Bernini, Ratto di Proserpina
da Inno a
Demetra – Callimaco
Quando passa
il canestro, dite, o donne:
Salve
Demetra, molte volte salve,
generosa di
cibo, ricca a staia.
Il canestro
che passa contemplate
da terra e
non guardatelo dal tetto,
né da un
luogo elevato, estranei al rito,
né bambino
né donna né fanciulla
con i capelli
sciolti né chi sputa
a bocca
asciutta, senza prender cibo.
Espero
guardò fuori dalle nubi
(ma quando
arriva?), Espero fu il solo
che convinse
Demetra a dissetarsi,
quando
correva sulle ignote tracce
della figlia
rapita. In quale modo
ti portarono
fino all'occidente
i tuoi
passi, signora, fino ai neri,
fino alla
terra dalle mele d'oro?
Non bevesti
in quel tempo, non mangiasti
e non
facesti il bagno e per tre volte
attraversasti
il vortice d'argento
dell'Achelòo
ed altrettante il corso
di ciascuno
dei fiumi oltrepassasti,
che scorrono
perenni, e per tre volte
presso il
pozzo Callìcoro sedesti,
assetata,
per terra, senza bere,
senza
mangiare e senza fare il bagno.
No, non
dobbiamo dire queste cose
che
portarono lacrime a Deò,
piuttosto
come diede usanze accette
alle città,
piuttosto come il fusto
e i manipoli
sacri delle spighe
tagliò per
prima e portò dentro i buoi
a pestarli,
nel tempo in cui apprendeva
l'arte buona
Trittòlemo, piuttosto
(perché si
tenga fuori l'arroganza)
come...
Abitavano
ancora la regione
sacra di
Dotio, non la terra Cnidia
e un bel
bosco ti offrirono i Pelasgi
d'alberi
folto, per il quale a stento
una freccia
passava. C'era il pino,
grandi olmi
e peri e frutti dolci e belli,
e fuori dai
rigagnoli sgorgava
un'acqua
come l'ambra. Di quel luogo
era amante
la dea, quanto di Eleusi,
come di
Triopa, tanto quanto d'Enna.
Ma quando si
adirò il demone buono
con i
Triopidi, un perfido consiglio
prevalse
nella mente di Erisíttone.
In fretta si
avviò con venti servi,
tutti nel
primo fiore, tutti grandi
come giganti
e buoni a devastare
un'intera
città, con i due attrezzi,
le asce e le
scuri e corsero impudenti
al bosco di
Demetra. C'era un pioppo,
albero
grande, che toccava il cielo,
presso il
quale venivano a scherzare
le ninfe a
mezzogiorno. Il primo colpo
cadde su
questo e un grido doloroso
mandava agli
altri. Percepì Demetra
la
sofferenza della pianta sacra
e disse
piena d'ira: Chi mi taglia
gli alberi
belli? Sùbito
divenne
identica a
Nicippe, nominata
sacerdotessa
pubblica al suo culto
dalla città.
Le bende prese in mano
e il
papavero e aveva dalla spalla
una chiave
pendente. Per calmare
quel
malvagio impudente gli parlava:
Figlio,
chiunque tu sia che tagli gli alberi
consacrati
agli dèi, fèrmati, figlio,
figlio molto
diletto ai genitori,
fèrmati ed allontana
i servi tuoi,
se non vuoi
che ti mostri la sua ira
la dea
Demetra, di cui ciò che è sacro
stai
devastando. Le lanciò
uno sguardo
più feroce
di come una leonessa,
fresca di
parto, guarda un cacciatore
sui monti
Tmari, l'occhio più terribile
che esista,
a quanto dicono, e rispose:
Sta'
indietro e bada che la mia gran scure
io non ti
pianti in corpo. Con questi alberi
una solida
casa voglio farmi,
dentro la
quale sempre ai miei compagni
darò lieti
banchetti in abbondanza.
Disse il
ragazzo e Némesi si scrisse
la cattiva
risposta. Ma Demetra,
in maniera
indicibile adirata,
ridiventò la
dea. Coi passi il suolo,
con la testa
l'Olimpo raggiungeva.
Ed essi,
quando videro la dea,
balzarono di
colpo mezzi morti,
la scure
abbandonando nelle querce.
(…)
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