31 marzo 2016

Sorrisi - Wisława Szymborska

Sorrisi - Wisława Szymborska

Il mondo vuol vedere la speranza sul viso.
Per gli statisti diventa l’obbligo il sorriso.
Sorridere vuol dire non darsi allo sconforto.
Anche se il gioco è complesso, l’esito incerto,
gli interessi contrastanti – è sempre consolante
che la dentatura sia bianca e ben smagliante.
 
Devono mostrare una fronte rasserenata
sulla pista e nella sala delle conferenze.
Un’andatura svelta, un’espressione distesa.
Quello dà il benvenuto, quest’altro si accomiata.
È quanto mai necessario un volto sorridente
Per gli obiettivi e tutta la gente lì in attesa.
 
La stomatologia in forza alla diplomazia
garantisce sempre un risultato impressionante.
Canini di buona volontà e incisivi lieti
non possono mancare quando l’aria è pesante.
I nostri tempi non sono ancora così allegri
perché sui visi traspaia la malinconia.
 
Un’umanità fraterna, dicono i sognatori,
trasformerà la terra nel paese del sorriso.
Ho qualche dubbio. Gli statisti, se fosse vero,
non dovrebbero sorridere il giorno intero.
Solo a volte: perché è primavera, tanti i fiori,
non c’è fretta alcuna, né tensione in viso.
Gli esseri umani sono tristi per natura.
È quanto mi aspetto, e non è poi così dura.

22 marzo 2016

Dialoghi con Leucò. Gli Dèi - Cesare Pavese

Raffaello - Concilio degli dei
Dialoghi con Leucò. Gli Dèi - Cesare Pavese 



- Il monte è incolto, amico. Sull’erba rossa dell’ultimo inverno ci son chiazze di neve. Sembra il mantello del centauro. Queste alture sono tutte così. Basta un nonnulla, e la campagna ritorna la stessa di quando queste cose accadevano.
- Mi domando se è vero che li hanno veduti.
- Chi può dirlo? Ma sì, li han veduti. Han raccontato i loro nomi e niente più – è tutta qui la differenza tra le favole e il vero. "Era il tale o il tal’altro", "Ha fatto questo, ha detto quello". Chi è veritiero, si accontenta. Non sospetta nemmeno che non abbiamo mai veduto queste cose, eppure sappiamo per filo e per segno di che mantello era il centauro o il colore dei grappoli d’uva sull’aia di Icario.
- Basta un colle, una vetta, una costa. Che fosse un luogo solitario e che i tuoi occhi risalendolo si fermassero in cielo. L’incredibile spicco delle cose nell’aria oggi ancora tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati sul cielo, fossero dèi fin dall’inizio.
- Non sempre queste cose sono state sui monti.
- Si capisce. Ci furono prima le voci della terra – e le fonti, le radici, le serpi. Se il demone congiunge la terra col cielo, deve uscire alla luce dal buio del suolo.
- Non so. Quella gente sapeva troppe cose. Con un semplice nome raccontavano la nuvola, il bosco, i destini. Videro certo quello che noi sappiamo appena. Non avevano né tempo né gusto per perdersi in sogni. Videro cose tremende, incredibili, e nemmeno stupivano. Si sapeva cos’era. Se mentirono quelli, anche tu allora, quando dici "è mattino" o "vuol piovere", hai perduto la testa.
- Dissero nomi, questo sì. Tanto che a volte mi domando se furono prima le cose o quei nomi.
- Furono insieme, credi a me. E fu qui, in questi paesi incolti e soli. C’è da stupirsi che venissero quassù? Che altro potevano cercarci quella gente se non l’incontro con gli dèi?
- Chi può dire perché si fermarono qui? Ma in ogni luogo abbandonato resta un vuoto, un’attesa.
- Nient’altro è possibile pensare quassù. questi luoghi hanno nomi per sempre. Non rimane che l’erba sotto il cielo, eppure l’alito del vento dà nel ricordo più fragore di una bufera dentro il bosco. Non c’è vuoto né attesa. Quel che è stato, è per sempre.
- Ma son morti e sepolti. Adesso i luoghi sono come erano prima di loro. Voglio concederti che quello che hanno detto fosse vero. Che cos’altro rimane? Ammetterai che sul sentiero non s’incontrano più dèi. Quando dico "è mattino", "vuol piovere", non parlo di loro.
- Questa notte ne abbiamo parlato. Ieri parlavi dell’estate, e della voglia che ti senti di respirare l’aria tiepida la sera. Altre volte discorri dell’uomo, della gente che è stata con te, dei tuoi gusti passati, d’incontri inattesi. Tutte cose che furono un tempo. Io, ti assicuro, ti ho ascoltato come riascolto dentro di me quei nomi antichi. Quando racconti quel che sai, non ti rispondo "cosa resta?" o se furono prima le parole o le cose. Vivo con te e mi sento vivo.
- Non è facile vivere come se quello che accadeva in altri tempi fosse vero. Quando ieri ci ha preso la nebbia sugli incolti e qualche sasso rotolò dalla collina ai nostri piedi, non pensammo alle cose divine né a un incontro incredibile ma soltanto alla notte e alle lepri fuggiasche. Chi siamo e a che cosa crediamo viene fuori davanti al disagio, nell’ora arrischiata.
- Di questa notte e delle lepri sarà bello riparlare con gli amici quando saremo nelle case. Eppure di questa paura ci tocca sorridere, quando pensassimo all’angoscia della gente di un tempo cui tutto quello che toccava era mortale. Gente per cui l’aria era piena di spaventi notturni, di arcane minacce, di ricordi paurosi. Pensa soltanto alle intemperie o ai terremoti. E se questo disagio fu vero, com’è indiscutibile, fu anche vero il coraggio, la speranza, la scoperta felice di poteri, di promesse d’incontri. Io, per me, non mi stanco di sentirli parlare dei loro terrori notturni e delle cose in cui sperarono.
- E credi ai mostri, credi ai corpi imbestiati, ai sassi vivi, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano?
- Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salirono su queste alture di sassi o cercarono paludi mortali sotto il cielo, fu perché ci trovavano qualcosa che noi non sappiamo. Non era il pane né il piacere né la cara salute. Queste cose si sa dove stanno. Non qui. E noi che viviamo lontano lungo il mare e nei campi, l’altra cosa l’abbiamo perduta.
- Dilla dunque, la cosa.
- Già lo sai. Quei loro incontri.

