12 agosto 2017

da Cent’anni di solitudine – Gabriel Garcìa Màrquez

Fernando Botero - The Wall (Execution)

da Cent’anni di solitudine  – Gabriel Garcìa Màrquez
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All’alba, dopo un consiglio di guerra sommario, Arcadio fu fucilato contro il muro del cimitero. Nelle ultime ore della sua esistenza non riuscì a capire perché era scomparsa la paura che lo aveva tormentato fin dall’infanzia. Impassibile, senza nemmeno preoccuparsi di far mostra del suo recente coraggio, ascoltò gli interminabili capi d’accusa. Pensava a Ursula, che a quell’ora doveva essere sotto il castagno a prendere il caffè con Josè Arcadio Buendìa. Pensava a sua figlia di otto mesi, che non aveva ancora nome, e a quello che sarebbe nato in agosto. Pensava a Santa Sofia de la Piedad, che la sera prima aveva lasciato mentre salava un cerco per il pranzo del sabato, e gli mancarono i suoi capelli sciolti sulle spalle e le sue ciglia che embravano artificiali. Pensava alla sua gente senza sentimentalismi, in un severo rendiconto della vita, cominciando a capire quanto amava in realtà le persone che più aveva odiato. Il presidente del tribunale di guerra iniziò il suo discorso finale, prima che Arcadio si rendesse conto che erano trascorse due ore. “Anche se i capi d’accusa comprovati non fossero sufficienti” diceva il presidente, “la temerarietà irresponsabile e criminale con la quale l’accusato ha spinto i suoi subordinati a una morte inutile basterebbe per fargli meritare la pena capitale.” Nella scuola semidistrutta dove aveva la prima volta la sicurezza del potere, a pochi metri dalla stanza dove aveva conosciuto l’incertezza dell’amore, Arcadio trovò ridicolo il formalismo della morte. In realtà non gli importava la morte ma la vita, e per questo la sensazione che provò quando pronunciarono la sentenza non fu una sensazione di paura ma di nostalgia. Non parlò non gli chiesero quale fosse la sua ultima volontà.
“Dite a mia moglie” rispose una voce alta e chiara, “che dia alla bambina il nome di Ursula.” Fece una pausa e confermò: “Ursula, come la nonna. E ditele anche che se quello che deve nascere nasce maschio, lo dovranno chiamare Josè Arcadio, non per lo zio, ma per il nonno”.
Prima che lo portassero al muro, padre Nicanor cercò di assisterlo. “Non ho niente di cui pentirmi disse Arcadio, e si mise agli ordini del plotone dopo aver bevuto una tazza di caffè neo. Il capo del plotone, specialista in esecuzioni sommarie,  aveva un nome che era assai più di una fatalità: capitano Roque Carnicero. Cammin facendo verso il cimitero, sotto la pioggerella persistente, Arcadio osservò che all’orizzonte spuntava un mercoledì radioso. La nostalgia svaniva con la nebbia e lasciava il posto a una immensa curiosità. Solo quando gli ordinare di mettersi con le spalle al muro, Arcadio vide Rebecca coi capelli bagnati e un vestito a fiori rosa, che apriva finestre e porte in tutta la casa. Fece uno sforzo perché si accorgesse di lui. In effetti, Rebecca guardò per caso verso il muro e restò paralizzata dallo stupore, riuscì appena a reagire per rivolgere ad Arcadio un cenno di addio con la mano. Arcadio le rispose nello stesso modo. In quell’istante gli puntarono contro le bocche affumicate dei fucili, e udì distintamente le encicliche cantate di Melquìades, e sentì i passi perduti di Santa Sofia de la Piedad, vergine, nell’aula, e provò nel naso la stessa durezza di ghiaccio che aveva notato nelle narici del cadavere di Remedios. “Ah, cazzo!” riuscì ancora a pensare, “mi sono dimenticato di dire che se nasceva femmina la chiamassero Remedios.” Allora, come accumulato in una zampata lacerante, tornò a sentire il terrore che lo aveva tormentato durante la vita. Il capitano diede l’ordine di fuoco. Arcadio ebbe appena il tempo di gonfiare il petto e sollevare il capo, senza capire da dove sgorgava il liquido ardente che gli bruciava le cosce.
“Cornuti!” gridò. “Viva il partito liberale!”
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