2 dicembre 2018

Da così lontano – Derek Walcott

Francesco Lo Presti - Solunto Santa Flavia sito archeologico
Da così lontano – Derek Walcott

                                per Robert Giroux

I
Le mandorle bianche di una statua fissano
rami di un mandorlo che si divincolano dalla loro ombra
come una ragazza da un vestito – un gesto di rado compiuto
dalla pietra distratta.
Un cargo greco passa
attraverso la rete dei rami
al rumore di trattori che scavano un dirupo –
nella sua stiva, un carico di teste marmoree;
da Orfeo a Onassis,
il mare ha battuto una sola bandiera:
onde striate di bianco su un azzurro inalterabile.

La finestra del cielo trema
per i cambi ingranati in retromarcia,
ma nessuna testa rotola nella polvere ocra,
nel suolo delle nostre isole non ci sono dèi sepolti.
Ce li hanno spediti, Seferis,
morti all’arrivo.

II
L’alba si allaccia all’elmo
del raggiato Agamennone.
Una rete è gettata sulla secca;
l’oceano si apre: un portone di bronzo.
Nella risacca torsi di guerrieri
rotolano e recedono.
Grandi versi, Seferis, li hanno portati fin qui.
Al crepuscolo, l’uomo-dio sanguina
a faccia in giù nelle vene del mare.

La notte turchina ronza d’api.
Ogni ora trivella un buco nell’alveare
del dedalo, in fondo al quale
l’incrocio osceno abbassa le corna curve come lire,
e vuoi per le pietre morte, o il dio delle spine,
stupiamo l’arena con occhi che colano.

I mandorli accumulano le loro ombra
come noi quelle degli amici.
Quando una foglia di bronza luccica, sento ancora
la gola lacerata nell’ombra lacerata,
e i miei occhi s’induriscono in una testa di pietra.

Le vedo tra il colonnato
di pilastro di un cemento di pontile
su cui un gabbiano si posa.
Le sento gemere coi trattori.
Sto mangiando un gelato su una passeggiata rovente,
con una magliette a strisce bianche e azzurre,
nell’ombra friabile di un uva di mare,
nel fetore di iodio delle secche,
guardando il porto azzurro e vuoto
che schiuma di panfili,
quando un muro fronzuto
scrolla l’ombra di un toro scalpitante.
Il Traghetto passa,
e il gabbiano stride il suo messaggio,
aprendo le ali come una lettera,
e lo stride si espande in una tromba d’aria
di corvi dagli scialli sbrindellati su un sasseto.

III
È in questi momenti, Seferis,
che una ragazza che si divincola dal suo vestito
si ripiega come un delfino assieme all’onda,
che i frangenti celano i singhiozzi delle donne,
che, nel rumore sordo dei trattori,
sento i ceppi lignei
dietro l’arena delle colline,
e i conati secchi dei segugi.
Su qualcosa – una carcassa, il re del sole sepolto dall’onda –
volteggiano avvolti in scialli sbrindellati;
vedo l’arpista coi suoi occhi come nubi,
ti ricordo mentre reggevi una testa di marmo pesante;
vedo quell’altro che invitò i barbari
nelle strade imbiancate.

Sono rimasto com’ero. Ho privato la mia mano di nomi,
nessun fauno bruno ha salato il mio polso,
non vedrò mai il Pireo ripetere il proprio nome bianco nell’acqua,
ma sia che i miei occhi diventino semi bianchi di un busto,
o, più facilmente, il frutto salato dei marmi,
sono orbite le cui cavità vantano
quei lampi di vita interiore che vengono
delle tempeste della mente accese di tuoni.

da Derek Walcott, Nelle vene del mare, a cura di Matteo Campagnoli
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti

Nessun commento:

Posta un commento