Dialoghi con Leucò. Le Muse - Cesare Pavese

Bertel Thorvalldsen - Dance of the Muses on Mount Helicon
Dialoghi con Leucò. Le Muse - Cesare Pavese  



Immenso tema. Chi scrive sa bene di avere osato non poco avvistando un solo nume nelle nove, o tre per tre, o soltanto tre, o anche due, Muse e Càriti. Ma è convinto di questa come di molte altre cose. In questo mondo che trattiamo, le madri sono sovente le figlie — e viceversa. Si potrebbe anche dimostrarlo. È necessario? Preferiamo invitare chi legge, a godersi il fatto che secondo i Greci le feste della fantasia e della memoria furono quasi sempre situate su monti, anzi su colline, rinnovate via via che questo popolo scendeva nella penisola.
(Parlano Mnemòsine e Esiodo).

MNEMÒSINE In conclusione, tu non sei contento.
ESIODO Ti dico che, se penso a una cosa passata, alle stagioni già concluse, mi pare di esserlo stato. Ma nei giorni è diverso. Provo un fastidio delle cose e dei lavori come lo sente l’ubriaco. Allora smetto e salgo qui sulla montagna. Ma ecco che a ripensarci mi par di nuovo di esser stato contento.
MNEMÒSINE Così sarà sempre.
ESIODO Tu che sai tutti i nomi, qual è il nome di questo mio stato?
MNEMÒSINE Puoi chiamarlo col mio, o col tuo nome.
ESIODO Il mio nome di uomo, Melete, non è nulla. Ma tu come vuoi essere chiamata? Ogni volta è diversa la parola che t’invoca. Tu sei come una madre il cui nome si perde negli anni. Nelle case e sui viottoli donde si scorge la montagna, si parla molto di te. Si dice che un tempo tu stavi su monti più impervi, dove son nevi, alberi neri e mostri, nella Tracia o in Tessaglia, e ti chiamavano la Musa. Altri dice Calliòpe o Cliò. Qual è il nome vero?
MNEMÒSINE Vengo infatti di là. E ho molti nomi. Altri ne avrò quando sarò discesa ancora… Aglaia, Egemòne, Faenna, secondo il capriccio dei luoghi.
ESIODO Anche te il fastidio caccia per il mondo? Non sei dunque una dea?
MNEMÒSINE Né fastidio né dea, mio caro. Oggi mi piace questo monte, l’Elicona, forse perché tu lo frequenti. Amo stare dove sono gli uomini, ma un poco in disparte. Io non cerco nessuno, e discorro con chi sa parlare.
ESIODO O Melete, io non so parlare. E mi par di sapere qualcosa soltanto con te. Nella tua voce e nei tuoi nomi c’è il passato, ogni stagione che ricordo.
MNEMÒSINE In Tessaglia il mio nome era Mneme.
ESIODO Qualcuno che parla di te ti dice vecchia come la tartaruga, decrepita e dura. Altri ti fanno ninfa acerba, come il boccio o la nuvola…
MNEMÒSINE Tu che dici?
ESIODO Non so. Sei Calliòpe e sei Mneme. Hai la voce e lo sguardo immortali. Sei come un colle o un corso d’acqua, cui non si chiede se son giovani o vecchi, perché per loro non c’è il tempo. Esistono. Non si sa altro.
MNEMÒSINE Ma anche tu, caro, esisti, e per te l’esistenza vuol dire fastidio e scontento. Come t’immagini la vita di noialtri immortali?
ESIODO Non me la immagino, Melete, la venero, come posso, con cuore puro.
MNEMÒSINE Continua, mi piaci.
ESIODO Ho detto tutto.
MNEMÒSINE Vi conosco, voi uomini, voi parlate a bocca stretta.
ESIODO Non possiamo far altro, davanti agli dèi, che inchinarci.
MNEMÒSINE Lascia stare gli dèi. Io esistevo che non c’erano dèi. Puoi parlare, con me. Tutto mi dicono gli uomini. Adoraci pure se vuoi, ma dimmi come t’immagini ch’io viva.
ESIODO Come posso saperlo? Nessuna dea mi ha degnato del suo letto.
MNEMÒSINE Sciocco, il mondo ha stagioni, e quel tempo è finito.
ESIODO Io conosco soltanto la campagna che ho lavorato.
MNEMÒSINE Sei superbo, pastore. Hai la superbia del mortale. Ma sarà tuo destino sapere altre cose. Dimmi perché quando mi parli ti credi contento?
