in queste cose di religione e come per il medico dove conta molto la simpatia personale per via della suggestione fisica e della fiducia morale!»
Il vecchio Vescovo sospiro.
«Capisco, capisco, mi rendo conto perfettamente. Pero, beati figlioli, l'avevate un arciprete che pareva una torre, e siete stati proprio voi a venirmi a pregare di togliervelo dai piedi!»
Peppone corrugo la fronte.
«Monsignore» spiegò solennemente «si trattava di un "casus bello", un caso "sui generi" come si dice. Perche quello, come uomo, era una associazione a delinquere, nel senso che tirava per i capelli al precipizio con le sue pose dittatoriali e provocatorie.»
L«o so, lo so» disse il Vescovo. «Me l'avete gia detto l'altra volta, figliolo, e io come vedete l'ho allontanato. Appunto perche mi sono reso conto che si tratta di un uomo disonesto…»
«Un momento, scusi! » interruppe il Brusco. «Noi non abbiamo mai detto che sia un disonesto! »
«Se non un disonesto» continuò il vecchio Vescovo «don Camillo è un sacerdote indegno in quanto…»
«Scusil» o interruppe Peppone «noi non l'abbiamo mai detto che come sacerdote e uno che non fa il suo dovere. Noi abbiamo parlato dei suoi gravissimi difetti, delle sue gravissime colpe come uomo. »
«Appunto» concluse il vecchio Vescovo. «E siccome purtroppo l'uomo e il sacerdote si identificano, e siccome come uomo don Camillo rappresenta un pericolo per il prossimo, stiamo appunto pensando di rendere definitiva la sua sistemazione. Lo lasceremo là, in mezzo alle capre di Puntarossa. Se lo lasceremo, perché non è ancora deciso se permetteremo che continui a officiare o se lo sospenderemo a divinis. Staremo a vedere. »
Peppone confabulo un poco con la commissione, poi si volse:
«Monsignore» disse sottovoce, e sudava perche era costretto a parlare sottovoce «se l'autorità ecclesiastica ha dei motivi particolari per fare cosi, padronissima. Pero ho il dovere di avvertire che fino a quando non ritornerà il titolare effettivo della parrocchia nessuno andrà più in chiesa».
Il vecchio Vescovo allargo le braccia.
«Figlioli» esclamò «vi rendete conto della gravita di quanto state dicendo? Questa e una coercizione.»
«Nossignore» spiego Peppone «noi non coerciamo nessuno perché tutti staranno a casa per conto loro, e nessuna legge li obbliga ad andare in chiesa. È un semplice esercizio della liberta democratica. Perche gli unici che possono giudicare se un sacerdote va bene o no siamo noi, che lo abbiamo sulle costole quasi da vent'anni.»
«Vox populi vox Dei» sospirò il vecchio Vescovo. « Sia fatta la volontà di Dio. Riprendetevi pure il vostro cattivo soggetto. Pero non venite poi a lagnarvi che e un prepotente!»
Peppone rise.
«Eminenza! Le smargiassate dei bulli tipo don Camillo non ci impressionano certamente. L'altra volta si e fatto così per una semplice precauzione di carattere sociale e politico, per evitare che il pellerossa gli tirasse una bomba in testa.»
«Pellerossa sarai tu!» rimbecco risentito Gigotto, l'uomo cui don Camillo aveva tinto la faccia con l'anilina e cui aveva fatto vento con la panca. «Io non gli volevo tirare bombe. Io gli ho tirato semplicemente un petardo davanti a casa per fargli capire che io non ero disposto a lasciarmi prendere a pancate in testa, anche se lui era il reverendo arciprete.»
«Ah, sei stato tu, figliolo, a lanciare il petardo?» chiese con indifferenza il vecchio Vescovo.
«Be', Eccellenza» borbottò Gigotto «lei sa com'è. Quando uno si e preso una pancata in testa gli scappa facile qualche fesseria.»
«Capisco perfettamente» rispose il Vescovo, che era vecchio e sapeva prendere la gente per il verso giusto.

