17 dicembre 2018

da "Eva Luna racconta" - Isabel Allende

da "Eva Luna racconta" - Isabel Allende
Nella valle del cataclisma il terzo giorno iniziò con una pallida luce tra i nuvoloni. Il Presidente della Repubblica giunse nella zona e apparve in tenuta da campo per confermare che era la peggior disgrazia del secolo, il paese era in lutto, le nazioni sorelle avevano offerto aiuto, si ordinava lo stato d’assedio, le Forze Armate non avrebbero avuto pietà, avrebbero fucilato senza processo chiunque fosse stato sorpreso a rubare o a commettere altri delitti. Aggiunse che era impossibile recuperare tutti i cadaveri o accertare la sorte delle migliaia di dispersi, per cui l’intera valle sarebbe stata dichiarata camposanto e i vescovi sarebbero venuti a celebrare una messa solenne per l’anima delle vittime. Si diresse alle tende dell’Esercito, dove si accalcavano i salvati, per dar loro il sollievo di promesse incerte, e all’improvvisato ospedale per dire una parola di incoraggiamento ai medici e alle infermiere, stremati da tante ore di penurie. Poi si fece condurre al luogo in cui si trovava Azucena, che allora era già celebre perché la sua immagine aveva fatto il giro del pianeta. La salutò con la sua languida mano di statista e i microfoni registrarono la sua voce commossa e il suo accento paterno quando le disse che il suo coraggio era un esempio per la patria. Rolf Carlé lo interruppe per chiedergli una pompa, e lui gli assicurò che se ne sarebbe occupato personalmente. Riuscii a vedere Rolf per qualche istante, in ginocchio accanto al buco. Nel telegiornale della sera si trovava nella stessa posizione; e io, china sullo schermo come un’indovina sulla sfera di cristallo, capii che qualcosa di fondamentale era cambiato in lui, indovinai che durante la notte erano crollate le sue difese e si era arreso al dolore, finalmente vulnerabile. Quella bambina aveva toccato una parte della sua anima cui lui stesso non aveva avuto accesso, e che non condivise mai con me. Rolf volle consolarla, e fu Azucena a consolare lui. Mi resi conto del momento preciso in cui Rolf smise di lottare e si abbandonò al tormento di vegliare l’agonia della bambina. Io fui con loro per tre giorni e tre notti, spiandoli dall’altro lato della vita. Mi trovavo lì quando lei gli disse che nei suoi tredici anni di vita nessun ragazzo l’aveva amata, e che era un peccato andarsene da questo mondo senza conoscere l’amore, e lui le assicurò che l’amava come non avrebbe mai potuto amare nessuno, più di sua madre e sua sorella, più di tutte le donne che avevano dormito fra le
sue braccia, più di me, la sua compagna, che avrebbe dato qualunque cosa per essere intrappolato in quel buco al suo posto, che avrebbe scambiato la propria vita con quella di lei, e vidi quando si chinò sulla sua povera testa e la baciò in fronte, confuso da un entrambi dalla disperazione, si liberarono dal fango, si innalzarono al di sopra degli avvoltoi e degli elicotteri, volarono insieme sopra quel vasto pantano di putredine e lamenti. E finalmente poterono accettare la morte. Rolf Carlé pregò in silenzio che lei morisse presto, perché non era più possibile sopportare tanto dolore. Allora io avevo trovato una pompa, ed ero in contatto con un generale pronto a mandarla la mattina del giorno seguente con un aereo militare. Ma la sera di quel terzo giorno, sotto le implacabili lampade al quarzo e le lenti di cento telecamere, Azucena si arrese, gli occhi perduti in quelli dell’amico che l’aveva sostenuta fino alla fine. Rolf Carlé le tolse il salvagente, le chiuse gli occhi, la tenne stretta al petto per alcuni minuti e poi la lasciò. Affondò lentamente, un fiore nel fango.
Sei tornato con me, ma non sei più lo stesso uomo. Ogni tanto ti accompagno alla Televisione e rivediamo i video di Azucena, li studi con attenzione, cercando qualcosa che avresti potuto fare per salvarla e che non ti venne in mente in tempo. O forse li esamini per vederti come in uno specchio, nudo. Le tue telecamere sono abbandonate in un armadio, non scrivi né canti, rimani per ore seduto davanti alla finestra guardando le montagne. Al tuo fianco, io aspetto che tu abbia completato il viaggio dentro te stesso e guarito le vecchie ferite. So che quando tornerai dai tuoi incubi cammineremo ancora mano nella mano, come prima.
E in quel momento della sua narrazione Sherazade vide apparire l’alba e tacque discretamente. (Le mille e una notte)

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