31 agosto 2017

da Afrodita - Isabel Allende

opera di Fernando Botero
da Afrodita - Isabel Allende
(…)
Lola Montez (1821-18619), la celebre cortigiana ai cui piedi teste coronate e banchieri lasciarono immense fortune, inventò una danza della tarantola sui generis grazie alla quale poteva far impazzire di smania e di desiderio gli spettatori. Si faceva passare per un’aristocratica ballerina spagnola, anche se di danza non sapeva nulla e di spagnolo non aveva niente, ma quello che le mancava in talento e in sangue lo compensava con la spigliatezza. Grazie alla furia delle sue nacchere, alla veemenza dei suoi tacchi e alla malia delle sue bugie si costruì la propria leggenda. (Perché mi identifico con questa signora?) In privato, Lola Montez generalmente utilizzava i furori della tarantola come pretesto per spogliarsi dei veli, e tuttavia non commetteva mai l’errore di rimanere completamente nuda; preferiva far brillare le sue bellezze tra nubi di pizzo che esaltassero la sua pelle e dissimulasse le imperfezioni del suo corpo. Nelle rappresentazioni erotiche giapponesi, i personaggi appaiono sempre splendidamente abbigliati con vestiti di gala per fare l’amore. Nel linguaggio simbolico di quei quadri le pieghe voluttuose delle tuniche indicano passione, i fiori e i frutti rappresentano gli organi sessuali e le dita dei piedi rivolte all’insù l’orgasmo. In India le donne non si levano mai i gioielli e non si tolgono il kohl dalle palpebre, perché il tintinnare dei braccialetti e l’oscuro richiamo dello sguardo irretiscono l’uomo nell’attrazione ineffabile del mistero. Mio nonno, che nacque quando per le strade di Santiago non c’era ancora la luce elettrica e i trasporti pubblici erano costituiti da tram trainati da cavalli – carri di sangue erano chiamati –, non venne minimamente turbato dalla moda della minigonna, mentre già anziano, all’epoca degli hippy, era disposto a prodursi in agili capriole pur di intravedere una caviglia femminile che facesse capolino da una lunga gonna. Più che dalla nudità, sosteneva, la tentazione è provocata dalla trasparenza e da ciò che si può intuire. E’ questa la chiave del successo della lingerie provocante che non passerà mai di moda (…)
Anche il cibo entra dagli occhi. La freschezza degli ingredienti naturali dovrebbe essere sufficiente, ma l’instancabile inventiva umana cucina, mescola, trasforma e decora gli alimenti con la stessa passione con cui cura la persona. L’associazione tra forme e colori dei cibi e del corpo è inevitabile. Un affiche francese d’inizio secolo che adornava quasi tutti i bagni maschili mostrava una ragazza intenta a succhiare asparagi con una tale sensualità che solo a un ingenuo poteva sfuggire l’esplicita allusione. Panchita, che decora la tavola con la stessa civetteria che caratterizza il suo abbigliamento, sostiene che il colore della cena è importante: a meno che non si cerchi un effetto determinato, non si può servire una zuppa di piselli se anche il secondo è verde. Una volta, a Milano, fui invitata a cena da una famosa stilista. Sulle pareti della sala da pranzo rivestite da specchi scuri si riflettevano le sedie e la tovaglia nere; su quello sfondo cupo risaltavano magistralmente e con grande luminosità i fiori e i tovaglioli gialli. Venne servito un buffet di riso con diverse varietà di curry su tonalità zafferano; perfino il dolce – un delizioso mango flambé – era dello stesso colore (…)

preferisco alimenti allo stato naturale ed è così che mi piacciono anche gli uomini. Diffido degli ornamenti inutili, degli uomini con catene d’oro, baffi leziosi e unghie smaltate come pure il pollo da una salsa impenetrabile o dei petali di fiori che navigano in una zuppa, ma ogni tanto inventare è divertente: asparagi lunghi e forti con due patate novelle alla base, due mezze pesche con capezzoli di lampone su un letto di crema chantilly. Agli innamorati disposti a perdere tempo su questi dettagli raccomando di munirsi di candele a forma di mele, cuore o Cupido, di una lunga tovaglia di sontuoso satin, di stoviglie evocative (ne ho un servizio che riproduce gli affreschi erotici di Pompei)
(…)
E dato che si parla di gelatina, non so resistere alla tentazione di citare i seguenti versi:

Oh incanto della cicciona
Gamba di grandezza elefantina
Che al grasso si abbandona
Oh maestà divina
Della coscia avvolta in gelatina
Evviva le adipose adoratrici
dello sforzo nullo
che lasciano le odiose fatiche al mulo
e mangiano tutto ciò che ingrossa il culo.
 dall’Inno alla cellulite di Enrique Serna

Chiedo scusa, sto di nuovo delirando. L’aspetto della tavola, il sapore del cibo e l’abbondanza e la qualità dei liquori determinano l’animo dei commensali. Nel Pranzo di Babette, quel commovente film tratto da un racconto di Karen Blixen, la cinepresa va e viene per la cucina, in cui si preparano amorevolmente i piatti, e la sala da pranzo, là dove i visi severi degli spartani abitanti di un mondo distante e gelato si trasformano a mano a mano che il vino e le pietanze si impadroniscono dei loro sensi. Nel Fascino discreto della borghesia, Luis Bunuel crea un’atmosfera di ansia crescente mostrando tavoli apparecchiati con splendide stoviglie e cristalleria che gli attori non riescono mai a toccare perché vengono sempre interrotti.


