29 febbraio 2020

da Un borghese piccolo piccolo – Vincenzo Cerami

da Un borghese piccolo piccolo – Vincenzo Cerami

«Che ora è?» domandò il padre.
«E’ ancora presto!»
«Ci conviene andare a piedi!»
«A piedi?»
«Non è molto lontano e ti farà bene e poi non si sa mai con questo schifoso traffico di Ro-ma…» Bevvero il caffè e con la lingua che ancora scottava uscirono dal bar e intrapresero la marcia verso il Palazzo degli Esami, in viale Trastevere.
La città si andava sempre più animando, le automobili già intasavano gli incroci. Giovanni e Mario non avevano più niente da dirsi e non dicevano più niente neanche a se stessi, forse perché erano troppo vicini a quella tappa così importante o forse perché si erano re-almente svuotati per la tensione che stava lì lì per culminare. Come due spaventapasseri, il figlio dietro al padre, vedevano la terra roteare sotto i loro piedi e avvicinarli implacabil-mente all’esame.
Dimentichi quasi di tutto tiravano su il naso, pronunciavano all’unisono i nomi delle strade e proseguivano in silenzio. E come prima, quando le automobili scortavano il tram, così ora i pedoni li affiancavano, tutti con loro verso il Palazzo degli Esami, come i pesciolini che inseguono la balena nelle avventure degli Oceani.
Piazza Indipendenza, via Nazionale, via Quattro Novembre, piazza Venezia, poi piazza del Gesù con la chiesa barocca, la sede Dc, il palazzo della Massoneria e l’istituto per i sordomuti e infine piazza Argentina.
«Mi fanno male le scarpe», ripeteva ogni tanto Mario. Ma il padre niente, procedeva dritto dritto davanti a sé.
Di lì a poco sbucarono in una piazzetta quadrata dove successe quello che successe.
Fu insieme un batter d’occhio e un’eternità. Non aveva finito di dire: «Mamma» che già Mario era morto.
Un attimo prima o un secolo prima l’urlo di una donna, di quelli che si possono fare solo in falsetto, a spaccagola. Il sangue usciva dai calzoni del ragazzo come da rubinetti lasciati aperti. A ucciderlo furono alcuni colpi d’arma da fuoco (più tardi si venne a sapere che si trattava di fucili mitragliatori in dotazione ai fanti dell’Esercito). Cosa successe?
Una rapina al Monte di Pietà, alla luce del giorno.
E quel giorno toccò a Mario e ci lasciò le penne. Un occhio immerso nella pozza di sangue e l’altro spalancato a fissare ancora il padre. Giovanni si ritrovò in ginocchio sopra di lui con i circuiti elettrici completamente interrotti.
Tre giovanotti mascherati avevano sparato all’impazzata per farsi largo e raggiungere un’automobile che li aspettava col motore acceso.
Se qualcuno del Monte dei Pegni non avesse tentato di fermare i malviventi, forse Mario non sarebbe stato ucciso. Ma in quel momento chi poteva pensare a Mario?
Nella mente di Giovanni restò tutto e nulla di quella tragedia.
Incredibile, ma non udì gli spari. Per molto tempo gli rimase addosso l’odore del sangue e la sensazione di avere miele tra le dita. L’urlo della donna martellò a lungo le sue tempie e sulle pupille gli si stampò l’immagine di uno dei tre delinquenti che, cadutagli la benda dalla faccia, incurante gridava ai compagni di correre.
Mario morì ancora prima di crollare a terra. Nella caduta, infatti, la mano del giovane urtò contro le mani del padre e le colpì come se fosse stata di legno.
Giovanni viveva un fatto di cronaca nei panni di protagonista, un fatto simile a quelli che era abituato a commentare in ufficio o a letto, alla sera, con la signora Amalia.
Mario era morto e questo avvenimento non fu preso subito di petto da Giovanni, alle prime battute della tragedia, e forse proprio per questo non lo fu mai più. Con le ginocchia immerse nel sangue del figlio era bombardato da sensazioni quasi cosmiche, alla velocità della luce.

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