da Così parlò Bellavista - Luciano de Crescenzo

da Così parlò Bellavista - Luciano de Crescenzo
 
E va bene dice il dottor Passalacqua e allora adesso per fare contento Salvatore andiamo tutti a votare Partito Comunista Italiano, cosi Salvatore in caso di guerra può andare a fare il prigioniero a Miami Beach. Ma che c entra, io prima ho voluto fare solo una battuta, il fatto vero è che voi, carissimo dottore, siete un poco allergico alla parola comunista e come sentite comunista subito vi appicciate. Ecco questa è la verità dottò: come sentite comunista subito vi appicciate. Salvatò io già un altra volta te l ho detto che con te di politica mi rifiuto di parlare risponde Passalacqua. E per forza, voi siete un aristocratico liberale e siccome io rappresento il popolo, voi con il popolo non ci volete parlare. Invece tu il popolo lo ami. Non è vero Salvatò? Diciamo che non ne sono propriamente innamorato, però sicuramente lo rispetto più di voi liberali. Salvatore bello, la verità è che voi comunisti dite di amare il popolo ed invece secondo me altro non sapete fare che odiare i ricchi. E no dottore mio, scusate se vi contraddico, adesso figuratevi se con tutto il da fare che tengo dalla mattina alla sera per guadagnarmi un poco di pane, mo mi metto pure ad odiare. Ecco la demagogia, ecco la demagogia! Dove sta? chiede Salvatore guardandosi intorno. Salvatore sa benissimo cos è la demagogia, sennonché si diverte a recitare la parte di quello che non lo sa. Dove sta che cosa? chiede Passalacqua. La cosa che avete detto voi. Salvatò, ho detto la demagogia perché voi comunisti questo sapete dire: un poco di pane, un tozzo di pane, pane e lavoro e via discorrendo. E allora che dovrei dire? Che io mò mi lavo ogni giorno cinque piani di scale per un poco di aragosta! Salvatò, a prescindere che tu le scale non le lavi mai, nemmeno una volta al mese, e che il V piano non sai neanche come è fatto, io volevo dire che i comunisti sono sempre pronti a cantare il solito ritornello: quello del popolo che si muore di fame. Oggi Salvatò, guardiamoci bene in faccia, qua in Italia non si muore più di fame nessuno. A voi liberali invece piacerebbe incontrare per strada ogni tanto qualche morto. Salvatò, siamo seri. Io sono un tecnico e credo nei numeri, credo nella statistica. Tu sai che cosa è la statistica? Approssimativamente, datosi che non ho mai esagerato nello studio. Dunque dottò se ho ben capito, correggetemi se sbaglio, supponendo che mi mettessero con il didietro in un forno e con la testa in un frigorifero, io dovrei dire di stare statisticamente bene. Risata generale di tutti i presenti. Ormai la platea è aumentata di numero. A Napoli si forma per germinazione spontanea, senza bisogno di inviti particolari. La partecipazione è imparziale ed i consensi vanno elargiti più per l abilita degli oratori che non per le loro idee. Salvatore è comunista e sostiene di aver partecipato alle quattro giornate di Napoli, malgrado che in quell epoca avesse solo otto anni. Passalacqua invece si qualifica liberale, pur essendo inconsciamente monarchico-fascista, però in senso buono Salvatò, ti voglio bene ma tu mi devi seguire si spazientisce il dottor Passalacqua qua stiamo cercando di fare un discorso costruttivo e tu m interrompi per fare dello spirito. Ma che dice la statistica dottò? chiede il signore dell appartamento. Dunque la statistica, la statistica dice che l Italia ha un reddito procapite, che poi sarebbe come dire a testa, di lire all anno per abitante, e che quindi l Italia è una delle nazioni più ricche del mondo. Dottore illustrissimo, dice Salvatore alzandosi sull attenti ed inchinandosi a ringraziare vi ringrazio per avermi fatto sapere che io, in qualità di cittadino italiano, sono uno degli uomini più ricchi del mondo e vi giuro quanto è certo Iddio che non me ne ero proprio accorto, anche perché momentaneamente, nelle