21 agosto 2017

Andromaca. Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco

Peter Paul Rubens - Achille trafigge Ettore
Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco
Andromaca
(…)
Achille lo guardò con odio. "Ettore, dannato, non farò patti con te. Non fanno patti uomini e leoni, lupi e agnelli: la loro discordia è per sempre. Pensa piuttosto a combattere. E arrivato il momento di dimostrare se davvero sei il guerriero che credi. "Poi alzò la lancia, facendola oscillare nell'aria, e la scagliò con forza terribile. Ettore la vide arrivare, veloce si piegò da un lato, la punta di bronzo volò oltre le sue spalle, e andò a piantarsi nella terra. Allora non era vero che gli dei avevano già deciso tutto, e che già era scritto il nome del vincitore! Ettore strinse la sua lancia, la alzò sul capo, e la scagliò. La punta di bronzo centrò in pieno lo scudo
di Achille, ma quello era uno scudo divino, nulla avrebbe potuto schiantarlo, la punta di bronzo si conficcò proprio nel centro, ma lì si fermò. Ettore la guardò smarrito, e si voltò per chiedere a Deifobo un'altra lancia, con cui continuare a combattere. Si voltò, ma Deifobo non era più lì. Se n'era scappato dentro la città, la paura alla fine se l'era portato via. Allora Ettore capì che il suo destino l'aveva alla fine raggiunto. E poiché era un eroe, estrasse la spada, per morire combattendo, per morire in un modo che tutti gli uomini a venire avrebbero per sempre raccontato. Prese lo slancio, come un'aquila avida di piombare sulla preda. Di fronte a lui Achille si raccolse nello splendore delle sue armi. Si balzarono addosso, come due leoni. La punta di bronzo della lancia di Achille avanzava come avanza brillando la stella della sera nel cielo notturno. Cercava un punto scoperto tra le armi di Ettore, le armi che un giorno erano state di Achille, e poi di Patroclo. Cercava tra il bronzo la fessura per arrivare alla carne e alla vita. La trovò nel punto in cui il collo si appoggiava alla spalla, il tenero collo del mio amato: penetrò nella gola e la trapassò da parte a parte. Cadde nella polvere, Ettore. Guardò Achille e con l'ultimo soffio di vita gli disse: "Ti supplico, non abbandonarmi ai cani, restituisci il mio corpo a mio padre". Ma duro oltre ogni speranza era il cuore di Achille. "Non supplicarmi, Ettore. Troppo è il male che mi hai fatto, è già tanto che non ti faccia a pezzi e non ti sbrani io stesso. Patroclo, lui sì, avrà tutti gli onori funebri che merita. Tu meriti che i cani e gli uccelli ti divorino, lontano dal tuo letto, e dalle lacrime di chi ti ha amato." Ettore chiuse gli occhi, e la morte lo avvolse. Volò via, l'anima, verso l'Ade, piangendo il suo destino, e la forza e la giovinezza perdute.
Achille estrasse la lancia dal corpo di Ettore. Poi si chinò a sfilargli le armi. Tutti gli Achei corsero a guardare, da vicino. Per la prima volta vedevano quel corpo nudo, senza armi. Erano ammirati per la sua bellezza, eppure non uno resistette alla tentazione di colpirlo, con la spada, con la lancia. Ridevano. "Certo è molto più morbido adesso, Ettore, di quando dava fuoco alle nostre navi." Ridevano e lo colpivano. Finché Achille non li fece smettere. Si chinò su Ettore, e con un coltello forò le sue caviglie, proprio sotto il malleolo. Dal foro fece passare delle cinghie di cuoio e le annodò saldamente al suo carro. Fece in modo che il corpo penzolasse, con la testa tra la polvere. Poi prese con sé le armi di Ettore, il suo trofeo, e salì sul carro. Frustò i cavalli e quelli presero il volo. Trascinato nella terra, il corpo di Ettore sollevava una nuvola nera di polvere e sangue. Era così bello il tuo volto. E adesso striscia nella terra, coi bei capelli bruni che, strappati, volano nella polvere. Eravamo nati lontani, noi due, tu a Troia io a Tebe, ma un solo destino ci aspettava. Ed è stato un destino infelice. Adesso mi lasci vedova nella tua casa, immersa nel più tremendo dolore. Il figlio che abbiamo avuto insieme è ancora così piccolo: non potrai più aiutarlo, e lui non potrà aiutare te. Se mai sopravviverà a questa guerra, per sempre gli saranno accanto pena e dolore, perché chi non ha un padre perde gli amici, e con fatica difende i suoi averi. A occhi bassi, il volto rigato di lacrime, andrà a tirare il mantello di altri padri, per avere protezione, e qualcuno magari avrà uno sguardo di pietà per lui, ma sarà come bagnare le labbra a un assetato. E sì che i Troiani lo chiamavano "il signore della città", questo bambino, perché era figlio tuo, e tu eri colui che, quella città, da solo difendeva. Ettore... Il destino ti ha fatto morire lontano da me, e questo sarà per sempre il mio dolore più grande: perché non ho avuto per me le tue ultime parole: le avrei tenute strette e le avrei ricordate per tutta la vita: ogni giorno e ogni notte della mia vita. Sotto le navi nere, adesso, sei preda dei vermi e il tuo corpo nudo, che tanto amavo, fa da pasto ai cani. Tuniche bellissime e ricche, tessute da mano di donna, ti aspettavano qui. Andrò nella reggia, le prenderò e le getterò nel fuoco. Se questa è l'unica pira che posso fare in tuo onore, la farò. Per la tua gloria, davanti a
tutti gli uomini e le donne di Troia.

