13 dicembre 2015

Georgiche IV 452-527 - Virgilio

Gaetano Gandolfi - Orfeo e Euridice
Georgiche IV 452-527 - Virgilio



È vero, ti travagliano le ire di un nume; paghi

una grande colpa. Ti suscita questa punizione,

se i fati non si oppongono, Orfeo, ingiustamente sfortunato,

e duramente infierisce a causa della sua sposa rapita.

Quella, mentre ti fuggiva trafelata lungo il fiume,

non vide, fanciulla moritura, seguendo il greto,

nell’erba alta davanti ai suoi piedi un orribile serpente.

La schiera delle Driadi, sue coetanee, riempirono di grida

le cime dei monti; piansero le rocche del Rodope

e l’alto Pangeo e la marzia terra di Reso

e i Geti e l’Ebro e l’attica Oritia. Egli, Orfeo,

cercando di consolare con la cava testuggine il suo amore disperato,

cantava a se stesso di te, dolce sposa, di te

sul lido deserto, di te all’alba, di te al tramonto.

Entrò persino nelle gole tenarie, profonda porta

di Dite, e nel bosco caliginoso di tetra paura,

e discese ai Mani, e al tremendo re ed ai cuori

incapaci di essere addolciti da preghiere umane.

Colpite dal canto, dalle profonde sedi dell’Erebo,

venivano tenui ombre e parvenze private della luce,

quante sono le migliaia di uccelli che si celano tra le foglie,

quando Vespro o la pioggia invernale li caccia dalle montagne,

madri e uomini, e corpi privi di vita

di magnanimi eroi, fanciulli e giovinette ignare di connubio,

giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei genitori:

li imprigiona intorno la nera melma e l’orrido canneto

di Cocito, e l’infausta palude dall’onda morta,

e li serra la Stige aggirandoli nove volte.

S’incantarono persino le dimore e i tartarei recessi della Morte,

e le Eumenidi con i capelli intrecciati di livide serpi,

e Cerbero tenne le tre bocche spalancate, e la ruota

su cui gira Issione si fermò con il vento.

E già ritraendo i passi era sfuggito a tutti i pericoli,

e la resa Euridice giungeva alle aure superne, seguendolo

alle spalle (Proserpina aveva posto una tale condizione),

quando un’improvvisa follia colse l’incauto amante,

perdonabile invero, se i mani sapessero perdonare: si fermò,

e proprio sulla soglia della luce, ahi immemore, vinto

nell’animo, si volse a guardare la sua diletta Euridice.

Tutta la fatica dispersa, e infranti i patti del crudele tiranno,

tre volte si udì un fragore dagli stagni dell’Averno.

Ed ella: “Chi ha perduto me, sventurata, e te, Orfeo?

Quale grande follia? Ecco i crudeli fati

mi richiamano indietro e il sonno mi chiude gli occhi vacillanti.

Ora addio. Vado circondata da un’immensa notte,

tendendo a te, ahi non più tua, le deboli mani”.

Disse e subito sparve, via dagli occhi,

come tenue fumo misto ai venti,

né più lo vide che invano cercava di afferrare l’ombra

e molto voleva dire; né il nocchiero dell’Orco permise

che egli attraversasse di nuovo l’ostacolo della palude.

Che fare? E dove andare, perduta due volte la sposa?

Con quale pianto commuovere i Mani, quali numi invocare?

Ella certo navigava ormai fredda sulla barca stigia.

Raccontano che per sette mesi continui egli pianse,

solo con se stesso sotto un’aerea rupe presso l’onda

dello Strimone deserto, e narrava la sua storia nei gelidi antri,

addolcendo le tigri e facendo muovere le querce con il canto:

come all’ombra di un pioppo un afflitto usignolo

lamenta i piccoli perduti, che un crudele aratore

spiandoli sottrasse implumi dal nido: piange

nella notte e immobile su un ramo rinnova il canto,

e per ampio spazio riempie i luoghi di mesti lamenti.

Nessun amore o nessun connubio piegò l’animo di Orfeo.

Percorreva solitario i ghiacci iperborei e il nevoso Tanai,

e le lande non mai prive delle brine rifee,

gemendo la rapita Euridice e l’inutile dono di Dite.

Spregiate dalla sua fedeltà le donne dei Ciconi,

fra i riti divini e notturne orge di Bacco,

fatto a brani il giovane lo sparsero per i vasti campi.

E ancora mentre l’eagrio Ebro volgeva tra i gorghi

il capo staccato dal collo marmoreo, la voce da sola

con la gelida lingua, “Euridice, ahi sventurata

Euridice”, invocava mentre la vita fuggiva:

Euridice echeggiavano le rive da tutta la corrente del fiume.



(Trad. L. Canali)

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