6 agosto 2017

Tersite, da Omero, Iliade - Alessandro Baricco

Odisseo e Tersite
da Omero, Iliade - Alessandro Baricco

Tersite
Tutti mi conoscevano. Io ero l'uomo più brutto che fosse andato lì, all'assedio di Troia: storto, zoppo, le spalle curve e ripiegate sul petto: la testa a punta, coperta da una rada peluria. Ero famoso perché mi piaceva parlare male dei re, di tutti i re: gli Achei mi ascoltavano e ridevano. E per questo, i re degli Achei mi odiavano. Voglio raccontarvi quel che so, perché anche voi capiate quello che io ho capito: la guerra è un'ossessione dei vecchi, che mandano i giovani a combatterla.
Era nella sua tenda, Agamennone, e dormiva. A un tratto gli sembrò di udire la voce di Nestore, che era il più vecchio di tutti noi, e il saggio più amato, e ascoltato. Quella voce diceva: "Agamennone, figlio di Atreo, te ne stai qui a dormire, tu che governi un intero esercito e avresti così tante cose da fare". Agamennone non aprì gli occhi. pensò che stava sognando. Allora la voce si avvicinò e disse: "Ascoltami, ho un messaggio per te da Zeus, che da lontano ti guarda, e per te ha pena e pietà. Ti comanda di far armare subito gli Achei, perché oggi potrai espugnare Troia. Gli dei, tutti, saranno dalla tua parte, e sui tuoi nemici incomberà la sciagura. Non dimenticartene, quando la dolcezza del sonno ti abbandonerà, e tu ti sveglierai. Non dimenticare il messaggio di Zeus".
Poi la voce scomparve. Agamennone aprì gli occhi. Non vide Nestore, il vecchio, che scivolava via silenziosamente dalla tenda. pensò che aveva sognato. E che in sogno si era visto vincitore. Allora si alzò, si mise una morbida tunica, nuova e bellissima, e indossò un ampio mantello. Si infilò i sandali più belli, e si appese alle spalle la spada dalle borchie d'argento. Infine prese lo scettro dei suoi avi e stringendolo in pugno si avviò verso le navi degli Achei, mentre l'Aurora annunciava la luce a Zeus e a tutti gli immortali. Disse agli araldi di convocare con voce sonora gli Achei in assemblea, e quando tutti furono giunti, chiamò per primi i nobili principi del consiglio. Raccontò loro quello che aveva sognato. Poi disse: "Oggi armeremo gli Achei e attaccheremo. Prima però, voglio mettere alla prova l'esercito, com'ı nel mio diritto. Dirò ai soldati che ho deciso di tornare a casa e di rinunciare alla guerra. Voi cercherete di convincerli a restare e a continuare a combattere. Voglio vedere quello che accadrà".
I nobili principi rimasero in silenzio, incerti su cosa pensare. Poi si alzò Nestore, il vecchio, proprio lui. E disse: "Amici, condottieri e governanti degli Achei, se arrivasse uno qualunque di noi a raccontarci un sogno come quello, non lo staremmo ad ascoltare e penseremmo che sta mentendo. Ma colui che l'ha sognato si vanta di essere il migliore tra gli Achei. Per cui io dico: andiamo, e armiamo l'esercito". Poi si alzò e lasciò il consiglio. Gli altri lo videro allontanarsi e, come seguendo il loro pastore, tutti si alzarono, a loro volta, e se ne andarono a radunare le loro genti.
Come quando dal cavo di una roccia escono fitti gli sciami di api, uno dopo l'altro, volano a grappoli sui fiori di primavera e si disperdono volando da una parte all'altra, così fitte le schiere di uomini, usciti dalle tende e dalle navi, si disposero in massa davanti alla riva del mare, per l'assemblea. La terra rimbombava sotto i piedi, e ovunque regnava il tumulto. Nove araldi, gridando, cercavano di far cessare il clamore affinché tutti potessero udire la voce dei re che avrebbero parlato. Alla fine riuscirono a farci sedere, e a far cessare il tumulto. Allora Agamennone si alzò. Stringeva in pugno lo scettro che tanto tempo prima Efesto aveva fabbricato. Efesto l'aveva donato a Zeus, figlio di Crono, e Zeus lo diede a Hermes, il messaggero veloce. Hermes lo donò a Pòlope, domatore di cavalli e Pòlope ad Atreo, pastore di popoli. Atreo, morendo, lo lasciò a Tieste, ricco di greggi, e da Tieste lo ricevette Agamennone, perché regnasse su tutta Argo e sulle isole innumerevoli. Era lo scettro del suo potere. Lo strinse e disse: "Danai, eroi, scudieri di Ares, il crudele Zeus mi ha condannato a una feroce sventura. Prima promise e giurı che avrei fatto ritorno dopo aver distrutto Ilio dalle belle mura e ora vuole da me che io ritorni ad Argo privo di gloria e dopo aver mandato a morire così tanti guerrieri. Che vergogna: un'armata splendida, immensa, lotta in battaglia con un esercito di pochi uomini, eppure non se ne vede ancora la fine. Noi siamo dieci volte i Troiani. Ma loro hanno alleati valorosi, che vengono da altre città, e questo alla fine mi impedirà di prendere Ilio la bella. Nove anni sono passati. Da nove anni le nostre spose e i nostri figli ci aspettano a casa. Il legno delle navi è marcito, e non c'è corda che non si sia ormai allentata. Datemi retta: fuggiamo sulle nostre navi e torniamo a casa. Noi non prenderemo mai più Troia".
Disse così. E le sue parole ci colpirono al cuore. L'immensa assemblea fu scossa come un mare preso dalla burrasca, come un campo di grano sconvolto da un vento di tempesta. E io vidi la gente lanciarsi verso le navi, gridando di gioia, sollevando un'immensa nube di polvere. Si incitavano a vicenda a prendere le navi e a trascinarle nel mare divino. Ripulivano i solchi delle carene e mentre giı toglievano le travi da sotto le chiglie, alto facevano salire l'urlo della loro nostalgia. Fu a quel punto che vidi Ulisse. L'astuto. Stava immobile. Non era andato verso le navi. L'angoscia gli stava divorando il cuore. Tutt'a un tratto, gettò via il mantello e di corsa andò davanti ad Agamennone. Gli strappò di mano lo scettro e senza una parola si diresse verso le navi. E ai principi del consiglio si mise a gridare: "Fermatevi, non ricordate cosa ci ha detto Agamennone?, li sta mettendo alla prova, ma dopo li punirà.
Fermatevi, ed essi vedendovi si fermeranno! ". E i soldati che incrociava li colpiva con lo scettro urlandogli "Restate qui, pazzi!, non scappate, siete solo vili e codardi, guardate i vostri principi, e imparate da loro". Alla fine riuscì a fermarli. Dalle navi e dalle tende di nuovo la folla tornò indietro, sembrava il mare quando freme avanti e indietro sulla riva, facendo echeggiare l'intero Oceano. Fu allora che decisi che avrei detto la mia. Lì, davanti a tutti, quel giorno, mi misi a urlare: "Ehi, Agamennone, che diavolo vuoi, di cosa ti lamenti? La tua tenda è piena di bronzo, è piena di donne bellissime: quelle che tu scegli quando noi te le doniamo dopo averle rubate alle loro case. Forse hai voglia di altro oro, quello che i padri troiani ti portano per riscattare i figli che noi prendiamo prigionieri sul campo di battaglia? O è una nuova schiava, che vuoi, una schiava da portarti a letto, e da tenere tutta per te? No, non è giusto che un capo porti alla rovina i figli dei Danai. Compagni, non siate vili, torniamocene a casa e quello lì lasciamolo qui a Troia, a godersi il suo bottino, così vedrà se gli eravamo utili o no. Ha offeso Achille, che è guerriero mille volte più forte di lui. Gli ha preso la sua parte di bottino e adesso la tiene per sé. Altro che ira, se Achille davvero bruciasse d'ira, tu, Agamennone, non saresti qui a insolentirci
un'altra volta". Gli Achei mi stavano ad ascoltare. Molti di loro covavano rabbia contro Agamennone per quella storia di Achille. così mi stavano ad ascoltare. Agamennone non disse niente. Ma Ulisse, lui sı, si avvicinò a me. "Parli bene", mi disse, "Ma parli da stupido. Tu sei il peggiore, sai?, Tersite. Il peggiore di tutti i guerrieri venuti sotto le mura di Ilio. Ti diverti a insultare Agamennone, il re dei re, solo perché tanti doni gli avete portato voi guerrieri achei. Ma io ti dico, e ti giuro, che se ti sorprendo un'altra volta a dire scempiaggini come queste, ti piglierò, ti strapperò le vesti è il mantello, la tunica, tutto è e ti rimanderò nudo e piangente alle navi, coperto di ferite da far schifo." E così dicendo, iniziò a colpirmi con lo scettro sulle spalle e sulla schiena.
Io mi piegai sotto i colpi. Il sangue mi colava, denso, sul mantello e così mi misi a piangere, per il dolore e l'umiliazione. Impaurito, mi lasciai andare per terra. Con uno sguardo instupidito, rimasi lì, ad asciugarmi le lacrime, mentre tutti, intorno, ridevano di me. Allora Ulisse alzò lo scettro, si voltò verso Agamennone, e parlando a voce altissima, in modo che tutti lo sentissero, disse: "Figlio di Atreo, gli Achei oggi vogliono fare di te il più misero di tutti i mortali. Ti avevano promesso che sarebbero venuti a distruggere Ilio la bella e invece adesso piangono come fanciulli, come misere vedove, e chiedono di tornare a casa. Certo non li posso biasimare: sono
nove anni che siamo qui, quando anche solo un mese lontani dalle nostre spose giı ci farebbe desiderare il ritorno. E tuttavia sarebbe un tale disonore abbandonare il campo di battaglia dopo così tanto tempo e senza aver ottenuto nulla. Amici, dobbiamo avere ancora pazienza. Vi ricordate il giorno in cui ci radunammo tutti, in Aulide, per partire e venire a distruggere Priamo e i Troiani? Ve lo ricordate quel che successe? Stavamo offrendo sacrifici agli dei vicino a una sorgente, sotto un bellissimo platano luminoso. E tutt'a un tratto un serpente dal dorso rossastro, un mostro orrendo che lo stesso Zeus aveva creato, sbucò da sotto gli altari e strisciò
sull'albero. C'era un nido di passeri, lì sopra, e lui salì fino a divorarsi tutto quel che vi trovò: otto piccoli e la madre. E subito dopo averli divorati si tramutı in pietra. Noi vedemmo tutto e rimanemmo ammutoliti. Ma Calcante, ve lo ricordate cosa disse Calcante? ‘È un segno, disse. Ce l'ha mandato Zeus. È un presagio di gloria infinita. Come il serpente ha divorato otto piccoli e la madre, così noi dovremo combattere a Ilio per nove anni. Ma il decimo anno prenderemo la città dalle grandi strade.' Questo ci disse. E oggi voi vedete tutto questo compiersi, sotto i vostri occhi. Ascoltatemi, Achei dalle belle armature. Non andatevene. Rimanete qui. E noi prenderemo la grande città di Priamo".
Così disse. E gli Achei gettarono un alto grido e tutte le navi intorno risuonarono in modo tremendo al clamore del loro entusiasmo. Fu a quel punto che Nestore, il vecchio, ancora lui, prese la parola e disse, "Agamennone, torna a condurci in battaglia con la volontà indomabile di un tempo. Nessuno abbia fretta di tornarsene a casa prima di aver dormito con la sposa di un Troiano e di aver vendicato il dolore per il rapimento di Elena. E vi dico che se qualcuno, nella sua follia, deciderà di tornare a casa, allora non farà in tempo a toccare la sua nave nera che gli verrà incontro il destino di morte".
In silenzio, tutti stavano ad ascoltarlo. I vecchi... Agamennone quasi si inchinò: "Ancora una volta, vecchio, tu parli con saggezza". Poi alzò lo sguardo su tutti noi e disse: "Andate a prepararvi, perché oggi noi attaccheremo. Mangiate, affilate bene le lance, preparate gli scudi, date buon cibo ai cavalli veloci, controllate i vostri carri: per tutto il giorno dovremo combattere, e solo la notte separerà la furia degli uomini. Il petto gronderà di sudore, sotto il grandissimo scudo, e la mano si stancherà impugnando la lancia. Ma chiunque si azzarderà a fuggire la battaglia e a ripararsi vicino alle navi sarı un uomo morto".
Allora tutti lanciarono un grido altissimo e poi si dispersero in mezzo alle navi. Ognuno andò a prepararsi alla battaglia. C'era chi mangiava, chi affilava le armi, chi pregava, chi faceva sacrifici ai suoi dei chiedendo di scampare alla morte. In poco tempo i re di stirpe divina raccolsero gli uomini e li disposero in assetto di guerra, correndo in mezzo a loro, e incitandoli a mettersi in marcia. E d'improvviso per tutti noi divenne più dolce combattere che ritornare in patria. Marciavamo, nelle nostre armi di bronzo, e sembravamo un incendio che divora la foresta e lo puoi vedere da lontano, puoi vederne i bagliori luminosi splendenti salire nel cielo. Scendemmo
nella pianura dello Scamandro come un immenso stormo di uccelli che scende dal cielo e si posa con gran strepito e battere di ali sulla prateria. La terra rimbombava terribile sotto i piedi degli uomini e gli zoccoli dei cavalli. Ci fermammo vicino al fiume, davanti a Troia. Eravamo migliaia. Tanti quanti sono i fiori, a primavera. E solo questo desideravamo: il sangue della battaglia.
Ettore e i principi stranieri suoi alleati radunarono allora gli uomini e si lanciarono fuori dalla città, a piedi o a cavallo. Noi udimmo un immenso tumulto. Li vedemmo salire sulla collina di Batiea, una collina che si ergeva isolata, in mezzo alla pianura. Lì si schierarono, ai comandi dei loro capi. Poi iniziarono ad avanzare verso di noi, urlando come uccelli che stridono in cielo annunciando una lotta mortale. E noi marciammo verso di loro, ma in silenzio, con la rabbia nascosta nel cuore. I passi dei nostri eserciti sollevarono una polvere che come una nebbia, come una notte, si divorò tutto.
Alla fine giungemmo gli uni davanti agli altri. Ci fermammo. E allora, d'improvviso, dalle schiere dei Troiani uscì Paride, simile a un dio, una pelle di pantera sulle spalle. Era armato con arco e spada. Stringeva in una mano due lance dalla punta di bronzo, e le agitava verso di noi sfidando a duello i principi achei. Quando Menelao lo vide, gioì come un leone affamato che si imbatte nel corpo di un cervo e lo divora. Pensò che era giunto il momento di vendicarsi dell'uomo che gli aveva rubato la sposa. E saltò a terra dal carro, impugnando le armi. Paride lo vide e gli tremò il cuore. Tornò indietro, in mezzo ai suoi, per sfuggire alla morte. Come un uomo che vede un serpente e subito balza all'indietro, e trema, e fugge, pallido in volto. così lo
vedemmo scappare. finché Ettore non lo fermò gridandogli "Paride maledetto, seduttore, bugiardo. Non vedi che gli Achei ridono di te? Ti credevano un eroe, solo perché si facevano impressionare dalla tua bellezza. Ma adesso sanno che non hai coraggio e non hai forza nel cuore. Proprio tu che, ospite di Menelao, in terra straniera, gli hai portato via la moglie, tornando a casa al fianco di quella donna bellissima. Ma quella era gente guerriera, Paride, e tu sei diventato la rovina di tuo padre, della tua città, di tutto il popolo. E adesso non vuoi affrontare Menelao? Peccato, scopriresti che razza di uomo è quello a cui hai rubato la sposa. E cadresti
nella polvere, a scoprire come sono inutili la tua cetra, e il tuo volto bellissimo, e i tuoi capelli. Ah, siamo davvero vili, noi Troiani: se no a quest'ora tu saresti sepolto sotto un cumulo di pietre, a scontare tutto il male che hai fatto".
Allora Paride rispose: "Tu hai ragione Ettore. Ma che cuore hai, sempre inflessibile, come una scure che affonda nel legno, diritta... Mi rinfacci la mia bellezza... però anche tu non li disdegni i doni degli dei, i talenti che ci hanno regalato: possiamo rifiutarli? Possiamo per caso sceglierli? Ascoltami: se vuoi che io mi batta in duello, fa' sedere tutti i Troiani e tutti gli Achei, e lascia che io e Menelao, sotto gli occhi dei due eserciti, ci battiamo per Elena. Chi vincerà si prenderà la donna e tutte le sue ricchezze. E quanto a voi, Troiani e Achei, stringerete un patto di pace, e i Troiani ricominceranno a vivere nella fertile terra di Troia, e gli Achei torneranno ad Argo, alle loro ricchezze, e alle loro donne, bellissime".
Grande fu la gioia di Ettore quando ascoltò quelle parole. avanzò, da solo, in mezzo ai due eserciti, e sollevando al cielo la lancia fece segno ai Troiani di fermarsi. E loro gli ubbidirono. Noi iniziammo subito a prenderlo di mira, con frecce e pietre, e allora Agamennone gridò "Fermatevi! Achei, non colpitelo, Ettore vuole parlarci! ". E allora anche noi ci fermammo. C'era un grande silenzio. E in quel silenzio Ettore disse, parlando ai due eserciti: "Ascoltatemi! Ascoltate quello che dice Paride, colui che ha scatenato questa guerra. Lui vuole che deponiate le armi, e chiede di combattere lui solo contro Menelao, e decidere in duello chi avrà Elena e le sue ricchezze".
Gli eserciti rimasero in silenzio. Allora si sentì la voce possente di Menelao. "Ascoltate anche me, che sono l'offeso e che più di ogni altro ho un dolore da vendicare. Cessate di combattere, perché ormai troppo avete sofferto per questa guerra che Paride ha scatenato. Combatterò io, con lui, e il destino deciderà chi di noi due deve morire. Voi trovate un modo di fare la pace, al più presto. Gli Achei vadano a prendere un agnello da offrire a Zeus. E voi, Troiani, procurate un agnello bianco e uno nero, per la Terra e il Sole. E andate a chiamare il grande re Priamo, perché sia lui a sancire la pace: i suoi figli sono superbi e infidi, ma lui è un vecchio, e i vecchi sanno guardare il passato e il futuro, insieme, e capire cosa è meglio per tutti. Venga, lui, e si suggelli la pace: e che nessuno osi infrangere i patti sanciti nel nome di Zeus."
Io sentii le sue parole e poi vidi la gioia di quei due eserciti, improvvisamente uniti dalla speranza di metter fine a quella guerra luttuosa. Vidi i guerrieri scendere dai carri, e togliersi le armi di dosso e posarle per terra, coprendo i prati di bronzo. Non avevo mai visto la pace così vicina. Allora mi voltai e cercai Nestore, il vecchio e saggio Nestore. Volevo guardarlo negli occhi. E nei suoi occhi vedere morire la guerra, e l'arroganza di chi la vuole, e la follia di chi la combatte.
 

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