ESIODO Qui posso risponderti. Le cose che tu dici non hanno in sé quel fastidio di ciò che avviene tutti i giorni. Tu dài nomi alle cose che le fanno diverse, inaudite, eppure care e familiari come una voce che da tempo taceva. O come il vedersi improvviso in uno specchio d’acqua, che ci fa dire «Chi è quest’uomo?»
MNEMÒSINE Mio caro, ti è mai accaduto di vedere una pianta, un sasso, un gesto, e provare la stessa passione?
ESIODO Mi è accaduto.
MNEMÒSINE E hai trovato il perché?
ESIODO È solo un attimo, Melete. Come posso fermarlo?
MNEMÒSINE Non ti sei chiesto perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia, e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva. Altre volte è l’occhiata di un passante qualunque. Altre volte la pioggia che insiste da giorni. O lo strido strepitoso di un uccello. O una nube che diresti di aver già veduto. Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più. Non ti sei chiesto il suo perché?
ESIODO Tu stessa lo dici. Quell’attimo ha reso la cosa un ricordo, un modello.
MNEMÒSINE Non puoi pensarla un’esistenza tutta fatta di questi attimi?
ESIODO Posso pensarla sì.
MNEMÒSINE Dunque sai come vivo.
ESIODO Io ti credo, Melete, perché tutto tu porti negli occhi. E il nome di Euterpe che molti ti dànno non mi può più stupire. Ma gli istanti mortali non sono una vita. Se io volessi ripeterli perderebbero il fiore. Torna sempre il fastidio.
MNEMÒSINE Eppure hai detto che quell’attimo è un ricordo. E cos’altro è il ricordo se non passione ripetuta? Capiscimi bene.
ESIODO Che vuoi dire?
MNEMÒSINE Voglio dire che tu sai cos’è vita immortale.
ESIODO Quando parlo con te mi è difficile resisterti. Tu hai veduto le cose all’inizio. Tu sei l’ulivo, l’occhiata e la nube. Dici un nome, e la cosa è per sempre.
MNEMÒSINE Esiodo, ogni giorno io ti trovo quassù. Altri prima di te ne trovai su quei monti, sui fiumi brulli della Tracia e della Pieria. Tu mi piaci più di loro. Tu sai che le cose immortali le avete a due passi.
ESIODO Non è difficile saperlo. Toccarle, è difficile.
MNEMÒSINE Bisogna vivere per loro, Esiodo. Questo vuol dire, il cuore puro.
ESIODO Ascoltandoti, certo. Ma la vita dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi. Davanti al fuoco e in un letto. E ogni giorno che spunta ti mette davanti la stessa fatica e le stesse mancanze. È un fastidio alla fine, Melete. C’è una burrasca che rinnova le campagne - né la morte né i grossi dolori scoraggiano. Ma la fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate - quest’è il vivere che taglia le gambe, Melete.
MNEMÒSINE Io vengo da luoghi più brulli, da burroni brumosi e inumani, dove pure si è aperta la vita. Tra questi ulivi e sotto il cielo voi non sapete quella sorte. Mai sentito cos’è la palude Boibeide?
ESIODO No.
MNEMÒSINE Una landa nebbiosa di fango e di canne, com’era al principio dei tempi, in un silenzio gorgogliante. Generò mostri e dèi di escremento e di sangue. Oggi ancora i Téssali ne parlano appena. Non la mutano né tempo né stagioni. Nessuna voce vi giunge.
ESIODO Ma intanto ne parli, Melete, e le hai fatto una sorte divina. La tua voce l’ha raggiunta. Ora è un luogo terribile e sacro. Gli ulivi e il cielo d’Elicona non son tutta la vita.
MNEMÒSINE Ma nemmeno il fastidio, nemmeno il ritorno alle case. Non capisci che l’uomo, ogni uomo, nasce in quella palude di sangue? e che il sacro e il divino accompagnano anche voi, dentro il letto, sul campo, davanti alla fiamma? Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini.
ESIODO Tu parli, Melete, e non posso resisterti. Bastasse almeno venerarti.
MNEMÒSINE C’è un altro modo, mio caro.
ESIODO E quale?
MNEMÒSINE Prova a dire ai mortali queste cose che sai.