vesti di vicesostituto portiere, guadagno solo lire al mese, gentilmente concesse dal mio datore di lavoro Ferdinando Amodio, che sta seduto qua fuori e che mi sente. Però giustamente voi mi ricordate che in compenso ci sta don Giovannino Agnelli che si alza un miliardo al mese e che quindi statisticamente stiamo tutti a posto: io, Agnelli e Ferdinando. Ecco qua e io qua ti volevo! grida esultante il dottor Passalacqua. Lo sapevo che avresti tirato in ballo la sperequazione del reddito, ma se hai un poco di pazienza, carissimo Salvatore, alla fine dovrai darmi ragione. Dunque la statistica, la statistica dice pure che in Italia si consumano per mangiare ogni giorno 3200 calorie per abitante, mentre per vivere, e vivere bene, ne bastano anche E qua non mi puoi più venire a raccontare che don Giovannino Agnelli si siede a tavola a mezzogiorno e si scende 800 o 900 mila calorie: sì siamo d accordo che mangerà caviale, aragoste, quello che cacchio vuoi tu, ma sempre uno stomaco come il tuo dovrà riempire. E allora dovrai convenire che, se la statistica dice che in Italia si consumano 3200 calorie a testa al giorno, qualcuno queste calorie se le deve pure mangiare e che quindi in Italia non si muore più di fame nessuno. Vedete dottò, voi avete la laurea e siete informato meglio di me su tutti questi numeri. Io non mi permetterei mai di dire che ve li state inventando in questo momento, però che vi debbo rispondere? se le cose stanno come avete detto voi e allora vuol dire che quelle 3200 calorie mie sono la schifezza della schifezza delle calorie consumate in Italia. E sì, perché altrimenti non si spiegherebbe come io ogni sera quando mi vado a coricare resto sempre con un poco di appetito. La statistica, la statistica dice ancora continua imperterrito il dottor Passalacqua che siccome in Italia circolano quasi quindici milioni di autoveicoli, ogni famiglia italiana mediamente tiene la macchina. Ed io mediamente non la tengo risponde Salvatore. Anche in questo caso non mi puoi venire a raccontare che don Giovannino Agnelli, quando esce per fare la spesa e va a comperarsi quelle novecentomila calorie di cui ha bisogno per farsi uno spuntino a mezzogiorno, se ne esce con diecimila automobili una dietro l altra Il guaio è, dottore stimatissimo, che voi misurate tutto ad automobili e panzarotti (crocchette di patate). Il guaio è, Salvatore egregio, che a te piace piangere come le gatte sui tetti, che come ben sai piangono e fanno all amore contemporaneamente E va bene, allora vuol dire che da questo momento non piangerò più. Farò il vicesostituto portiere senza diritto al lamento. Ebbè mannaggia la morte! Io quando parlo con i comunisti mi attacco sempre i nervi dice il dottor Passalacqua rivolgendosi ai presenti per avere comprensione. Vi giuro che vorrei essere il padrone del mondo per cinque minuti solamente! Direi: tu Coppola Salvatore che dici? Che il comunismo è una bella cosa? Ti piace la Russia? Ti piace la Cina? Ed io ti voglio fare contento. Piglio e ti faccio vivere in Cina, vuol dire che prendo un cinese che si è scocciato della Cina e lo mando a Napoli al posto tuo. E qua ci manca solo il vicesostituto portiere cinese e poi siamo a posto. Insomma io voglio dire questo, che prima di dire: viva Mao! Viva il comunismo! uno lo dovrebbe provare questo comunismo dice Passalacqua. Ed io sono d accordo con voi risponde Salvatore. Finora abbiamo provato il fascismo e la democrazia cristiana, proviamo un poco anche il comunismo e poi dopo ne parliamo. Il guaio è che se poi non ci piace questo comunismo non è che possiamo dire: Scusate tanto ma abbiamo scherzato, vogliamo tornare alla democrazia dice Passalacqua. Ma dico io, immaginatevi per un momento che io non fossi ancora nato: ecco qua, sono un nascituro al nono mese di gestazione e mi trovo ancora nella pancia di mamma mia in attesa di nascere,