Andromaca. Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco

Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco
Andromaca
Si rifugiavano nella città come cerbiatti atterriti. Priamo aveva fatto spalancare le porte Scee, e loro entravano di corsa e di corsa salivano sugli spalti, ancora coperti di sudore, arsi dalla sete, e contro i parapetti si schiacciavano per guardare giù, nella pianura. A migliaia trovarono salvezza nel ventre della città. Solo uno rimase fuori dalle porte, inchiodato dal suo destino. Ed era l'uomo che amavo, e il padre di mio figlio. Da lontano arrivò Achille correndo, davanti ai suoi guerrieri, veloce come un cavallo vittorioso, splendente come una stella, fulgido come un presagio di morte. Lo riconobbe, Priamo, dall'alto della torre, e capì. Non riuscì a trattenersi e si mise a piangere, il vecchio, grande re, davanti a tutti, battendosi le mani sul capo e mormorando "Ettore, figlio mio, vattene via da lì. Achille è troppo forte per te, non affrontarlo da solo. Lo vedi, sta uccidendo i miei figli uno ad uno, quell'uomo, non farti uccidere anche tu, salva la tua vita e, vivo, salva i Troiani. Io non voglio morire trafitto da una lancia, il giorno in cui la nostra città sarà presa. Non voglio vedere i miei figli uccisi, le mie figlie prese come schiave, i letti nuziali devastati, i bambini buttati nella polvere in mezzo al massacro. Io non voglio finire nella polvere, ed essere sbranato dai cani che fino al giorno prima nutrivo con gli avanzi della mia tavola. Tu, Ettore, tu sei giovane, i giovani sono belli nella morte, in qualunque morte, tu non devi vergognarti di morire, ma io... pensa a un vecchio, e a quei cani che si chinano su di lui e gli divorano il cranio, e gli strappano il sesso, e gli bevono il sangue. Pensa ai capelli bianchi, alla pelle bianca, pensa ai cani che poi, sazi, si vanno a sdraiare sotto il portico... Io sono troppo vecchio, Ettore, per morire così. Fammi morire in pace, figlio mio".
Piangeva, il grande re. E piangeva Ecuba, regina e madre. Si era aperta la veste, davanti, e, col seno scoperto, supplicava il figlio di ricordarsi quando a quel seno lui correva per consolare il suo pianto di bambino: voleva che adesso di nuovo lui corresse da lei, come un tempo, invece di farsi ammazzare là, fuori dalle mura, da un uomo crudele che non avrebbe avuto pietà di lui. Ma Ettore non la ascoltava. Rimaneva fermo, appoggiato alle mura, ad aspettare Achille, come un serpente, gonfio di veleno, aspetta l'uomo, davanti alla propria tana. In cuor suo rimpiangeva i tanti eroi morti in quel giorno di guerra, e sapeva di averli uccisi lui quando si era rifiutato di ritirare l'esercito davanti al ritorno di Achille. Li aveva traditi, e adesso l'unica cosa da fare era riconquistare l'amore del suo popolo sfidando quell'uomo. Forse pensò per un attimo di posare le armi e mettere fine alla guerra, restituendo Elena e tutte le sue ricchezze, e altre ancora. Ma sapeva che ormai nulla avrebbe fermato Achille, se non la vendetta. Lo vide arrivare di corsa, splendente nelle sue armi come un sole che sorge. Lo vide fermarsi, di fronte a lui, la lancia sollevata sulla spalla destra, terribile come mai un uomo potrebbe apparire, ma solo un dio, il dio della guerra. E il terrore gli prese il cuore. Si mise a scappare, Ettore, correndo lungo le mura, più veloce che poteva. Come un falco, Achille gli si lanciò dietro, furente. Per tre volte girarono intorno a Troia, come cavalli scatenati in una corsa: ma quella volta, in palio, non c'erano oro, o schiavi, o ricchezze: la vita di Ettore era il premio. E quando ripassavano davanti alle porte Scee, ogni volta Achille si faceva sotto e tagliava la strada a Ettore, spingendolo verso la pianura, per impedirgli di scappare in città. E così ricominciavano a correre: era come nei sogni, quando inseguiamo qualcuno e non riusciamo a raggiungerlo, ma neppure lui riesce a fuggire davvero, e può durare tutta la notte. Durò fino a quando, dalle porte Scee, uscì Deifobo e veloce corse al fianco di Ettore dicendogli "Fratello mio, in questo modo Achille ti sfinirà, fermati, e lo affronteremo insieme". Ettore lo guardò e gli si spalancò il cuore. "Deifobo, amato fratello, tu solo mi hai visto e hai avuto il coraggio di uscire dalle mura e venirmi in aiuto." "Non mi volevano lasciare, il padre e la madre", disse Deifobo. "Ma io non potevo resistere, era troppa l'angoscia, e adesso sono qui, al tuo fianco. Fermiamoci e combattiamo insieme: il destino deciderà se a vincere saremo noi o Achille. "Così quel sogno strano finì. Smise di fuggire, Ettore. Si fermò, Achille. Lentamente andarono uno incontro all'altro. Il primo a parlare fu Ettore: "Non scapperò più davanti a te, Achille. Adesso ho ritrovato il coraggio di starti di fronte. Tu però giurami che se vincerai prenderai le mie armi ma non il mio corpo. Lo stesso io farò con te".
(…)