Dialoghi con Leucò. Il Diluvio - Cesare Pavese

Francis Danby - The Deluge
Dialoghi con Leucò. Il Diluvio - Cesare Pavese  


Anche il diluvio greco fu il castigo di un genere umano che aveva perso il rispetto per gli dèi. Si sa che la terra venne poi ripopolata lanciando certi sassi.
(Parlano un satiro e un’amadriade)

AMADRIADE Mi domando cosa dicono di quest’acqua i mortali.
SATIRO Che ne sanno? La prendono. Qualcuno ci spera magari un migliore raccolto.
AMADRIADE A quest’ora la piena dei fiumi ha cominciato a sradicare le piante. Ormai piove sull’acqua e dappertutto.
SATIRO Stanno tappati nelle grotte e nei tuguri sui monti. Ascoltano piovere. Pensano a quelli delle valli che combattono l’acqua e s’illudono.
AMADRIADE Fin che dura la notte s’illudono. Ma domani, nella luce paurosa, quando vedranno un solo mare fino al cielo, e le montagne impicciolite, non rientreranno nelle grotte. Guarderanno. Si butteranno un sacco in testa e guarderanno.
SATIRO Li confondi con le bestie selvatiche. Nessun mortale sa capire che muore e guardare la morte. Bisogna che corra, che pensi, che dica. Che parli a quelli che rimangono.
AMADRIADE Ma stavolta nessuno rimane. Come faranno dunque?
SATIRO Qui li voglio. Quando sapranno di esser tutti condannati, tutti quanti, si daranno a far festa, vedrai. Magari verranno a cercare noialtri.
AMADRIADE O noi, che c’entriamo?
SATIRO C’entriamo sì. Siamo la festa, siamo la vita per loro. Cercheranno la vita con noi fino all’ultimo.
AMADRIADE Non capisco che vita possiamo dar loro. Non sappiamo nemmeno morire. Tutto quanto sappiamo è guardare. Guardare e sapere. Ma tu dici che loro non guardano e non sanno rassegnarsi. Che altro possono chiederci?
SATIRO Tante cose capretta. Per loro noi siamo come bestie selvatiche. Le bestie nascono e muoiono come le foglie. Noi c’intravvedono sparire fra i rami e allora credono di noi non so che di divino - che quando fuggiamo a nasconderci siamo la vita che perdura nel bosco - una vita come la loro ma perenne, più ricca. Cercheranno noi, ti dico. Sarà l’ultima speranza che avranno.
AMADRIADE Con quest’acqua? E che cosa faranno?
SATIRO Non lo sai che cos’è una speranza?crederanno che un bosco dove siamo anche noi non potrà andar sommerso. Si diranno che tutti proprio tutti gli uomini non potranno sparire, altrimenti che senso ha esser nati e averci conosciuto? Sapranno che i grandi, gli Olimpici, li vogliono morti, ma che noi come loro come le piccole bestie, siamo insomma la vita la terra la cosa vera che conta. Le loro stagioni si riducono a feste, e noi siamo le feste.
AMADRIADE È comodo. A loro la speranza, a noi il destino. Ma è sciocco.
SATIRO Non tanto. Qualchecosa salveranno.
AMADRIADE Si ma chi ha provocato gli dèi grandi? Chi ha fatto tutto quel disordine, che anche il sole velava la faccia? Tocca a loro, mi pare. Gli sta bene.
