17 dicembre 2018

da "Ho sposato un comunista" - Philip Roth

da "Ho sposato un comunista" - Philip Roth
- L’odio per gli ebrei, questo disprezzo che aveva per gli ebrei, - dissi a Murray. - Eppure sposò Ira, sposò Freedman prima di lui…
Era la nostra seconda seduta. Prima di cena eravamo stati sulla veranda che dava sullo stagno e, mentre sorbivamo i nostri martini, Murray mi aveva parlato delle lezioni del sorpreso dalla sua energia mentale, né dal suo entusiasmo per il tema di trecento parole - discutete, dalla prospettiva di una vita, una frase qualsiasi del più famoso soliloquio di Amleto - che il professore aveva assegnato ai suoi anziani studenti. Ma che un uomo così prossimo all’oblio dovesse fare il compito per il giorno dopo, educandosi a una vita che era quasi arrivata alla fine (che l’enigma continuasse a sconcertarlo, che il chiarimento restasse, per lui, un bisogno vitale), questa fu, per me, qualcosa di più che una sorpresa: fui assalito da un senso di colpa, un senso di colpa che sfiorava la vergogna, per il fatto di vivere appartato e di tenere ogni cosa a una così ragguardevole distanza. Ma poi anche il senso di colpa svanì. Non volevo creare altri problemi.
Grigliai un pollo sul barbecue e consumammo la cena fuori sulla veranda. Erano le otto passate da un pezzo quando finimmo, ma era appena la seconda settimana di luglio e, anche se quel mattino, quando ero andato a ritirare la posta, la direttrice dell’ufficio postale mi aveva informato che quel mese avremmo perso quarantanove minuti di sole (e che, se non fosse piovuto al più presto, avremmo tutti dovuto andare a rifornirci di marmellate di more e di lamponi; e che il numero dei morti in incidenti stradali nella zona si era quadruplicato rispetto all’anno prima; e che c’era stato un altro avvistamento, vicino alla mangiatoia per gli uccelli ai margini del bosco, del grosso orso nero del posto), la fine di quella giornata era ancora lontana. La notte era nascosta dietro un cielo chiaro che sembrava proclamare la sua stabilità. Vita senza fine e senza turbamenti.
- Era ebrea? Si, - disse Murray, - un’ebrea patologicamente imbarazzata.
Niente di superficiale in quell’imbarazzo. Imbarazzata perché aveva l’aria di un’ebrea (e la forma del viso di Eve Frame era sottilmente ebraica, con tutte le sfumature fisionomiche della Rebecca di Ivanhoe di Walter Scott), imbarazzata perché anche sua figlia aveva l’aria di un’ebrea. Quando seppe che parlavo spagnolo, mi disse: «Tutti credono che Sylphid sia spagnola.
Quando siamo andati in Spagna, tutti la prendevano per una del posto». Era troppo patetico anche solo per metterlo in dubbio. Tanto, a chi poteva interessare? A Ira no di certo. A Ira non importava di sicuro. Ira era politicamente contrario. Non poteva sopportare nessuna religione. Per Pasqua, Doris aveva l’abitudine di celebrare la festa di Seder con tutta la famiglia, e Ira girava al largo. Superstizioni tribali.
- Io credo che la prima volta che incontrò Eve Frame, Ira fu così affascinato, da lei, da tutto (era appena arrivato a New York, aveva appena cominciato a lavorare in Liberi e audaci, e le faceva da cavaliere nell’American Radio Theater), che il fatto che lei fosse o non fosse ebrea non saltò mai fuori, secondo me. Cosa cambiava, per lui? Ma l’antisemitismo?
Questo sì che cambiava le cose. Anni dopo mi spiegò come, ogni volta che lui diceva la parola «ebreo» in pubblico, lei cercasse di fargli abbassare la voce.
Prendevano l’ascensore in un palazzo dopo essere andati a trovare qualcuno in qualche posto, e c’era una donna con un bebè in braccio o un bebè in carrozzina, e Ira manco li notava, ma quando uscivano in strada Eve diceva: «Che bambino orrendo!» Ira non riusciva a capire cosa la rodesse finché non si rese conto che il bambino orrendo era sempre il figlio di una donna che Eve trovava volgare e somigliante a un’ebrea.

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