da “Prima
che tu dica” - Italo Calvino
Vorrei portarti con me.
Resisteresti
poco, al freddo senza l’afa estiva ma sarebbe un’esperienza diversa, no? Poi ti
riporterei indietro, come è giusto che sia. Ma per un po’ ti porterei con me.
Ti
racconterei le cose che non avrò il tempo di finire di dirti. Solo per quello,
per trovare il modo che duri di più. Ti farei guardare il mare freddo, così
apprezzeresti il tuo. Ti farei una foto e la lascerei nel cassetto per le volte
che avrò voglia di guardarti con i capelli scompigliati e il sorriso accennato.
Mangeremmo e
dormiremmo poco perché non ci sarebbe il tempo; tutto quello che vorresti
cercherei di dartelo. Ti farei esprimere un desiderio e lo esaudirei. Solo uno,
perché tre non sarei capace.
Ti farei
almeno un paio di domande scomode, perché così ti fideresti di me; perché così,
se ti telefonassi almeno una volta, sussulteresti un pochino e quando deciderai
di andare via, ci sarà almeno una volta in cui vorrai tornare.
Vorrei che
ti fossi innamorata di me, per chiedermi di restare. Ma forse tu impieghi tanto
per innamorarti e allora è per questo che vorrei portarti con me: per farti
innamorare.
Verresti?
No, non
verrei. Perché dovrei?
Non credo
che mi riporteresti indietro, non voglio che tu faccia di tutto per me. Il
suono è simile a quello della tua voce, non della mia: vorrei che lo capissi e
te ne rendessi conto. Le tue parole sono esigenti e mi si stringono al cuore.
L’unisono tra di noi non funziona. Il moto di due anime in una non esiste. Non
vorrei foto di questo momento, né motivi per lasciare che non finisca. È
doloroso da ricordare. Cosa c’è di poetico in una sensazione moritura? Se lo
volessi, non farei in modo che arrivi la fine. Perché è questo il punto: io sto
facendo in modo che l’ultimo secondo di tutto accada, capisci? Permettimi di
dire di no. Permettimi di non esserti accanto. Permettimi di decidere di non
esserci come vuoi tu.
Pensare che
sia per due, per renderti i pensieri più facili; lo sai che mi stai raccontando
una bugia mentre mi chiedi ‘verresti?‘
Certo che lo
sai.
Venire? Cosa
potrebbe dire? Cosa saremmo?
La mia
automobile scivola da sola verso casa mentre rileggo le tue parole. Cerco di
trovare interpretazione, tentando di valicare le frasi così come sono – cunei –
e trovarci l’intenzione inespressa di dire dell’altro. Cerco titubanze,
virgole, mi soffermo sui dettagli. Ma io di dettagli non capisco nulla. Non so
come sono fatti, in verità.
Potrei
rimanere attaccato alla balaustra a due mani, mangiare tutte le merendine della
macchinetta accanto all’ingresso del gate pur di restare a guardare il fiume da
un lato e la strada dall’altro.
Fissare
l’asfalto fino a farmelo entrare negli occhi e bucarmeli per non vedere la via
di casa: questo dovrebbe accadere affinché io vada via da qui e mi rassegni
alle tue parole. Credevo di non essere capace di rimanere in silenzio a
guardare. Sono solito pensare di me cose molto positive: grande cuore, grande testa,
spirito d’iniziativa, forte indipendenza; pensavo di non essere capace di
restare a guardare inerme.
È una di
quelle circostanze che non si addicono agli spiriti vincenti. È come ammettere
di avere un buco scoperto e lasciare che qualcuno ci infili un dito dentro,
stracciando carne e tessuti, graffiando vasi, fino a tingere di rosso i vestiti
e non poter, così, celare l’affanno.
Eppure io
sono un tipo sveglio, non mi lascio abbindolare facilmente; ho sempre saputo
tenerle a distanza e prosciugarne il necessario. Ecco, sì: non sono mai andato
al di là del necessario con quasi nulla. Solo di foglie d’albero ne ho troppe,
perché ne faccio collezione.
Ne ho
mangiate molte di merendine della macchinetta ma adesso, alla guida, con le
mani poco convinte e smaniose, non ne ricordo il sapore singolo e anche gli
incartamenti mi paiono tutti uguali. Non posso distinguere il caramello dal
fiordilatte e questi dal cioccolato: ho un solo amalgama appiccicaticcio nella
bocca.
Mi sembra
strano sentirmi così sopra le righe. Mi sembra strano, ancora, sentire quegli
occhi addosso. I tuoi e i miei insieme, che erano altro, lo sono stato lo so,
lungo il fiume e poi sono irrimediabilmente scomparsi dopo un battito di
ciglia. Un movimento fisiologico ne ha decretato la fine ed io lo vado cercando,
adesso, mentre mi dirigo verso casa, seguo la scia per provare a seguirti.
Che pena.
Sperare, intendo. È la pena di chi non sa rinunciare.
Non so
raccontare una volta in cui tu mi avevi detto di essere felice, in effetti. E
nemmeno una volta in cui te l’ho detto io, d’altronde. Non credo minimamente di
esserti venuto incontro per davvero, con foga ed eccitazione, per abbracciarti
di sorpresa.
Non mi viene
in mente la prima volta che t’ho visto. So quand’è, con precisione, perché io
ero al bancone di un bar con una ragazza che mi piaceva molto. E che ho
abbracciato con slancio e voluto tante di quelle volte da essermene invaghito e
addirittura innamorato a un certo punto.
