La morte di Ippolito - Jean Baptiste Lemoyne the Elder
Dialoghi con Leucò 18. Il lago - Cesare Pavese
Ippolito,
cacciatore vergine di Trezene, morì di mala morte per dispetto di Afrodite. Ma
Diana, resuscitatolo, lo trafugò in Italia (l'Esperia) sui monti Albani dove lo
adibì al suo culto, chiamandolo Virbio. Virbio ebbe figli dalla ninfa Aricia.
Per gli antichi l'Occidente - si pensi all'Odissea - era il paese dei morti.
(parlano Virbio e Diana)
Virbio. Ti dirò che venendoci mi piacque. Questo lago
mi parve il mare antico. E fui lieto di viver la tua vita, di esser morto per
tutti, di servirti nel bosco e sui monti. Qui le belve, le vette, i villani non
san nulla, non conoscono che te. E' un paese senza cose passate, un paese dei
morti.
Diana. Ippolito...
Virbio. Ippolito è morto, tu mi hai chiamato Virbio.
Diana. Ippolito, nemmeno morendo voi mortali
scordate la vita?
Virbio. Senti. Per tutti sono morto e ti servo.
Quando tu mi hai strappato all'Ade e ridato alla luce, non chiedevo che di
muovermi, respirare e venerarti. Mi hai posto qui dove terra e cielo risplendono,
dove tutto è sapido e vigoroso, tutto è nuovo. Anche la notte qui è giovane e
fonda, più che in patria. Qui il tempo non passa. Non si fanno ricordi. E tu
sola regni qui.
Diana. Sei tutto intriso di ricordi, Ippolito. Ma
voglio ammettere un istante che questa sia terra di morti: che altro si fa
nell'Ade se non riandare il passato?
Virbio. Ippolito è morto, ti dico. E questo lago che
somiglia al cielo non sa nulla d'Ippolito. Se io non ci fossi, questa terra
sarebbe ugualmente com'è. Pare un paese immaginato, veduto di là dalle nubi.
Una volta - ero ancora ragazzo - pensai che dietro i monti di casa, lontano,
dove il sole calava - bastava andare, andare sempre - sarei giunto al paese
infantile del mattino, della caccia, del gioco perenne. Uno schiavo mi disse:
" Bada a quel che desideri, piccolo. Gli dèi lo concedono sempre ".
Era questo. Non sapevo di volere la morte.
Diana. Questo è un altro ricordo. Di che cosa ti
lagni?
Virbio. O selvaggia, non so. Sembra ieri che aprii
gli occhi quaggiù. So che è passato tanto tempo, e questi monti, quest'acqua,
questi alberi grandi sono immobili e muti. Chi è Virbio? Sono altra cosa da un
ragazzo che ogni mattina si ridesta e torna al gioco come se il tempo non
passasse?
Diana. Tu sei Ippolito, il ragazzo che morì per
seguirmi. E ora vivi oltre il tempo. Non hai bisogno di ricordi. Con me si vive
alla giornata, come la lepre, come il cervo, come il lupo. E si fugge,
s'insegue sempre. Questa non è terra di morti, ma il vivo crepuscolo di un
mattino perenne. Non hai bisogno di ricordi, perché questa vita l'hai sempre
saputa.
Virbio. Eppure il sito qui è davvero più vivo che in
patria. C'è in tutte le cose e nel sole una luce radiosa come venisse
dall'interno, un vigore che si direbbe non ancora intaccato dai giorni. Che
cos'è per voi dèi questa terra d'Esperia?
Diana. Non diversa
dalle altre sotto il cielo. Noi non viviamo di passato o d'avvenire. Ogni
giorno è per noi come il primo. Quel che a te pare un gran silenzio è il nostro
cielo.
Virbio. Pure ho vissuto in luoghi che ti sono più
cari. Ho cacciato sul Dìdimo, corse le spiagge di Trezene, paesi poveri e
selvaggi come me. Ma in questo inumano silenzio, in questa vita oltre la vita
non avevo mai tratto il respiro. Cos'è che la fa solitudine?
Diana. Ragazzo che sei. Un paese dove l'uomo non era
mai stato, sarà sempre una terra dei morti. Dal tuo mare e dalle isole ne
verranno degli altri, e crederanno di varcare l'Ade. E ci sono altre terre più
remote...
Virbio. Altri laghi, altri mattini come questi.
L'acqua è più azzurra delle prùgnole tra il verde. Mi par di essere un'ombra
tra le ombre degli alberi. Più mi scaldo a questo sole e mi nutro a questa
terra, più mi pare di sciogliermi in stille e brusii, nella voce del lago, nei
ringhi del bosco. C'è qualcosa di remoto dietro ai tronchi, nei sassi, nel mio
stesso sudore.
Diana. Queste sono le smanie di quand'eri ragazzo.
Virbio. Non sono più un ragazzo. Conosco te e vengo
dall'Ade. La mia terra è lontana come le nuvole lassù. Ecco, passo fra i
tronchi e le cose come fossi una nuvola.
Diana. Tu sei felice, Ippolito. Se all'uomo è dato
esser felice, tu lo sei.
Virbio. E' felice il ragazzo che fui, quello
che è morto. Tu l'hai salvato, e ti ringrazio. Ma il rinato, il tuo servo, il
fuggiasco che guarda la quercia e i tuoi boschi, quello non è felice, perché
nemmeno sa se esiste. Chi gli risponde? chi gli parla? l'oggi aggiunge qualcosa
al suo ieri?
Diana. Dunque, Virbio, è tutto qui? Vuoi compagnia?
Virbio. Tu lo sai ciò che voglio.
Diana. I mortali finiscono sempre per chiedere
questo. Ma che avete nel sangue?
Virbio. Tu chiedi a me che cosa è il sangue?
Diana. C'è un divino sapore nel sangue versato.
Quante volte ti ho visto rovesciare il capriolo o la lupa, e tagliargli la gola
e tuffarci le mani. Mi piacevi per questo. Ma l'altro sangue, il sangue vostro,
quel che vi gonfia le vene e accende gli occhi, non lo conosco così bene. So
che è per voi vita e destino.
Virbio. Già una volta l'ho sparso. E sentirlo
inquieto e smarrito quest'oggi, mi dà la prova che son vivo. Né il vigore delle
piante né la luce del lago mi bastano. Queste cose son come le nuvole, erranti
eterne del mattino e della sera, guardiane degli orizzonti, le figure dell'Ade.
Solamente altro sangue può calmare il mio. E che scorra inquieto, e poi sazio.
Diana. A pigliarti in parola, tu vorresti sgozzare.
Virbio. Non hai
torto, selvaggia. Prima, quando ero Ippolito, sgozzavo le belve. Mi bastava.
Ora qui, in questa terra dei morti, anche le belve mi dileguano tra mano come
nubi. La colpa è mia, credo. Ma ho bisogno di stringere a me un sangue caldo e
fraterno. Ho bisogno di avere una voce e un destino. O selvaggia, concedimi
questo.
Diana. Pensaci bene, Virbio-Ippolito. Tu sei stato
felice.
Virbio. Non importa, signora. Troppe volte mi sono
specchiato nel lago. Chiedo di vivere, non di essere felice.
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