da Il tempo di uccidere - Ennio Flaiano

da Il tempo di uccidere - Ennio Flaiano

Stavo leggendo allorché vidi Johannes: anch’egli s’era seduto sul ciglio. Guardava la valle. Era la prima volta che lo vedevo attento a guardare la valle e ne fui sorpreso. Stimavo Johannes insensibile ai panorami e forse incapace di vederli; il suo occhio elementare non era certo uso a coordinare quei vari elementi sino a farne un quadro degno di attenzione. Egli poteva vedere un albero, una capanna, l’altopiano, il fiume, la boscaglia, ma non certo considerarli parte di un paesaggio. La sua visione utilitaria sfrondava il superfluo, e invece ora guardava la valle e mi accorgevo che la vedeva tutta e che il suo sguardo si fermava lentamente su tutte le cose, considerandole. Un pittore non avrebbe guardato diversamente.
A volte strizzava gli occhi o inclinava il busto, ma subito riprendeva la sua immobilità. Ne fui talmente turbato che, quando Johannes si volse a guardarmi scuotendo il capo, non seppi fare il minimo gesto e nemmeno staccargli di dosso lo sguardo. Di colpo pensai che dovevo chiedergli di Mariam, se davvero era malata. Colsi l’occasione quando Johannes, volgendo gli occhi, li posò sulla mia persona, considerandola, suppongo, parte del paesaggio. Gli dissi che mi piaceva quel luogo, e poiché non rispondeva (sì, avevo sopravvalutato il suo giudizio estetico), gli chiesi se ci viveva da molto tempo.
“Da un anno” e fece un gesto, quasi volesse gettarsi dietro le spalle il ricordo del tempo trascorso e ormai inutile.
“E con te viveva molta gente?”
“Eravamo in nove” rispose. Lasciai trascorrere il silenzio, un silenzio che avrebbe dissipato la diffidenza di Johannes, e poi con noncuranza chiesi: “Quante donne?”.
Johannes non staccò gli occhi dalla valle e disse: “Due”.
Temetti che, se non avessi parlato subito, Johannes avrebbe capito lo scopo di quel discorso. S’era incantato a guardare la valle e daccapo mi sembrava che la vedesse.
Chiesi: “Uccise anche loro?”.
“Sì, uccise” disse.
“Dunque, nessuna si è salvata?”
“Nessuna.”
Mi sedetti vicino a Johannes, scuotendo il capo, per fargli sentire la mia simpatia. Poi esitando, perché lo sentivo sperduto in quella sua insolita contemplazione, dissi: “Elias mi parlava spesso di una giovane, di una certa Mariam”. Dissi il nome con facilità, come si dice il nome di una persona molto familiare. E aggiunsi: “Non era di questo villaggio? “.
Johannes mi guardò appena: “No,” disse “non era di questo villaggio”.
Perché negava così palesemente? Forse gli doleva ammettere ciò ch’egli supponeva: che Mariam era fuggita prima del massacro, senza dir nulla, per andarsene sull’altopiano, verso la bella vita. Rivedevo Johannes nelle strade della cittadina, fermo sulle soglie ospitali, e ricordavo i suoi occhi che frugavano nel buio della stanza. “Curioso,” dissi “credevo che fosse di questo villaggio, perché Elias me ne parlava sempre, e...”
“Non era di questo villaggio” interruppe Johannes con voce talmente calma da non lasciar supporre una finzione. Se avesse detto la verità? Forse la sua permanenza nella cittadina e il suo inutile girovagare nelle case ospitali aveva avuto un altro scopo, non immaginavo quale, ma uno scopo molto diverso.
Forse Elias incontrava spesso Mariam (che abitava nel villaggio “della gallina”), e quegli incontri erano bastati a fargli credere ciò che non era. Aveva detto di essere suo fratello? Bene, ma qui sono tutti fratelli. Non si accostano le sorelle per offrirti la loro timida complicità? Oppure Elias aveva mentito, innocentemente, come mentono i bambini.
“Forse era di un villaggio vicino?” chiesi.
“Non lo so” rispose Johannes. Subito aggiunse: “Non la conoscevo”.
Era difficile capirci qualcosa nello sguardo del vecchio. Ora guardava la valle e la sua menzogna mi stava dando una nuova calma. Potevo persino credere che Mariam. non fosse mai esistita.
Il vecchio non sospettò nemmeno quanta calma mi davano le sue menzogne che quasi mi assolvevano. Se egli negava l’esistenza di Mariam, anch’io potevo negarla. Restavano, sì, le due piaghe. Tuttavia, che Mariam avesse cessato di esistere, benché la menzogna del vecchio fosse palese, era per me un sollievo. Ma ero daccapo. Non avrei saputo mai nulla di lei, se non che aveva paura dei coccodrilli, che talvolta cantava (e potevo immaginarmi le sue malinconiche nenie guardando quel paesaggio), e che rideva anche, come aveva riso quella notte tra le mie braccia. E io restavo al villaggio, a scontare la pena per lei, a quattro passi dalla sua tomba, vicino ad altre tombe, aspettando (ma senza fretta: venti, trenta, sessanta anni) di avere una tomba tutta per me. Per ora avevo un tugurio e le mie piaghe: l’indispensabile per cominciare.