Ricordo
d’averti preso in consegna nella mia mente, ma non d’averti visto. Non so
nemmeno com’eri vestita. So solo che ti sei passata una mano tra i capelli, il
gesto più comune che si possa recuperare nella memoria. Eppure io l’ho
registrato. In realtà potrebbe essere falso. Potrei aver traslato la mano di un
altro sulla tua e adesso cucirti addosso un movimento che non t’è appartenuto.
Avevi un
braccialetto che si compra al mare, di quelli di cotone colorato, che dicono
porti fortuna e poi, un giorno, si spezzi per far avverare un desiderio. Di
quelli che hanno tutti, eccetto me, poiché io non li sopporto: rimangono
bagnati per ore, dopo la doccia, ed umidi sulla pelle.
Mi sono
chiesto quale potesse essere il tuo desiderio. È la prima cosa su cui mi sono
interrogato guardandoti quella volta e pensandoti i giorni successivi. Se tu
avessi un desiderio sopra tutti, se fosse legato a quel braccialetto o a un
sentimento. Ho sentito il bisogno di saperlo, come se fosse il tuo nome.
Avevi anche
un anello costoso. Sottile, ma prezioso. Un anello facile, che non sorprende se
lo regali. Non so perché l’avessi notato. Niente a che vedere coi tuoi occhi,
mi rendo conto. A chiunque avessi chiesto di te nei giorni seguenti, continuavo
a dire di non avere in mente i tuoi occhi: eppure sono meravigliosi. Non mi
viene un’altra parola in mente. Dovrei inventarla ma non sono capace, tu lo
sai. Posso fartelo intuire ma non so spiegarlo.
Non capisco
perché non me li sono incollati addosso. Avevo notato di te solo i dettagli
peggiori fra tutti gli altri; ciononostante ti cercavo già il giorno dopo.
Mentre passeggiavo sotto casa tua, nelle sere a seguire, speravo di notare i
tuoi movimenti alla finestra oppure con chi saresti uscita. Desideravo vederti
da sola, che, una volta sull’uscio, ti guardassi intorno e vedendomi rimanessi
piacevolmente compiaciuta.
Avrei voluto
essere io nei tuoi sogni, a ispirare i tuoi sonni e farti felice. Ma lo so di
non potere. Eppure questa consapevolezza non m’ha fatto smettere di volerti
portare via con me.
Non capisco.
Non capisco cosa vuoi dire. Mi pare assurdo che tu pensi di poter amarmi.
Quanto abbiamo passato insieme? Non capisco perché tu voglia portarmi con te.
Non sai nulla.
Ti ho rubato
anche un sorriso triste quella sera. È andata così: io ti ho guardata per un
momento, mentre ti passavi le mani nei capelli, e stavi sorridendo, ma non alla
persona con cui parlavi. Sorridevi, rivolta verso il basso come per un pensiero
veloce da far svanire. E, rivolto di nuovo il tuo volto verso l’alto, ti ho
sorpresa triste, come se quel pensiero felice andasse celato.
Sorridi solo
quando qualcuno o qualcosa ti fa ridere, ma non dovresti. A me piace, ma non
dovresti. La felicità pare si auguri a tinte pastello e così mi tocca fare, con
te, adesso: cercare di farti togliere dal viso i tuoi sorrisi tristi, come ho
sempre fatto, d’altronde.
Potremmo
essere in giro a passeggiare in una città qualunque, col caldo, mano nella mano
e io dovrei accorgermi del tuo sorriso triste e allora darti un bacio o
prenderti il viso e farti fare una smorfia che mimi la gioia. Sorrideresti e il
mio desiderio di felicità per te sarebbe compiuto. La verità è che i tuoi
sorrisi tristi a me piacciono, perché a te stanno bene, perché li sai trattare,
li sai adoperare e mettere in fila senza che rompano le righe. Se lo facessi io
sarei penoso.
Questo è il
punto: faccio pensieri e desidero cose nuove. Non importa cosa so. Per la prima
volta, non importa.
Non so da
dove vengono o come si chiamino e non potrei spiegarle a nessuno eccetto te,
con un po’ di tempo, con un po’ di pause, con quei silenzi che non saprei
riempire, all’inizio. Ma potrei imparare.
Sono un
pessimo romantico, lo ammetto. È per questo che non sono riuscito a farti
innamorare. Lo so che è così. Ho immaginato che potessi bastare io, con i miei
modi normali e l’aria spavalda. Fintamente sicura. E del tempo, per spiegarti
quello che manca, per farti vedere che ne sarebbe valsa la pena, alla fine.
Ho provato,
che dire, a farmi scegliere. Ho sperato. Dovevo. Era una possibilità, capisci?
Come fare a metterla via, a dimenticarla. Forse aspettando, forse non era il
momento. Forse io e te abbiamo un altro tempo. Sono sicuro che con qualche
giorno in più, ora in più, ti avrei portato via con me. È l’idea che almeno una
volta succeda, no? Hai presente? Quell’idea invasiva e sotterranea che si
inabissa o si palesa e lo fa una volta sola per tutte e se l’avverti non puoi
far finta di niente se hai un po’ di senno.
Come un
sibilo fluttuante e sinuoso.
A me è
successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente, non volevo, in
fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo, per
egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se
era rischioso. Anche se tu non vuoi, anche se, infine, la tua felicità non dipende
da me.
E non posso
fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro.
Verresti?
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