8 agosto 2017

La nutrice. Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco

da Omero, Iliade - Alessandro Baricco

La nutrice
Certo che me lo ricordo quel giorno. Mi ricordo tutto di quel giorno. E solo quello voglio ricordare. Arrivò Ettore, entrò dalle porte Scee, si fermò sotto la grande quercia. Tutte le spose e le figlie dei guerrieri troiani corsero verso di lui: volevano sapere notizie dei loro figli e fratelli e mariti. Ma lui disse solo: pregate gli dei, perché una grande sciagura incombe su di noi. Poi corse verso la reggia di Priamo.
L'immensa reggia, dai portici splendenti. Che ricchezza... Da una parte cinquanta stanze di pietra chiara, costruite una accanto all'altra: ci dormivano i figli maschi di Priamo, con le loro spose. E dall'altra dodici stanze di pietra chiara, costruite una accanto all'altra: ci dormivano le figlie di Priamo con i loro sposi. Ettore entrò ed Ecuba, la sua dolcissima madre, gli andò incontro. Lo prese per mano e gli disse: "Figlio, perché sei qui, perché hai lasciato la battaglia? Gli odiosi Achei vi schiacciano, là, contro le mura. Sei venuto per alzare le braccia verso Zeus, dall'alto della rocca? Lascia che ti dia del vino perché tu ne beva e lo offra agli dei. Il vino dà forza all'uomo stanco e tu sei sfinito, tu che combatti per difendere tutti noi".
Ma Ettore disse di no, le rispose che non voleva vino, non voleva perdere la sua forza e dimenticare la battaglia. Le disse che neanche poteva offrirlo agli dei, perché le sue mani erano sporche di polvere e sangue. "Va' tu al tempio di Atena", le disse, "Raduna tutte le donne più anziane e sali lassù. Prendi il peplo più bello, il più grande che hai nella reggia, quello che hai più caro, e va' a deporlo sulle ginocchia di Atena, la dea predatrice. Chiedile di avere pietà delle spose troiane e dei loro giovani figli, e supplicala di allontanare da noi Diomede, il figlio di Tideo, perché con troppa ferocia combatte, e ovunque sparge terrore. "Allora la madre raccolse le ancelle e le mandı a cercare per la città tutte le nobili anziane. Poi entrò nel talamo profumato dove conservava i pepli ricamati dalle donne di Sidone, i pepli che il divino Paride aveva portato dal suo viaggio, quando era tornato con Elena, attraversando l'ampio mare. E, fra tutti i pepli, Ecuba scelse il più bello e grande, tutto ricamato, splendeva come una stella: e voglio dirvi questo: era l'ultimo, quello che sotto tutti gli altri, giaceva. Lo prese e si mise in cammino con le altre donne verso il tempio di Atena.
Io non c'ero, veramente. Ma queste cose le so perché si parlava sempre, tra di noi, le ancelle, e tutte le serve della casa... E mi dissero che Ettore, quando lasciò la madre, andò a cercare Paride, per riportarlo in battaglia. Lo trovò nel talamo, che lucidava le sue armi bellissime, lo scudo, la corazza, l'arco ricurvo. Nella stanza c'era anche Elena. Stava in mezzo alle ancelle. Lavoravano, tutte, con arte mirabile. Ettore entrò è stringeva ancora in pugno la lancia, splendeva la punta di bronzo è e appena vide Paride si mise a urlargli "Miserabile, cosa stai qui a goderti il tuo rancore mentre i guerrieri combattono intorno alle alte mura di Troia? Proprio tu che sei la causa di questa guerra. Muoviti, vieni a combattere, o ben presto vedrai la tua città bruciare nel fuoco nemico".
Paride... "Non hai torto, Ettore, a rimproverarmi", disse. "Ma cerca di capirmi. Non stavo qui a covare astio per i Troiani, ma a vivere il mio dolore. Anche Elena, con dolcezza, mi dice che devo ritornare in battaglia, e forse è la cosa migliore che posso fare. Aspettami, il tempo di indossare le armi. O va' avanti e io ti raggiungerò."
Ettore neanche gli rispose. Nel silenzio, tutte le ancelle udirono, dolcissima, la voce di Elena. "Ettore", diceva, "Come vorrei che il giorno in cui la madre mi diede alla luce una tempesta di vento mi avesse portata lontano, sulla cima di una montagna, o fra le onde del mare, prima che tutto questo accadesse. Come vorrei che almeno la sorte mi avesse riservato un uomo capace di sentire il biasimo e il disprezzo degli altri. Ma Paride non ha un animo forte, e non lo avrà mai. Vieni qui, Ettore, e siediti accanto a me. Il tuo cuore è oppresso dagli affanni ed è mia la colpa, mia e di Paride e della nostra follia. Riposati accanto a me. Sai, la tristezza è il nostro destino: ma è per questo che le nostre vite saranno cantate per sempre, da tutti gli uomini che verranno."