da Ode a Lenin VI – Pablo Neruda

da Ode a Lenin – Pablo Neruda

VI
Lenin, uomo terrestre,
la tua figlia è arrivata al cielo.
La tua mano
muove adesso
chiare costellazioni.
La stessa mano
che firmò decreti
sul pane e sulla terra
per il popolo,
la stessa mano
si trasformò in pianeta:
l’uomo che tu facesti mi costruì una stella.

da Ode a Lenin IX – Pablo Neruda

da Ode a Lenin – Pablo Neruda

IX
Grazie, Lenin,
per l’energia e l’insegnamento,
grazie per la fermezza,
grazie per Leningrado e le steppe,
grazie per la battaglia e per la pace,
grazie per il frumento infinito,
grazie per le scuole,
grazie per i tuoi piccoli
titanici soldati,
grazie per quest’aria che respiro sulla terra
che non assomiglia ad altra aria:
è spazio fragrante,
è elettricità di energiche montagne.

Grazie, Lenin,
per l'aria ed il pane e la speranza

da Ode a Lenin VIII – Pablo Neruda

Isaak-Brodsky -Vladimir Ilic Lenin e manifestazione 1919, Olio su tela 90x135 cm, Museo Storico di Stato
da Ode a Lenin – Pablo Neruda

VIII
Lenin, grazie ti affidiamo i lontani.
Da allora, dalle tue decisioni,
dai tuoi passi rapidi e dai tuoi rapidi occhi
non sono soli i popoli
nella lotta per l’allegria.
L’immensa patria dura,
quella che sostenne l’assedio,
la guerra, la minaccia,
è torre irremovibile.
E non possono ucciderla.
E così vivono gli uomini
un’altra vita,
e mangiano altro pane
con speranza,
perché nel centro della terra esiste
la figlia di Lenin, chiara e determinante.

da Ode a Lenin VII – Pablo Neruda

Khitrikov Vasily Pimenovich - Lenin and the youth, olio su tela, cm 200-210 
da Ode a Lenin – Pablo Neruda

VII
Tutto è cambiato, ma
fu duro il tempo
e aspri i giorni.
Durante quaranta anni ulularono
i lupi vicini alle frontiere:
Volevano abbattere la statua viva,
volevano ardere i suoi occhi verdi,
per fame e fuoco
e gas e morte
volevano che morisse
tua figlia, Lenin,
la vittoria,
la estesa, ferma, dolce, forte e alta
Unione Sovietica.

