21 novembre 2017

da La torre – Storia di una moderna Atlantide - Uwe Tellkamp

Georg Flegel -Natura morta biscotti dolci
da La torre – Storia di una moderna Atlantide - Uwe Tellkamp

(…)
Lange e Stahl si sfregarono le mani, impazienti e si leccarono le labbra. Il tè, il caffè, e il cacao appena fatto profumavano; c’erano marmellata di meta cotogna e d ciliegie, mousse di prugne e miele di bosco e vicino al vassoio dei panini, coperto con un fazzoletto, c’era un piatto con una specialità di Libussa: una specie di pasta compatta di albicocche secche tagliata a fettine sottili. Christian, che sbirciava di continuo in direzione del piatto incontrando spesso il ghigno di Stahl, che sedeva molto più vicino di lui a questa leccornia, pensava che stimolasse la crescita e lo sviluppo decisamente più del latte caldo. Libussa e suo marito giunsero le mani in preghiera “Siediti alla nostra mensa, Signore, e benedici i doni che ci hai dato”. Radio Dresda trasmetteva una poesia di un meritevole combattente e alto funzionario dell’associazione degli intellettuali. Meno ascoltava con una smorfia di sofferenza sul volto, mentre gli altri, anche Christian, si servivano impassibili. Parlava di ideali, di un futuro luminoso, di Lenin e Marx, e di atti eroici nei cantieri del domani, della creazione del comunismo e “di te, compagno, che siedi quieto a colazione, /libero dai crucci di coloro, / che sono di guardia!”. Stahl, che si stava aprendo un panino, s’interruppe. “Di’ un po’ Meno, devi leggere tutti i giorni roba simile? ‘Tu che siedi quieto a colazione...’” (...)
Christian capì che il momento era favorevole e infilzò con la forchetta due fettine di dolce alle albicocche.
“Questo è ciò che ascoltano volentieri a Bisanzio. Se fosse per loro gli scrittori dovrebbero scrivere solo roba del genere.”
“Devono proprio trasmetterla? Tot versi al mese per i funzionari che fanno pacificamente colazione? Non potrebbero,” Stahl si guardò intorno, cercando, “mettere in versi qualcosa di quotidiano”. (...) Meno rise, afferrò una rosetta, l’osservò un momento, con un lampo beffardo negli occhi. Si alzò, protese il panino davanti a sé con un gesto teatrale:
È te, schietta rosetta di Dresda, che voglio cantare,
tu che rigogliosa e paffuta reclami una fame insaziabile,
vieni e dimmi, arrivi forse dallo spaccio elisio,
t’ha forse raschiata dalla teglia statale il fornaio Nopper,
o forse provieni con sentimento dall’infarinata bottega di Wachendorf,
o dalle ceste già imbronciate di primo mattino di Walther o del panettiere Georg?
Oh su, evento pastoso di Dresda, parla,
come dovrebbe chiamarti la bocca cupida e vorace del tuo cantore,
che con labbra ingorde compone per te un’avida canzone?
Orgogliosa ed elastica come... un seno di fanciulla? Invogli all’assaggio,
ma soltanto di quel che mi vorrai concedere,
dove invece il cantore, come un cane affamato, desidera affondare il suoi denti
ululando e sbranando con fauci animali,
cospicui brandelli dai tuoi fantastici fianchi. Oh, ma come!
Quale nome posso darti, tu, viola cotta al forno,
delizia del palato, dattero vaporoso, cornamusa di Dresda,
cupola da sbaciucchiare e baciata dall’arte,
come puoi sopportare in silenzio quel caldo infernale
oh rosetta capolavoro del genio sassone?
(…)

traduzione di Francesca Gabelli, Bompiani, 2010

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