Il fiume. Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco

Auguste Couder - Water, or the Fight of Achilles against Scamander and Simoeis

Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco
Il fiume.
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Terrorizzati, i Troiani fuggivano nei campi. E quando mi videro, in mezzo alla pianura, come animali che fuggono da un incendio nelle mie acque si gettarono per cercare salvezza. Achille arrivò fino alle mie rive, poi posò la lancia per terra, e, sguainata la spada, si buttò, anche lui, nell'acqua. Si mise a uccidere tutto quel che gli capitava a tiro. Sentivo gemiti e dolore ovunque, mentre le mie acque si coloravano di sangue. Vidi Achille prendere uno a uno, dodici giovani, fra i Troiani, e invece di ammazzarli, portarli a riva,uno ad uno, e farli prigionieri, per sacrificarli davanti al cadavere di Patroclo: come cerbiatti spauriti, li tolse fuori dall'acqua, uno ad uno, per
ammazzarli sotto le navi nere. Poi si voltò per ributtarsi nella calca, per continuare la strage. Era ancora sulla riva quando si trovò davanti Licaone: era un ragazzo, e suo padre Priamo l'aveva appena riscattato dalla prigionia: da poco era tornato in battaglia. Adesso era lì, senza armi, aveva buttato via tutto, per riuscire ad attraversare il fiume, ed era lì, nudo, e terrorizzato. "Cosa vedono i miei occhi?", disse Achille. "Già una volta ti ho incontrato in battaglia e ti ho preso vivo, per venderti come schiavo a Lemno. E adesso ti ritrovo qui. Sta' a vedere che i Troiani che ho spedito all'inferno si son messi a tornare indietro. Ma questa volta non tornerai più, Licaone." alzò la lancia e fece per colpirlo. Ma Licaone si buttò in ginocchio e la lancia gli sfiorò la schiena e si conficcò in terra. "Abbi pietà", si mise a piangere Licaone. "Sono appena tornato in battaglia, e di nuovo mi trovo davanti a te, perché gli dei mi odiano così? Abbi pietà, hai già ucciso mio fratello, Polidoro, risparmia me: tra i figli di Priamo è Ettore che tu vuoi." Ma Achille lo guardò con ferocia: "Sciagurato, a me parli di pietà? Prima che ammazzaste Patroclo, allora io avevo pietà, e tanti Troiani ho risparmiato. Ma adesso... Nessuno uscirà più vivo dalle mie mani. Smettila di piangere. E morto uno come Patroclo, che valeva molto più di te, perché non dovresti morire tu? E guarda me, come sono forte e bello, eppure morirò, ci sarà un'alba o un tramonto o un mezzogiorno che mi vedranno morire. E tu piangi per la tua morte?". Licaone abbassò il capo. Tese le braccia in avanti, in un'ultima supplica. Achille affondò la spada, fino all'elsa, nel suo corpo, dall'alto in basso, entrando proprio sotto la clavicola. Licaone crollò. Achille lo prese per un piede e lo trascinò nelle mie acque. "Non ti piangerà tua madre sul letto
funebre", disse. "Ma questo fiume ti porterò al mare a farti divorare dai pesci." Poi si mise a urlare. "Morirete tutti! Non vi salverà questo fiume, io vi inseguirò fin sotto le mura di Troia.
Morirete di mala morte e tutti pagherete quello che avete fatto a Patroclo." E di nuovo entrò nell'acqua e si mise ad ammazzare: Asteropeo, e Tersiloco, e Midone, e Astıpilo, e Mneso, e Trasèo, ed Enào, e Ofeleste. Era una mattanza. E allora io mi misi a gridare. "Lontano da me, Achille, va' lontano da me se vuoi continuare a uccidere. Smettila di riversare cadaveri nelle mie acque bellissime, io non avrò la forza di portarli tutti fino al mare. Mi fai orrore, Achille. Fermati o
vattene." E Achille mi rispose. "Me ne andrò quando li avrò uccisi tutti, fiume." Per questo io suscitai allora un'onda altissima, paurosa, che si sollevò in aria e poi si curvò sul suo scudo, e su di lui si rovesciò. Lo vidi che cercava qualcosa a cui aggrapparsi, c'era un olmo, sul bordo, grande e fiorente, lui si appese ai suoi rami, ma l'ondata si portò via anche l'albero, con le radici e tutto, precipitò nell'acqua, travolgendo anche lui. Allora Achille si alzò, con uno sforzo sovrumano, riuscì a venir fuori dai gorghi e a guadagnare la sponda, e cercò di scappare, nella pianura. E io anche lo inseguii. Oltre ogni argine, con le mie acque lo inseguii, dilagando tra i campi. Lui fuggiva e la grande onda che io ero diventato lo incalzava: e quando si fermava, e si voltava, io mi rovesciavo su di lui, e lui ancora trovava la terra sotto i piedi e ricominciava a correre, finché alla fine lo sentii gridare, il divino Achille, gridare "Madre! Madre! nessuno mi viene a salvare? perché allora mi hai detto che sarei morto sotto le mura di Troia? Mi avesse ucciso Ettore, almeno, che fra tutti è il più forte. Io sono un eroe, e un eroe mi deve uccidere. E invece è destino che io muoia di una morte così misera, travolto dal fiume come un qualsiasi miserabile guardiano di porci! ". Correva nell'acqua, con i cadaveri e le armi che galleggiavano e turbinavano tutt'intorno: con una forza divina, correva, ma io sapevo che non l'avrebbe salvato, la sua forza, né la sua bellezza, né le sue splendide armi, lui sarebbe finito in fondo alla palude, coperto di fango, e su di lui avrei versato sabbia e ghiaia, e per sempre, per sempre, sarei stato la sua impenetrabile tomba. Mi arrampicai nell'aria, in un'ultima enorme ondata, che se lo portasse via, ribollendo di schiuma, cadaveri e sangue. Poi vidi il fuoco. Dalla pianura, inspiegabile, magico, il fuoco. Un muro di fuoco che veniva verso di me. Bruciavano gli olmi, i salici, i tamarischi, bruciavano il loto e il giunco e il cupero, bruciavano i cadaveri e le armi e gli uomini. Mi fermai. Il fuoco mi raggiunse. Quel che nessuno aveva visto mai, tutti videro, quel giorno: un fiume in fiamme. L'acqua ribollire, i pesci guizzare terrorizzati tra i gorghi incandescenti. così avrei visto fuggire i Troiani, molte notti dopo, nell'incendio della loro città. Dal mio letto, tornato sconfitto alle mie correnti consuete, vidi Achille inseguire i Troiani fino alle mura di Ilio. Dall'alto di una torre, Priamo osservava la disfatta. Fece aprire le porte perché tutto il suo esercito trovasse rifugio nella città, e Ordinò di richiudere appena l'ultimo dei guerrieri fosse passato. Ma l'ultimo dei guerrieri era il più forte, è il suo figlio primogenito, è l'eroe che da quella porta non sarebbe entrato più.

