13 febbraio 2016

da "Le città invisibili" - Italo Calvino

Roma
da "Le città invisibili" - Italo Calvino 

KUBLAI: – Non so quando hai avuto il tempo di visitare tutti i paesi che mi descrivi. A me sembra che tu non ti sia mai mosso da questo giardino.
POLO: – Ogni cosa che vedo e faccio prende senso in uno spazio della mente dove regna la stessa calma di qui, la stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie. Nel momento in cui mi concentro a riflettere, mi ritrovo sempre in questo giardino, a quest’ora della sera, al tuo augusto cospetto, pur seguitando senza un attimo di sosta a risalire un fiume verde di coccodrilli o a contare i barili di pesce salato che calano nella stiva.
KUBLAI: – Neanch’io sono sicuro d’essere qui, a passeggiare tra le fontane di porfido, ascoltando l’eco degli zampilli, e non a cavalcare incrostato di sudore e di sangue alla testa del mio esercito, conquistando i paesi che tu dovrai descrivere, o a mozzare le dita degli assalitori che scalano le mura d’una fortezza assediata.
POLO: – Forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate, e mai abbiamo interrotto, tu di sollevare polvere sui campi di battaglia, io di contrattare sacchi di pepe in lontani mercati, ma ogni volta che socchiudiamo gli occhi in mezzo al frastuono e alla calca ci è concesso di ritirarci qui vestiti di chimoni di seta, a considerare quello che stiamo vedendo e vivendo, a tirare le somme, a contemplare di lontano.
KUBLAI: – Forse questo nostro dialogo si sta svolgendo tra due straccioni soprannominati Kublai Kan e Marco Polo, che stanno rovistando in uno scarico di spazzatura, ammucchiando rottami arrugginiti, brandelli di stoffa, cartaccia, e ubriachi per pochi sorsi di cattivo vino vedono intorno a loro splendere tutti i tesori dell’Oriente.
POLO: – Forse del mondo è rimasto un terreno vago ricoperto da immondezzai, e il giardino pensile della reggia del Gran Kan. Sono le nostre palpebre che li separano, ma non si sa quale è dentro e quale è fuori.
POLO: – ... Forse questo giardino affaccia le sue terrazze sul lago della nostra mente...
KUBLAI: – ... e per lontano che ci portino le nostre travagliate imprese di condottieri e di mercanti, entrambi custodiamo dentro di noi quest’ombra silenziosa, questa conversazione pausata, questa sera sempre uguale.
POLO: – A meno che non si dia l’ipotesi opposta: che quelli che s’arrabattano negli accampamenti e nei porti esistano solo perché li pensiamo noi due, chiusi tra queste siepi di bambù, immobili da sempre.
KUBLAI: – Che non esistano la fatica, gli urli, le piaghe, il puzzo, ma solo questa pianta d’azalea.
POLO: – Che i portatori, gli spaccapietre, gli spazzini, le cuoche che puliscono le interiora dei polli, le lavandaie chine sulla pietra, le madri di famiglia che rimestano il riso allattando i neonati, esistano solo perché noi li pensiamo.
KUBLAI: – A dire il vero, io non li penso mai.
POLO: – Allora non esistono.
KUBLAI: – Questa non mi pare una congettura che ci convenga. Senza di loro mai potremmo restare a dondolarci imbozzoliti nelle nostre amache.
POLO: – L’ipotesi è da escludere, allora. Dunque sarà vera l’altra: che ci siano loro e non noi.
KUBLAI: – Abbiamo dimostrato che se noi ci fossimo,non ci saremmo.
POLO: – Eccoci qui, difatti.

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