SATIRO Su, capretta, credi proprio a queste cose? Non pensi che, se avessero veramente violato la vita, sarebbe bastata la vita a punirli, senza bisogno che l’Olimpo ci si mettesse col diluvio? Se qualcuno ha violato qualcosa, credi a me, non sono loro.
AMADRIADE Intanto gli tocca morire. Come staranno domani quando sapranno quel che accade?
SATIRO Senti il torrente, piccolina. Domani saremo sott’acqua anche noi. Ne vedrai delle brutte, tu che ami guardare. Meno male che non possiamo morire.
AMADRIADE Alle volte, non so. Mi chiedo che cosa sarebbe morire. Quest’è l’unica cosa che davvero ci manca. Sappiamo tutto e non sappiamo questa semplice cosa. Vorrei provare, e poi svegliarmi, si capisce.
SATIRO Sentila. Ma morire è proprio questo - non più sapere che sei morta. Ed è questo il diluvio: morire in tanti che non resti più nessuno a saperlo. Così succede che verranno a cercare noialtri e ci diranno di salvarli e vorranno esser simili a noi, alle piante, alle pietre - alle cose insensibili che sono mero destino. In esse si salveranno. Ritirandosi l’acqua, riemergeranno pietre e tronchi, come prima. E i mortali non chiedono che questo come prima.
AMADRIADE Strana gente. Loro trattano il destino e l’avvenire, come fosse un passato.
SATIRO Questo vuol dire, la speranza. Dare un nome di ricordo al destino.
AMADRIADE E tu credi davvero si faranno tronchi e pietre?
SATIRO Sanno favoleggiare, i mortali. Vivranno nell’avvenire secondo che il terrore di stanotte e di domani li avrà fatti fantasticare. Saran bestie selvatiche e rocce e piante. Saranno dèi. Oseranno uccidere gli dèi per vederli rinascere. Si daranno un passato per sfuggire alla morte. Non ci sono che queste due cose - la speranza o il destino.
AMADRIADE Quand’è così non so compiangerli. Dev’essere bello farsi da sé in questo modo a capriccio.
ATIRO È bello si. Ma non credere che lo sappiano di fare a capriccio. Le salvezze più straordinarie le trovano alla cieca, quando già sono ghermiti e schiacciati dal destino. Non han tempo di godersi il capriccio. Sanno soltanto di pagare di persona. Questo si.
AMADRIADE Almeno questo diluvio servisse a insegnargli cos’è il gioco e la festa. Il capriccio che a noi immortali viene imposto dal destino e lo sappiamo - perché non imparano a viverlo come un attimo eterno nella loro miseria? Perché non capiscono che proprio la loro labilità li fa preziosi?
SATIRO Tutto non si può avere, piccola. Noi che sappiamo, non abbiamo preferenze. E loro che vivono istanti imprevisti, unici, non ne conoscono il valore. Vorrebbero la nostra eternità. Questo è il mondo.
AMADRIADE Domani sapranno qualcosa, anche loro. E i sassi e le terre che un giorno torneranno alla luce non vivranno di speranza soltanto o di angoscia. Vedrai che il mondo nuovo avrà qualcosa di divino nei suoi più labili mortali.
SATIRO Dio volesse, capretta. Piacerebbe anche a me.