Il fiume. Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco

Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco
Il fiume.
Avevo visto anni di guerra, perché un fiume non corre cieco in mezzo agli uomini. E per anni avevo udito lamenti, perché un fiume non corre sordo, dove gli uomini muoiono. Sempre impassibile avevo portato al mare i bagliori di quella faida feroce. Ma quel giorno, troppo fu il sangue, e la ferocia, e l'odio. Nel giorno della gloria di Achille io mi ribellai, disgustato. Se non avete paura delle favole, ascoltate questa.
Era l'alba, e davanti al muro degli Achei i due immensi eserciti si schierarono uno di fronte all'altro. Vidi lampeggiare le armi di bronzo, a migliaia, nella luce del primo sole. C'era Achille, davanti ai suoi, con le nuove armi, impressionanti, divine. E in prima fila, davanti ai Troiani, Enea, il figlio di Anchise. Si faceva avanti minaccioso scuotendo l'elmo possente e agitando la lancia di bronzo. Achille non aspettava altro. Con un balzo uscì dalle file dei suoi guerrieri, piazzandosi proprio di fronte ad Enea: schiumava rabbia come un leone ferito, e come un leone ferito aveva fame di vendetta e di sangue. iniziò a gridare. "Enea, cosa ti è venuto in mente, vuoi per caso sfidarmi? Cosa credi, che se vincerai Priamo ti darà la sua corona? Ha Ettore, lui, e tutti i suoi figli, non penserai che darà il suo potere a te? Vattene finché sei in tempo. Ci siamo già sfidati, noi due, e ti ricordi com'è andata: non la smettevi più di scappare. Fa' che scappare subito, questa volta: voltati e corri. E non girarti più indietro."
"Credi di spaventarmi, vero?", gli rispose Enea. "Ma io non sono un bambino, sono un eroe. C'è sangue nobile e divino nelle mie vene come nelle tue. E non ho voglia di stare qui a scambiare ingiurie con te, come se fossimo donnette che litigano, in mezzo alla strada, invece che eroi in mezzo alla mischia e alla carneficina. Smettila di parlare, Achille. E combatti."
Strinse in pugno la lancia e la scagliò. La punta di bronzo risuonò contro l'enorme, splendido scudo di Achille. Era stato fatto con maestria infinita. Due strati di bronzo, all'esterno, due strati di stagno, all'interno. E in mezzo, uno strato d'oro. Passò il bronzo, la lancia di Enea, ma nell'oro si fermò. Sollevò allora la sua lancia, Achille. Enea tese in avanti il braccio che reggeva lo scudo. La punta di bronzo volò rapida nell'aria, squarciò lo scudo, Passò di un soffio sopra la testa di Enea e andò a conficcarsi in terra, dietro di lui. Enea rimase impietrito dalla paura. Il colpo l'aveva mancato di un niente. Achille estrasse la spada. Gridando in modo orribile si gettò in avanti. Enea si sentì perduto. Prese tra le mani una grande pietra che trovò lì vicino. La Sollevò per difendersi. E io vidi Achille, d'improvviso, come accecato, perdere lo slancio, come se qualcosa accadesse dentro la sua testa, fino a fermarsi, smarrito, ruotava gli occhi intorno come se stesse cercando qualcosa che aveva perduto. Enea non stette molto a pensarci. Si voltò e si mise a correre fino a quando non sparì in mezzo ai Troiani. Così Achille, quando tornò in sé, si guardò intorno e non lo vide più. C'era ancora la lancia che per un soffio l'aveva mancato, conficcata in terra, ma lui non c'era più. "E’ una magia, questa", mormorò Achille. "Enea dev'esser caro a qualche dio, per poter sparire così. Ma che vada in malora! Non è di lui che mi devo occupare. E tempo che io scenda in battaglia.  "Disse così e si avventò sui Troiani. Per primo uccise Ifitione, lo colpì alla testa, la testa si spaccò in due, cadde l'eroe con fragore e passarono su di lui le ruote dei carri achei. Poi uccise Demoleonte, lo colpì alla tempia, non resistette l'elmo di bronzo e la punta della lancia gli spappolò il cervello. Scese la tenebra sugli occhi dell'eroe. Poi uccise Ippodamante, mentre cercava di fuggire, terrorizzato: colpito in mezzo alla schiena cadde a terra rantolando come un animale. L'anima lasciò il corpo dell'eroe. Poi uccise Polidoro, il più giovane dei figli di Priamo, e il più amato. Lo colpì in mezzo alla schiena, Achille, la lancia trapassò il corpo e uscì dal petto, cadde in ginocchio l'eroe con un grido e una nube l'avvolse, oscura. Quando Ettore vide il suo fratellino in ginocchio, con le viscere in mano, fu assalito dalla rabbia, e dimenticò ogni prudenza. Sapeva che non doveva uscire allo scoperto, e che doveva aspettare Achille in mezzo alla calca, dove era ben protetto dai propri compagni. Ma vide il fratello, morire, in quel modo, e non capì più niente e si gettò in avanti, verso Achille, gridando. Achille lo vide e negli occhi gli balenò una luce di trionfo. "Vieni, Ettore, vieni più vicino", si mise a urlare, "Avvicinati alla tua morte!" "Non mi spaventi, Achille", lui rispose. "Lo so che sei più forte di me, ma anche la mia lancia è capace di uccidere, come la tua. E sarà il destino a decidere chi morirà." Poi scagliò la sua arma, ma la punta di bronzo andò a conficcarsi in terra, non lontano da lui. Achille pensò che l'aveva in pugno. Con un urlo tremendo si buttò in avanti, brandendo la lancia. Ma di nuovo, lo sguardo gli si oscurò, e qualcosa si perse nella sua mente. Per tre volte si buttò in avanti, ma come alla cieca, come se combattesse avvolto da una nebbia profonda. Quando tornò in sé, Ettore non era più là: sparito in mezzo ai Troiani. Furibondo, Achille si scagliò su tutto ciò che trovava intorno. Uccise Drèope, colpendolo al collo. E Demuco, colpendolo prima al ginocchio e poi al ventre. Laogone lo uccise con la lancia, e Dardano con la spada. Dal terrore, Troo cadde in ginocchio ai suoi piedi, chiedendo pietà. Era solo un ragazzo, giovane come Achille. Achille gli trapassò il fegato con un colpo di spada, il fegato schizzò fuori e sangue nero sgorgò dal corpo dell'eroe. Mulio lo uccise con un colpo all'orecchio, la punta di bronzo trapassò la testa e uscì sotto l'altro orecchio. Con la spada uccise Echeclo, squarciandogli il cranio. Con la lancia colpì al gomito Deucalione; e poi con la spada gli mozzò la testa: il midollo schizzò dalle vertebre, cadde il tronco dell'eroe, a terra. Con la lancia trafisse al ventre Rigmo, e con un colpo alla schiena uccise il suo scudiero, Areìtoo. Era come un fuoco che brucia l'immensa foresta, spinto da un vento impetuoso.
Scorreva il sangue, sulla terra nera. E lui non si fermava, avido di gloria, le mani sporche di fango e di morte.
(…)

