9 agosto 2017

Patroclo. Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco

da Omero, Iliade - Alessandro Baricco


Patroclo
Il mio nome è Patroclo, figlio di Menezio. Anni fa, per aver ucciso un ragazzo come me, dovetti lasciare la mia terra, e, con mio padre, arrivai a Ftia, dove regnava il forte e saggio Peleo. Il re aveva un figlio: si chiamava Achille. Circolavano strane leggende su di lui. Che per madre aveva una dea. Che era stato allevato senza conoscere il latte di donna, nutrito solo con interiora di leone e midollo di orsi. Che sarebbe diventato il guerriero senza il quale Troia non sarebbe mai stata conquistata. Oggi le sue ossa sono mescolate con le mie, sepolte nell'isola bianca. La sua morte gli appartiene. La mia iniziò quando si levò l'Aurora dopo la notte in cui Ulisse e Diomede avevano rubato gli splendidi cavalli di Reso. In quella prima luce del giorno, Agamennone schierò l'esercito per la battaglia. Ordinò che gli aurighi tenessero i carri al di qua del fossato, ben schierati, e che i guerrieri, a piedi, lo attraversassero e si mettessero in assetto di guerra, sull'altra sponda. Tutti ubbidirono, tranne noi Mirmidoni, perché Achille non voleva che combattessimo. Io rimasi davanti alla nostra tenda. Nella pianura di fronte a noi, vedevo i Troiani stringersi attorno ai loro comandanti. Mi ricordo Ettore: appariva e spariva, in mezzo ai suoi soldati, come una stella, brillante, tra le nubi di un fosco cielo notturno. Tutto quello che vidi quel giorno, da lontano, e che sentii raccontare, voglio che l'ascoltiate, ora, se volete capire di che morte mi è piaciuto morire.
Si scagliarono, i due eserciti, uno contro l'altro. Avanzavano, gli uomini, senza paura, e senza pensieri di fuga, con la calma inesorabile di migliaia di mietitori che ordinatamente seguono il solco della terra, e falciano quel che trovano sui loro passi. Per tutta l'aurora caddero uomini, e brillarono armi, senza che nessuno dei due eserciti prevalesse sull'altro. Ma quando la luce del sole si staccı dall'orizzonte allora gli Achei, d'improvviso, schiantarono le file dei Troiani. Li trascinava Agamennone, con un vigore mai visto, come se quello fosse il suo giorno di gloria. Avanzava e uccideva tutto ciò che si trovava di fronte, prima Biènore, poi Oileo, e due figli di Priamo, Iso e Antifo. Quando gli si pararono davanti Pisandro e l'intrepido Ippòloco, in piedi sul loro carro, uno di fianco all'altro, lui li trascinò a terra e gli balzò addosso, come un leone che nella tana del cervo infila i suoi denti e ammazza i piccoli. Loro si misero a supplicare di lasciarli vivi: dicevano che il loro padre, Antiloco, avrebbe pagato immense ricchezze per il riscatto. Ma Agamennone disse: "Se siete davvero figli di Antiloco, allora pagate la colpa di vostro padre, che nell'assemblea dei Troiani, quando mio fratello venne a reclamare la sua sposa, votò per ucciderlo e rimandarlo, morto, a casa". E colpì Pisandro, con la lancia, nel petto. E a Ippòloco mozzò con la spada le braccia, e poi la testa, e come un tronco lo fece rotolare nella polvere della battaglia.
Dov'era più fitto lo scontro, egli si lanciava, e dietro di lui correvano gli Achei mietendo le teste dei Troiani. I fanti uccidevano i fanti, i cavalieri uccidevano i cavalieri, e correvano i cavalli dalla testa superba trascinando carri vuoti e rimpiangendo gli aurighi che adesso giacevano a terra, amati dagli avvoltoi più che dalle loro spose. Fino alla tomba di Ilo, in mezzo alla pianura, Agamennone li spinse, i Troiani, e poi ancora più in là, facendoli fuggire fin sotto le mura, davanti alle porte Scee: fin là li inseguì, correndo e gridando, le mani lorde di sangue. Fuggivano, i Troiani, e sembravano mucche impazzite che avevano sentito l'odore del leone. Ettore dovette balzare dal carro e mettersi a gridare e a incitare i suoi alla battaglia. Per un po' quelli smisero di scappare, e si schierarono, nuovamente, con ordine, per combattere. Gli Achei rinserrarono le file. I due eserciti erano di nuovo uno di fronte all'altro, a guardarsi negli occhi.
Ancora una volta il primo a buttarsi all'attacco fu Agamennone. Gli andò incontro Ifidamante, figlio di Antènore, grande e valoroso, cresciuto nella fertile terra di Tracia. Agamennone gli scagliò contro la lancia, ma sbagliò il colpo, e la punta di bronzo andò a finire nel nulla. Allora Ifidamante, a sua volta, impugnò la lancia e buttandosi contro Agamennone lo colpì: la punta si infilò sotto la corazza, e si conficcò nella cintura. Ifidamante si mise a spingere con tutta la forza, perché penetrasse oltre il cuoio, nella carne. Ma la cintura di Agamennone aveva borchie
d'argento, e l'argento non cedeva, con tutta la forza ci provava, Ifidamante, ma non riusciva a squarciarlo. Agamennone allora strinse le mani su quella lancia, e rabbioso come un leone la strappò a Ifidamante e quando lo ebbe così disarmato, prese la spada, e lo colpì proprio qui, al collo, e gli tolse la vita. Cadde, così, l'infelice, e si addormentò di un sonno di bronzo. C'era suo fratello, non lontano da lui, suo fratello maggiore. Si chiamava Coone. Vide Ifidamante cadere e un tremendo dolore gli velò gli occhi. Allora si avvicinò ad Agamennone, ma senza farsi vedere, e di sorpresa lo colpì con la lancia, proprio sotto il gomito: la punta lucente dell'asta Passò la carne da parte a parte. Rabbrividì, Agamennone, ma non scappò: vide che Coone stava trascinando via il corpo del fratello, tenendolo per le caviglie, e si gettò su di lui, e con la lancia, con un colpo sotto lo scudo, lo trafisse. crollò Coone, proprio sul corpo del fratello. E lì sopra, Agamennone gli Sollevò la testa e con un colpo di spada gliela mozzò. Così, i due figli di Antènore, uno accanto all'altro, compirono il loro destino, scendendo nella dimora di Ade. Agamennone, lui, continuò a combattere, in mezzo alla mischia, ma la sua ferita sanguinava, e il dolore diventava sempre più intollerabile. Alla fine chiamò il suo auriga a soccorrerlo, e salendo sul carro, gli Ordinò di spronare i cavalli verso le concave navi. Con l'angoscia nel cuore gridò ancora agli Achei, con tutta la forza che gli era rimasta, "Combattete per me e difendete le nostre navi", poi l'auriga frustò i cavalli dalle belle criniere e di slancio quelli presero il volo, il petto coperto di schiuma, e insozzato di polvere, presero il volo e portarono il re sofferente lontano dalla battaglia.
(…)
 

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