Non poterono.
Mancò il pane, il carbone,
mancò la vita,
dal cielo cadde pioggia, neve, sangue,
sopra le povere case incendiate,
ma tra il fumo
e la luce del fuoco
i popoli più remoti videro la statua viva
difendersi e crescere crescere crescere
finché il suo valoroso cuore
si trasformò in metallo invulnerabile.

da Ode a Lenin II – Pablo Neruda

Gavdzinskaya Elena Albinovna - Lenin presso le mura del Cremlino 1988, 140x190 cm
da Ode a Lenin – Pablo Neruda

II
Attenti a confonderlo con un freddo ingegnere.
Attenti a confonderlo con un mistico ardente.
La sua intelligenza arse senza essere mai ceneri,
la morte non ha gelato ancora il suo cuore di fuoco.

da Ode a Lenin – Pablo Neruda

Aleksandr Michajlovič Gerasimov - Lenin sulla tribuna» realizzato nel 1930
da Ode a Lenin – Pablo Neruda

La rivoluzione ha 40 anni.
Ha l’età di una giovane matura.
Ha l’età delle madri belle.

Quando nacque,
nel mondo
la notizia si seppe
in modo differente.

- Che cosa è questo? – si domandavano i vescovi –
se ha spostato la terra
noi potremo continuare a vendere cielo.
I governi dell’Europa,
dell’America oltraggiata,
i dittatori torbidi,
leggevano in silenzio
le allarmanti comunicazioni.
Per soffici, per profonde
scale
arrivava un telegramma,
come arriva la febbre
nel termometro:
non c’erano dubbi,
il popolo aveva vinto,
si trasformava il mondo.

da Ode a Lenin I – Pablo Neruda

the Kukryniksy Group (Mikhail Kupriyanov, Porfiry Krylov, and Nikolai Sokolov) - Lenin in Razliv, summer 1917. Oil on canvas, 1949
da Ode a Lenin – Pablo Neruda

I
Lenin, per cantarti
devo dire addio alle parole;
devo scrivere con alberi, con ruote,
con aratri, con cereali.
Sei concreto come
i fatti e la terra.
Non esistette mai
un uomo più terrestre
di V. Ulianov.
Ci sono altri uomini alti
che come le chiese si abituano
a conversare con le nubi,
sono alti uomini solitari.

Lenin sostenne un patto con la terra.

Vide più lontano che nessuno.
Gli uomini,
i fiumi, le colline,
le steppe,
erano un libro aperto
e li leggeva,
leggeva più lontano di tutti,
più chiaramente che nessuno.
Egli guardava profondo
nel paese, nell’uomo,
guardava l’uomo come in un pozzo,
lo esaminava come
se fosse un minerale sconosciuto
che avesse scoperto.
Bisognava estrarre le acque dal pozzo,
bisognava elevare la luce dinamica,
il tesoro segreto
dei paesi,
perché tutto geminasse e nascesse,
per essere degni del tempo e della terra.

da Ode a Lenin IV – Pablo Neruda

Vladimir Aleksandrovich Serov - Vladimir Lenin, olio su tela, 1950
da Ode a Lenin – Pablo Neruda

IV
Furono alcuni uomini soltanto studio,
libro profondo, appassionata scienza,
ed altri uomini possedettero
come virtù dell’anima il movimento.
Lenin possedette due ali:
il movimento e la saggezza.
Creò nel pensiero,
decifrò gli enigmi,
ruppe le maschere
della verità e dell’uomo
ed era da tutte le parti,
era al medesimo tempo da tutte le parti.