Agamennone. Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco

Niklai Ge - Achille piange la morte di Patroclo
Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco
Agamennone
Piansero su quel corpo tutta la notte. L'avevano lavato dal sangue e dalla polvere, e nelle ferite avevano versato unguento finissimo. perché non perdesse la sua bellezza, avevano fatto colare ambrosia e nettare nelle narici. Poi avevano posato il corpo sul letto funebre, avvolto in un soffice telo di lino, e coperto da un bianco mantello. Patroclo. Era solo un ragazzo, non sono nemmeno sicuro che fosse un eroe. Adesso ne avevano fatto un dio.
Sorse l'alba, sui loro lamenti, e venne il giorno che per sempre avrei ricordato come il giorno della mia fine. Portarono ad Achille le armi che i migliori artigiani achei avevano costruito per lui, quella notte, lavorando con arte divina. Le posarono ai suoi piedi. Lui era abbracciato al corpo di Patroclo, e stava singhiozzando. Voltò lo sguardo verso le armi. E gli occhi gli brillarono di una luce sinistra. Erano armi come nessuno mai ne aveva viste o indossate. Sembravano fatte da un dio per un dio. Erano una tentazione a cui Achille mai avrebbe potuto resistere.
Così si alzò, finalmente, si allontanò da quel corpo, e gridando, e muovendosi a grandi passi tra le navi, chiamò i guerrieri in assemblea. Io capii che la nostra guerra si sarebbe decisa lì quando vidi arrivare, correndo, perfino i timonieri delle navi, o i dispensieri delle cucine, gente che non partecipava mai alle assemblee. Ma quel giorno arrivarono, anche loro, a stringersi intorno agli eroi e ai principi, per conoscere il proprio destino. Io aspettai che fossero tutti seduti. Aspettai che arrivasse Aiace, e che Ulisse prendesse il suo posto, in prima fila. Li vidi arrivare
zoppicanti per le ferite. Poi, ultimo, entrai nell'assemblea.
Achille si alzò. Tutti tacquero. "Agamennone", disse. "Non è stata una grande idea litigare, io e te, per una ragazza. Fosse morta subito, appena salita sulla mia nave, tanti Achei non avrebbero morso la terra infinita mentre io sedevo lontano, prigioniero della mia ira. Comunque sia andata, è ora di dominare il cuore nel petto, e dimenticare il passato. Oggi io abbandono la mia ira e torno a combattere. Tu raduna gli Achei ed esortali a combattere con me, perché i Troiani la finiscano di dormire sotto le nostre navi."
Da ogni parte i guerrieri si misero a esultare. In quel grande clamore io presi la parola. Rimasi seduto al mio posto e chiesi che facessero silenzio. Io, il re dei re, dovetti chiedere che facessero silenzio. Poi dissi: "Molto mi avete rimproverato perché quel giorno ho tolto ad Achille il suo dono d'onore. E oggi io so di aver sbagliato. Ma non sbagliano anche gli dei? La stoltezza ha piedi leggeri e non sfiora la terra, ma cammina nella testa degli uomini per la loro rovina: e se li prende, uno ad uno, quando più le piace. Ha preso me quel giorno, e mi ha tolto il senno. Oggi voglio compensare quell'errore porgendoti doni infiniti, Achille".
Lui mi stette ad ascoltare. Poi disse che accettava i miei doni, ma non quel giorno, quel giorno bisognava scendere in battaglia senza perdere altro tempo, perché una grande impresa lo attendeva. Era così follemente avido di guerra, che neanche un'ora sarebbe stato capace di aspettare.
Allora si alzò Ulisse. "Achille", disse, "Non puoi portare un esercito in battaglia senza prima farlo mangiare. Tutto il giorno dovranno combattere, fino al tramonto: e solo chi ha mangiato e bevuto può sostenere la battaglia con cuore saldo e membra forti. Ascolta me: rimanda i guerrieri alle navi, a prepararsi un pasto. E intanto facciamo portare da Agamennone i suoi doni, qui, in mezzo all'assemblea, perché tutti possano vederli e ammirarli. E poi lascia che davanti a tutti Agamennone giuri in modo solenne di non essersi unito a Briseide, così come fanno uomini e donne. Sarà più sereno il tuo cuore quando scenderai in battaglia. E tu Agamennone organizza un ricco banchetto nella tua tenda, per Achille, in modo che la giustizia che gli è dovuta sia piena. E degno di un re chiedere scusa, se qualcuno ha offeso."
Così parlò. Ma Achille non ne voleva sapere. "La terra è coperta dei morti che Ettore ha seminato dietro di sé, e voi volete mangiare? Mangeremo al tramonto, io voglio che questo esercito combatta affamato. Patroclo giace cadavere e aspetta vendetta: io vi dico che né cibo né bevanda passeranno dalla mia gola prima di avergliela resa. Non mi importa nulla di doni e banchetti, adesso. Io voglio sangue, e stragi, e lamenti."