Ettore non si mosse. "Non chiedermi di rimanere qui, Elena", disse. "Anche se lo fai per me, non chiedermelo. Lasciami andare a casa, piuttosto, perché voglio vedere la mia sposa, e mio figlio: la mia famiglia. I Troiani che combattono, laggiù, mi stanno aspettando, ma io voglio ancora passare da loro, voglio vederli: perché davvero non so se mai tornerò un'altra volta qui, vivo, prima che gli Achei mi uccidano." Così disse. E si allontanò. Venne verso casa, ma non ci trovò. Chiese alle schiave dove eravamo, e quelle gli dissero che Andromaca era corsa sulla torre di Ilio, aveva sentito che i Troiani stavano cedendo alla forza degli Achei ed era corsa sulla torre, e la nutrice era corsa con lei, stringendo tra le braccia il piccolo Astianatte. E adesso erano là, a vagare come pazze verso le mura. Ettore non disse una parola. Si voltò e corse velocemente verso le porte Scee, riattraversando la città. Se ne stava ormai per uscire di nuovo dalle mura e tornare in battaglia quando Andromaca lo vide e gli andò incontro per fermarlo, e io dietro di lei, con il bambino tra le braccia, piccolo, tenero, l'amato figlio di Ettore, bello come una stella. Ci vide, Ettore. E si fermò. E sorrise. Questo l'ho proprio visto coi miei occhi. Ero lì. Ettore sorrise. E Andromaca gli andò vicino e lo prese per mano. Piangeva e diceva "Infelice, la tua forza sarà la tua rovina. Non hai pietà di tuo figlio, che è ancora un bambino, e di me, sventurata? Vuoi tornare lı fuori, dove gli Achei ti balzeranno addosso, tutti insieme, e ti uccideranno?".
Piangeva. E poi disse: "Ettore, se io ti perdo, morire sarı meglio che rimanere viva: perché non ci sarà conforto, per me, solo dolore. Io non ho padre, non ho madre, non ho più nessuno. Il padre me l'ha ucciso Achille quando distrusse Tebe dalle alte porte. Avevo sette fratelli e tutti li uccise Achille, nello stesso giorno, mentre pascolavano i buoi, lenti, e le candide pecore. E mia madre, Achille se la portò via, e poi pagammo per riaverla, e lei tornò, ma per morire di dolore, d'improvviso, nella nostra casa. Ettore, tu mi sei padre, e madre, e fratello, e sei il mio sposo, giovane: abbi pietà di me, resta qui, sulla torre. Non combattere in campo aperto, fa' arretrare l'esercito vicino al fico selvatico, a difendere l'unico punto debole delle mura, dove giı tre volte hanno tentato l'assalto gli Achei, spinti dal loro coraggio".
Ma Ettore rispose: "So anch'io tutto questo, donna. Ma la vergogna che proverei a tenermi lontano dalla battaglia sarebbe troppo grande. Io sono cresciuto imparando a essere forte sempre, e a combattere ogni battaglia in prima fila, per la gloria di mio padre e per la mia. Come potrebbe il mio cuore, adesso, lasciarmi fuggire? Io lo so bene che verrà il giorno in cui perirà la sacra città di Troia, e con essa Priamo e la gente di Priamo. E se immagino quel giorno non è il dolore dei Troiani, che immagino, né quello di mio padre, di mia madre, o dei miei fratelli, caduti nella polvere uccisi dai nemici. Io, quando immagino quel giorno, vedo te: vedo un guerriero acheo che ti prende e ti trascina via in lacrime, ti vedo schiava, ad Argo, mentre tessi le vesti di un'altra donna e per lei vai a prendere l'acqua alla fonte, ti vedo piangere, e sento la voce di quelli che guardandoti dicono "Eccola lı la sposa di Ettore, il più forte di tutti i guerrieri troiani'. Possa io morire prima di saperti schiava. Possa io essere sotto terra prima di dover udire le tue grida".
Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito vedere il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull'elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l'elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: "Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte fra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica "è perfino più forte di suo padre'. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia lì, quel giorno, a gioire nel suo cuore". E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzı, e le disse: "Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà a uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio". Poi si chinò e riprese l'elmo da terra, l'elmo dalla chioma ondeggiante.
Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia.
 

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