2 giugno 2020

da Se una notte d’inverno un viaggiatore



Marc Chagall, Il viaggiatore, 1917. Grafite e acquerello su carta, 38,1 x 48,7 cm, Sam and Ayala Zacks Collection.
da Se una notte d’inverno un viaggiatore

Io sono l'uomo che va e viene tra il bar e la cabina telefonica. Ossia; quell'uomo si chiama «io» e non sai altro di lui, così come questa stazione si chiama soltanto «stazione» e al di fuori di essa non esiste altro che il segnale senza risposta d'un telefono che suona in una stanza buia d'una città lontana. Riattacco il ricevitore, attendo lo scroscio di ferraglia giù per la gola metallica, ritorno a spingere la porta a vetri, a dirigermi verso le tazze ammucchiate ad asciugare in una nuvola di vapore. Le macchine-espresso nei caffè delle stazioni ostentano una loro parentela con le locomotive, le macchine espresso dì ieri e di
oggi con le locomotive e i locomotori di ieri e di oggi. Ho un bell'andare e venire, girare e dar volta: sono preso in trappola, in quella trappola atemporale che le stazioni tendono
immancabilmente. Un pulviscolo di carbone ancora aleggia nell'aria delle stazioni dopo tanti anni che le linee sono state tutte elettrificate, e un romanzo che park di treni e stazioni non può non trasmettere quest'odore di fumo. E già da un paio di pagine che stai andando avanti a leggere e sarebbe ora che ti si dicesse chiaramente se questa a cui io sono sceso da un treno in ritardo è una stazione d'una volta o una stazione d'adesso; invece le frasi continuano a muoversi nell'indeterminato, nel grigio, in una specie di terra di nessuno dell'esperienza ridotta al minimo comune denominatore. Sta' attento: è certo un sistema per coinvolgerti a poco a poco, per catturarti nella vicenda senza che te ne renda conto: una trappola. O forse l'autore è ancora indeciso, come d'altronde anche tu lettore non sei ben sicuro di cosa ti farebbe più piacere leggere: se l'arrivo a una vecchia stazione che ti dia il senso d'un ritorno all'indietro, d'una rioccupazione dei tempi e dei luoghi perduti, oppure un balenare di luci e di suoni che ti dia il senso d'essere vivo oggi, nel modo in cui oggi si crede faccia piacere essere vivo. Questo bar (o «buffet della stazione»
come viene pure chiamato) potrebbero esser stati i miei occhi, miopi o irritati, a vederlo sfocato e nebbioso mentre invece non è escluso che sia saturo di luce irradiata da tubi colore del lampo e riflessa da specchi in modo da colmare tutti gli anditi e gli interstizi, e lo spazio senza ombre straripi di musica a tutto volume che esplode da un vibrante apparecchio uccidi-silenzio, e i biliardini e gli altri giochi elettrici simulanti corse ippiche e cacce all'uomo siano tutti in azione, e ombre colorate nuotino nella trasparenza d'un televisore e in quella d'un acquario di pesci tropicali rallegrati da una corrente verticale di bollicine d'aria. E il mio braccio non regga una borsa a soffietto, gonfia e un po' logora, ma spinga una valigia quadrata di materia plastica rigida munita di piccole ruote, manovrabile con un bastone metallico cromato e pieghevole.

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