Così disse. Ma Ulisse non era il tipo da farsi piegare. Un altro avrebbe chinato il capo, io l'avrei fatto, ma non lui. "Achille, migliore fra tutti gli Achei, tu sei più forte di me a manovrare la lancia, questo è sicuro, ma io sono più saggio di te, perché sono vecchio e ho visto molte cose. Accetta il mio consiglio. Sarà una dura battaglia, e tanta fatica ci aspetta prima di vincerla. E giusto che piangiamo i nostri morti: ma dobbiamo farlo con la pancia? Non è nostro diritto anche riprenderci dalla fatica, e col cibo e il vino ritrovare la forza? Colui che muore seppelliamolo con animo forte, e piangiamolo dall'alba al tramonto. Ma poi pensiamo a noi, perché possiamo tornare a inseguire il nemico con vigore, senza tregua, senza respiro, sotto le armi di bronzo. così io ordino che nessuno scenda in battaglia prima di aver mangiato e bevuto: tutti insieme, poi, ci scaglieremo sui Troiani, risvegliando l'atroce battaglia."
Così disse. E gli ubbidirono. E Achille gli ubbidì. Ulisse prese con sé alcuni giovani e andò alla mia tenda. Portò fuori, uno ad uno, i doni che avevo promesso, tripodi, cavalli, donne, oro. E Briseide. Portò tutto in mezzo all'assemblea e poi mi guardò. Io mi alzai. La ferita al braccio mi faceva impazzire, ma mi alzai. Io, il re dei re, sollevai le braccia al cielo e davanti a tutti dovetti dire queste parole: "Io giuro, davanti a Zeus, e alla Terra e al Sole, e alle Erinni, che mai la mia mano ha sfiorato questa ragazza che si chiama Briseide, né mai ho diviso il letto con lei. Nella mia tenda è rimasta, e adesso la restituisco intatta. Che gli dei mi infliggano pene tremende, se
non ho detto il vero".
Non mentivo. Mi ero preso quella ragazza, ma non il suo cuore. La vidi piangere sul corpo di Patroclo e la sentii parlare come mai l'avevo sentita. "Patroclo, che eri tanto caro al mio cuore! Ti ho lasciato che eri vivo, e adesso ti ritrovo morto. Non c'è fine alla mia sventura. Ho visto morire mio marito, sconciato dalla lancia di Achille, e ho visto morire tutti i miei fratelli, sotto le mura della mia città. E quando li piangevo tu mi consolavi e con dolcezza mi dicevi che mi avresti portata a Ftia e che là Achille mi avrebbe presa come sposa, e che tutti insieme avremmo festeggiato le nozze, nella gioia. Quella dolcezza io oggi piango piangendo te, Patroclo." E stringeva quel corpo, singhiozzando, tra i lamenti delle altre donne.
Achille aspettò che l'esercito prendesse il pasto. Lui non volle toccare né cibo né vino. Quando gli uomini iniziarono a riversarsi fuori dalle tende e dalle navi, pronti per la battaglia, lui indossò le sue nuove armi. Le belle gambiere, con i rinforzi d'argento alle caviglie; la corazza, intorno al petto; la spada, appesa alle spalle; l'elmo, sul capo, brillante come una stella. E la lancia, la famosa lancia che il padre gli aveva donato per dar morte agli eroi. Da ultimo imbracciò lo scudo: era enorme e possente, sprigionava un bagliore come di luna. Il cosmo intero vi era inciso: la terra e le acque, gli uomini e le stelle, i vivi e i morti. Noi combattevamo con in mano delle armi: quell'uomo stava scendendo in battaglia stringendo in pugno il mondo. Lo vidi, splendente come il sole, salire sul carro, e urlare ai suoi cavalli immortali di portarlo verso la vendetta. Ce l'aveva con loro perché non erano stati capaci di sottrarre Patroclo alla morte, correndo via dalla battaglia. Così li insultava e gli gridava contro. E dice la leggenda che loro gli risposero, abbassando il muso, e strappando le redini, gli risposero con voce umana: e gli dissero: correremo veloci come il vento, Achille, ma più veloce di noi corre il tuo destino, incontro alla morte.

Piena estate, Tobago – Derek Walcott

Piena estate, Tobago – Derek Walcott

Spiagge ampie stordite dal sole.

Afa bianca.
Un fiume verde.

Un ponte,
palme arse gialle

dalla casa in letargo estivo
assopita in agosto.

Giorni che ho stretto,
giorni che ho perso,

giorni che diventano, come figlie,
più grandi del mio abbraccio.

da Derek Walcott, Nelle vene del mare, a cura di Matteo Campagnoli
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti

L’amore dopo l’amore – Derek Walcott

Christen Dalsgaard - Garden door in Hellested

L’amore dopo l’amore – Derek Walcott

Verrà il momento
in cui, con gioia,
saluterai te stesso mentre arrivi
alla tua porta, nel tuo specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,

dicendo: siediti qui. Mangia.
Amerai di nuovo l’estraneo che era in te.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, all’estraneo che ti ha amato

per tutta la vita, che hai ignorato
per un altro, che ti conosce a memoria.
Togli le lettere d’amore dallo scaffale dei libri,

le foto, gli appunti disperati,
sbuccia la tua immagine dallo specchio.
Siediti. Banchetta con la tua vita.

da Derek Walcott, Nelle vene del mare, a cura di Matteo Campagnoli
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti