16 maggio 2015

Mi Buenos Aires querido. Una città che i suoi scrittori hanno rifondato miticamente molte volte di Grazia Fresu

Mi Buenos Aires querido. Una città che i suoi scrittori hanno rifondato miticamente molte volte di Grazia Fresu .


Mi Buenos Aires querido, cuando yo te vuelva a ver no habrá más pena ni olvido."(Mia amata Buenos Aires quando ti rivedrò non ci sarà piú pena né oblio). Così canta Carlos Gardel, colui che, come dicono gli argentini, “cada día canta mejor”, “ogni giorno canta meglio ” e la sua voce inconfondibile percorre senza tregua le strade di Buenos Aires, i suoi mitici caffè, i suoi locali di tango, attraversa ancora e sempre con un brivido l’anima della gente. Gardel morì di incidente aereo nel 1935, la sua statua, nel cimitero della Chacarita, ha sempre tra le dita una sigaretta accesa, perché Gardel per gli Argentini non può morire. Assurto alla dignità del mito, è, come Evita Peron,  una gloria nazionale. Ma se il mito di Evita vive tra luci e ombre, quello di Carlitos è inciso nella memoria in un alone di assoluta perfezione. Perché Gardel è il tango uscito dai suburbi della città e andato a conquistare il mondo.    Perché il tango è Buenos Aires...L’insondabile mistero di questa musica è lo stesso di questa città ambigua, gentile e selvaggia, intrepida e pavida, delusa e tentata dalla speranza, una città di lussi e di miserie, colta, elegante e insieme ferita, ironica e tragica. Una città cosmopolita, i cui abitanti hanno sangue italiano, tanto sangue italiano nelle vene e sangue spagnolo, indio, tedesco, polacco, russo...è un crocevia del mondo, un’ex colonia spagnola che ha inventato,  dentro la lingua dei colonizzatori, il lunfardo dei suoi tanghi, la magica scrittura rioplatense di Julio Cortazar, di Jorge Luis Borges, di Ernesto Sabato,   di Osvaldo Soriano, di Adolfo Bioy Casares, di Silvina Ocampo, di Juan Gelman e di tanti altri.Una città che i suoi scrittori hanno rifondato miticamente molte volte, da Mujica Lainez a Borges."1538... Nel tepore del tramonto, Luis de Miranda, metà  chierico e metà soldato, attraversa il villaggio di Buenos Aires, cavalcando sul suo vecchio mulo... Dalla sopravveste aperta, sul petto, gli spuntano alcuni grandi fogli. Ha copiato in essi, quella stessa mattina, i centotrentadue versi del poema nel quale racconta le pene e le delusioni che soffrirono quelli che vennero con Don Pedro Mendoza. Descrive la città come una femmina traditrice che uccide i suoi mariti. È il primo canto che ispira Buenos Aires ed è canto di tristezza".Eppure ancora non sa che la peste si abbatterà presto sulla città, seminandovi terrore e morte. Di fronte alla tragedia avvenuta "...il poeta ferma la sua cavalcatura e resta assorto nella contemplazione dell’ampio cielo. Distende allora i fogli macchiati di sangue, del suo proprio sangue, comincia a leggere a voce alta  la storia tragica che la città ha vissuto: “Giunse la cosa a tanto/che come in Gerusalemme,/la carne d’uomo persino/quella carne mangiarono./Le cose che lì si videro/mai si videro scritte”.Così lesse Frate Luis de Miranda, per l’acqua, per la luna, per gli alberi, per le rane e per i grilli, il primo poema che si scrisse per Buenos Aires." (Il primo poeta di Manuel Mujica Lainez)"E la città, ora, è come un piano/delle mie umiliazioni e dei fallimenti;/da questa porta ho visto i tramonti/e davanti a questo marmo ho aspettato invano./Qui l’incerto ieri e l’oggi diverso/mi hanno offerto i comuni casi/di tutto il destino umano; qui i miei passi/ordiscono il loro incalcolabile labirinto./Qui la sera cenerentola aspetta/il frutto che le deve la mattina;/qui la mia ombra nella non meno vana/ombra finale si perderà, leggera./Non ci unisce l’amore ma lo spavento;/sarà per questo che la amo tanto".  (Buenos Aires di Borges)Sarà per questo che la si ama tanto? O per la sua energia instancabile, per quella ironia che serpeggia nelle sue strade, per quella gioia di vivere che si nasconde sottile ma forte anche nel dolore.Buenos Aires nunca duerme. Buenos Aires non dorme mai, mi hanno detto quando sono sbarcata per la prima volta dall’aereo, anni fa. Ho vissuto in questa città per sette anni.  Quando sono arrivata cos’era per me questo paese? Degli amici di famiglia emigrati quand’ero bambina, le foto del Che sulla parete della mia stanza di ragazza, con il sorriso inconfondibile e tenero di un mito amato e tra le mani il “mate”. Io non sapevo allora cos’era il mate né che avrei trascorso tanto serate con gli amici passandocelo da una mano all’altra: la bevanda degli incontri, del riposo, della convivialità, goduta nell’intimità di una  casa, nella frescura di un patio, nella solarità profumata e  verde di un giardino. Il mate è il sangue che scorre per le vene  agli Argentini. Lo bevono ovunque, in casa, nelle piazze, negli uffici, nelle scuole, nel campo, viaggiando in treno, non importa dove. È qualcosa che li identifica, un marchio di appartenenza. Cos’era per me questo paese, quando sono arrivata? La Comuna Baires, venuta dall’Argentina negli anni del Teatro come militanza, ospiti nella mia casa, i loro segreti di paura e di lotta, l’incubo terribile della dittatura, il buco nero dei desaparecidos dove sembrava precipitare la ragione e il coraggio di vivere persino. E poi le mie letture di Borges e Cortazar e i tanghi di Gardel arrivati tra le mie mani per caso. Un paese nel libro di geografia insegnato a ragazzi con occhi a volte attenti, a volte persi dietro le nuvole al di là del vetro.Ho cominciato a percorrere la città con passi da straniera, un esule di lusso in un universo dove “essere italiana” dava la sensazione di essere a casa e insieme di esserti perduta. Ti parlano in italiano i tassisti e i venditori ambulanti, il medico che consulti, il parrucchiere, ti parlano in italiano sui treni, nei bar. La città conserva  memoria forte dell’emigrazione italiana dall’Ottocento fino agli anni cinquanta e insieme coltiva l’ammirazione per l’Italia risorta dalla guerra,   per la nostra arte, la nostra moda, la nostra cultura. L’Italia sta scritta nel tessuto di questa città, nei suoi palazzi, nelle sue chiese, nella sua tradizione e nella sua musica. Ovunque incontri gente che chiede i tuoi racconti e si racconta, ovunque incontri strade, piazze, pietre e case che parlano.Le case di Buenos Aires hanno storie incredibili. Nel quartiere borghese di Belgrano, il mio  quartiere, a nord della cittá, con parchi, case lussuose, teatri, cinema, locali, sorge la casona Mansilla. Questa grande casa, appartenuta allo scrittore e soldato Lucio Mansilla, fu costruita nel 1892. Dal 1915 fino al 1972 fu sede della Scuola Normale n.10 per maestre “Giovan Battista Alberti”. Per molto tempo restò abbandonata. Gli abitanti del quartiere, nelle difficili circostanze economiche del 2000, la ripulirono e  vi fecero una mensa per bambini. La polizia tentò di chiuderla. Oggi è sede di un Museo e di numerose attività culturali.Le case di Buenos Aires sono casas tomadas (case infestate). La simbologia della casa tomada, infestata da presenze, è uscita dal racconto di Cortazar per diventare la metafora di un paese anch’esso troppo spesso infestato da presenze aberranti, dai vecchi colonialismi ai nuovi, dai vecchi dittatori ai nuovi, dai vecchi sogni perduti ai nuovi."Ci piaceva la casa, perché oltre ad essere spaziosa e antica, ... conservava i ricordi dei nostri bisnonni, del nonno paterno, dei nostri genitori e di tutta l’infanzia. .... Entrammo nei quarant’anni con l’idea inespressa che il nostro semplice e silenzioso matrimonio tra fratelli, era  necessario alla sopravvivenza della genealogia familiare nella nostra casa... Lo ricorderò sempre con chiarezza perché fu semplice e senza circostanze inutili. ...Di notte sento sete e prima di andare a letto dissi a Irene che andavo in cucina a servirmi un bicchiere d'acqua. Dalla porta della camera sentii un rumore nella cucina. A Irene le  richiamò l’attenzione il mio brusco modo di fermarsi, e mi si avvicinò senza dire neanche una parola. .. Afferrai Irene per il braccio e la feci correre con me verso il cancello senza voltarci indietro. ..Chiusi di colpo il cancello e restammo nel cortile. Adesso non si sentiva nulla. Avevamo solo i vestiti che indossavamo. Mi ricordai dei quindicimila  pesos nell’armadio della mia stanza. Ma era troppo tardi ormai... Vidi che erano le undici di notte. Cinsi la cintura di Irene con il mio braccio (credo che lei stesse  piangendo) e uscimmo così per strada. Prima di allontanarci ebbi compassione, chiusi bene la porta d’entrata e tirai la chiave nel tombino. Non fosse che a qualche povero diavolo  venisse in mente di rubare e si mettesse nella casa, a quell’ora e con la casa infestata." (Casa tomadadi Julio Cortazar)

 Buenos Aires  ha accolto tra le sue braccia gli esuli europei scappati dalla fame e dalle guerre, li ha confortati sulle rive di questo grande fiume che sembra mare, li ha fatti incontrare, incrociare, cambiare. Ora sono tutti porteños (abitanti di Buenos Aires), un popolo audace, orgoglioso di sé, fantasioso e ironico, capace di sopravvivere a dittature, governi ladri, svendita del patrimonio nazionale a multinazionali estere, capace di credere ancora che si può vincere la difficoltà dell’esproprio sistematico, di una giustizia che ha servito soprattutto i potenti, che si può ridare il sorriso ai bambini, non farsi sconfiggere dalla violenza che insanguina spesso le strade. 

   Buenos Aires ha visto il crollo dell’economia, l’assedio alle banche ma anche le mense istituite da semplici cittadini   per i bambini delle villas, i quartieri della povertà senza apparente riscatto, ha visto la gente rinunciare alle scarpe, ai vestiti, a qualsiasi lusso, ma non rinunciare ai libri, al teatro, alla musica. Sugli autobus di Buenos Aires molti hanno tra le mani giornali ma soprattutto libri. Le librerie di Buenos Aires sono luoghi mitici, come l'Ateneo, dove si legge, si conversa, si ascolta musica, si beve e si mangia. I porteños vanno al  Teatro Colón, il grande tempio della lirica e della danza, come si va in un luogo familiare e irrinunciabile.

   Per le strade ti raggiunge il profumo dei jajarandà e il suono di un bandoneón, per le strade si canta, si balla.  Il tango che ti trapassa l’anima l’ho visto ballare per strada, vecchie coppie o giovani dal viso indio nel mercato di San Telmo la domenica mattina, un canto struggente alla vita, all’amore, alla città. Il tango è come il mate, una passione che devi lasciarti entrare dentro se vuoi che Buenos Aires ti ami. Il tango è un pensiero triste che si balla, il tango è il respiro della cittá, i corpi che si toccano e vibrano, è nostalgia di amori perduti, di speranze che si sono spente, di illusioni inseguite per le strade del mondo. Il tango è volver , (ritornare),  sentir que es un soplo la vida, (sentire che la vita è un soffio) , mi Buenos Aires querido , cuando yo te vuelva a ver, no habrá más penas ni olvido (mia amata Buenos Aires, quando ti rivedrò,non ci saranno  più pene né oblio). Il tango è nato dai suburbi di questa città e va percorrendo le strade del mondo nei suoi sensuali compás, nel suono struggente del bandoneón. Il tango è lasciarsi  trascinare nel suo insondabile mistero, è Gardel, la musica tradizionale dei quartieri poveri e poi il successo tra i borghesi, il tango che impazza a Parigi, che si balla nelle sale del mondo, è il tango di Piazzolla, sentirlo è come sentire la città che respira, sedersi al vecchio caffé Tortoni, laddove gli intellettuali discutevano e sognavano, passeggiare a ridosso del ponte di ferro de La Boca via via fino a Caminito, visitare la casa di Gardel al Abasto, muoversi a La Recoleta tra il cimitero, la chiesa, i giganteschi alberi della piazza, il mercato degli artigiani, entrare in un conventillo restaurato, scivolare in barca tra i meandri del delta del Tigre nel silenzio di un tramonto.

    La città canta l’amore come passione, inquietante, disperato, la città canta le donne, le vere assolute protagoniste del tango. Le donne di Buenos Aires sono belle, sottili come giunchi, carnose come orchidee, eleganti, audaci, intente a reinventarsi ogni giorno la vita. Le cantano i poeti, le canta la musica che percorre la città fin nelle sue viscere più segrete.

Malena di Demare-Manzi, uno dei tanghi più famosi, ci dice che  "Malena canta il tango como ninguna/y en cada verso pone su corazón./A yuyo de suburbio su voz perfuma/ Malena tiene pena de bandonéon." (Malena canta il tango come nessuna/E in ogni verso mette il suo cuore./Ad aroma di suburbio la sua voce profuma./Malena possiede una pena da bandoneón).

   La città canta il coraggio di resistere, la determinazione a costruirsi il domani, la città si riflette sui suoi passi e sulle orme impresse nel reticolato ordinato delle strade, nel passato turbolento, nel presente che non consente tregua. La città è la negra Sosa, esule a Parigi durante la dittatura, tornata in patria per trasformarsi nel  cantore delle memorie e delle speranze di un popolo. Mercedes ha cantato nei teatri per i borghesi e nei parchi, all’aperto, gratis, per gli altri, per tutti, perché lei è stata la voce dell’Argentina che condanna l’errore e alimenta la speranza. Il suo canto ha scaldato i cuori e fatto ruotare le ruanas e i ponchos nella notte, come bandiere colorate che segnano l’appartenenza alla storia comune, quando le sue parole si libravano alte e forti nella notte:  Sólo le pido a Dios/que la guerra no me sea indiferente/es un monstruo grande y pisa fuerte/toda la pobre inocencia de la gente./  Sólo le pido a Dios que lo injusto no me sea indiferente/si un traidor puede más que unos/cuantos/que esos cuantos no lo olviden facilmente /. (A Dio chiedo soltanto / che la guerra non mi sia indifferente/ è un mostro grande e calpesta forte/ tutta la povera innocenza della gente./ A Dio chiedo soltanto che l'ingiustizia non mi sia indifferente/ se un traditore può più di tanti/ che questi tanti non dimentichino facilmente.)

Buenos Aires è Juan Gelman, il suo più grande poeta vivente: un figlio e una nuora desaparecidos, una passione totale per la poesia, per la giustizia e la dignità dell’essere. "Seduto al bordo di una sedia sfondata,/nauseato, malato, quasi vivo,/scrivo versi previamente pianti/per la città dove nacqui./Bisogna acchiapparli, anche qui/sono nati figli teneri miei/che tra tanto castigo ti addolciscono bellamente./Bisogna imparare a resistere./Né ad andarsene né a restare,/a resistere,/sebbene sia sicuro/che ci saranno ancora pene e oblio. ". (Mi Buenos Aires querido di Juan Gelman)

   La bellezza della loro forza tra le rughe e gli anni,  le Madri di Plaza de Mayo la nascondono sotto i loro fazzoletti bianchi, la bellezza di una lotta che l’amore sostiene. Quella lotta che nelle parole di Ernesto Sabato illumina vite e scrittura. Sabato ha diretto i lavori di “Nunca más” il testo che raccoglie le testimonianze sulla feroce dittatura che dal ’76 all’83 ha insanguinato il paese."Ho vissuto in un tempo storico di rottura e sono tanto vecchio che ci sono in me diverse sedimentazioni, come nelle montagne. Così ancora conservo della mia giovinezza i marchi delle lotte sociali. Penso che i ragazzi mi ameranno  perché non ho mai smesso di lottare, perché non ho ottenuto di installarmi in nessuna epoca, e oggi, che vacillo, mi sento vicino alla gente che ha imparato a vivere in un altro modo. E molto vicino ai giovani che dopo questo orrrore di mediocrità, indecenza e ferocia, spingono per nascere a un’altra cultura che ritorni a mettere radici in un suolo piú umano".

   Buenos Aires coltiva la memoria, Buenos Aires si cerca, si riconosce o no, negli articoli del Clarín, de La Nación, de Pagina 12, nel passato trionfante o tragico, nel presente che va facendosi, Buenos Aires indaga, assolve, condanna, lotta e sogna, Buenos Aires si allarga nello spazio, nel tempo delle sue idee più audaci, dei suoi sogni più ostinati.

   Buenos Aires ama gli spazi aperti, i boschi del quartiere di Palermo in piena città; le grandi piazze, le strade come autostrade dove il traffico scorre quasi sempre ordinato e veloce e gli autobus li aspetti solo qualche minuto, mettendoti in fila. Buenos Aires ama la sua 9 (Nueve) de julio, la strada più larga del mondo, l’obelisco simbolo della città che ne segna l’incrocio nevralgico in pieno centro. Qui si viene a manifestare il proprio dissenso o la propria allegria. Qui si festeggiano le glorie nazionali e si criticano i propri fallimenti. Qui si fanno i caroselli quando finisce una dittatura o si cacciano i cattivi governanti, qui si piange e si ride, qui la notte di Capodanno si stappano centinaia di bottiglie di champagne e dai palazzi intorno scende una pioggia di piccoli coriandoli, qui si festeggia una vittoria ai mondiali di calcio.

Buenos Aires ama il calcio come ama la cultura. Ogni quartiere ha il suo stadio, ogni stadio la sua squadra. I suoi intellettuali amano questo gioco, la straordinaria fantasia de los hinchas, i tifosi che inventano canti, parole, danze per un rituale che in questo paese non ha detrattori, né rifiuti snobistici. Buenos Aires è Maradona, il numero dieci più famoso del mondo, la mano de Dios, il ragazzo partito dal niente, senza strumenti se non quel suo feroce talento, poi il trionfo, la gloria, la caduta e ora di nuovo la rinascita.

   Perché Buenos Aires sa costruire i miti, esaltare le fragilità, coniugare il dolore e la gioia nella stessa storia umana, che sia Evita, o Gardel o Diego o Borges, il grande cieco della sua letteratura. Buenos Aires ha la voce di Soriano che può mettere nella stessa storia Maradona e il generale Gualtieri  ed è  chiaro   dove vanno le sue simpatie e quelle di tutti: al Maradona che con i suoi acrobatici goal incendia lo stadio della Bombonera nel popolare quartiere de La Boca, non certo al generale delle Malvinas. "Quando Diego Maradona saltò davanti al portiere Shilton  e gli fece passare con la mano la palla sopra la testa, alle Malvinas il consigliere municipale Louis Clifton avvertì il primo mancamento. Il secondo, più prolungato, si verificò quando Diego dribblò una mezza dozzina di inglesi e segnò il secondo goal per l’Argentina. Fuori un vento spazzava le strade deserte di Port Stanley ( quello che per noi è Puerto Argentino) e le truppe britanniche chiuse in caserma ascoltavano, turbate, come il piccolo diavolo di Napoli stava rovinando la festa del quarto anniversario della riconquista di quelle che loro chiamavano Falklan....Nelle strade di Buenos Aires sfilavano centinaia di macchine imbandierate che chiedevano la restituzione delle Malvinas perdute dal generale Galtieri nel 1982. Nei camion pieni di ragazzotti che scendevano dai quartieri di periferia si inneggiava al nome di Maradona, e le radio ritrovavano i toni sciovinisti che avevano accantonato dopo la capitolazione di Puerto Argentino...Don Salvatore, mio vicino di casa, era caduto dalla seggiola al secondo goal di Maradona... continuava a delirare, domandò perché mai, avendo noi un giocatore come Maradona, non fossimo riusciti a pagare il debito con il Fondo Monetario Internazionale".  (Maradona sí, Gualtieri no di Osvaldo Soriano)

   Buenos Aires  è come una delle città invisibili di Calvino, un itinerario nel labirinto, un caleidoscopio di genti, di metafore, di racconti fondato sull’immaginario di tutti, esaltante e terribile, emozionante  e sorprendente, una città europea, americana e sudamericana allo stesso tempo, stratificata nelle sue memorie come un crogiuolo di genti, di esperienze, di lingue, eppure con un'identità tutta sua, forte, riconoscibile, che ammette cambi bruschi, continue metamorfosi, che si costruisce ogni giorno   nel fascino perturbante delle sue mille contraddizioni, nelle vite che la abitano, nei passi di chi la percorre, nella voce  di chi la racconta e la canta,  nel cuore di chi  la ama.

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