da “Il racconto dell’ancella” – Margaret Atwood
Quando siamo giunti di nuovo alla sera della Cerimonia, due o tre
setti-mane dopo, ho visto che le cose erano cambiate. Adesso c'era un
imbaraz-zo che prima non c'era mai stato. Prima avevo considerato la
Cerimonia come un lavoro spiacevole da portare a termine il più presto
possibile. «Devi temprarti come l'acciaio» diceva mia madre per indurmi a
dare un esame o a fare una nuotata
nell'acqua gelida. Non avevo mai pensato al si-gnificato di questa
frase, che rimandava all'idea di una corazza di metallo, di un'armatura,
ma era questo che facevo durante la Cerimonia, mi ripara-vo dietro una
corazza per riuscire a non essere presente, non nella carne.
Questo
stato di assenza, questo modo di esistere al di fuori del corpo, lo
aveva provato anche il Comandante, adesso lo sapevo. Probabilmente
pen-sava ad altro tutto il tempo che era con me, con noi, poiché
naturalmente c'era anche Serena Joy, quelle sere. Forse pensava a
qualche cosa che ave-va fatto durante il giorno, o al gioco del golf, o a
quello che aveva mangia-to a pranzo. L'atto sessuale avveniva in modo
meccanico, quasi inconscio.
Quella sera, la prima dall'inizio del
nostro accordo (non saprei definirlo altrimenti), mi vergognavo. Sentivo
che lui mi guardava e ne ero infastidi-ta. Le lampade erano accese,
come al solito, poiché Serena Joy evitava sempre qualsiasi cosa potesse
creare un'aura anche vagamente romantica o erotica, e la luce scendeva
dall'alto, cruda nonostante il baldacchino. Era come essere su un tavolo
operatorio, o su un palcoscenico, mi rendevo conto di avere i peli
sulle gambe, sparsi e un po' ispidi, non avevo neanche le ascelle
depilate, ma lui non poteva vederle. Mi sentivo rozza. Questa
copulazione, o forse fertilizzazione, che per me non avrebbe dovuto
essere più di quanto un'ape non sia per un fiore, mi appariva come una
indecente, intollerabile violazione di proprietà, mentre prima non era
stato così.
Lui non era più un'entità astratta per me. Questo era il
problema. L'ho pensato quella sera, continuo a pensarlo. Una
complicazione in più.
Era cambiata la mia posizione anche nei
confronti di Serena Joy. Un tempo la odiavo semplicemente per il suo
ruolo in ciò che mi veniva fatto e perché anche lei mi odiava e
sopportava male la mia presenza, e infine perché sarebbe stata lei a
crescere mio figlio, fossi stata, dopo tutto, in gra-do di averne uno.
Ora la odiavo ancora, non più di quanto la odiassi quan-do mi stringeva
le mani così forte che mi penetrava nella carne con gli a-nelli e mi
piegava i polsi all'indietro, forse per farmi stare scomoda, solo che
non si trattava più di puro e semplice odio, ero, almeno in parte,
gelosa di lei. Come potevo essere gelosa di una donna così palesemente
inaridita
e infelice? Si può essere gelosi solo di chi possiede qualcosa che pensiamo spetterebbe a noi. Eppure ero gelosa.
Nello stesso tempo mi sentivo colpevole nei suoi riguardi. Mi sentivo
u-n'intrusa in un territorio che avrebbe dovuto essere il suo. Adesso
che ve-devo il Comandante di nascosto, anche se solo per giocare ai suoi
giochi e ascoltarlo parlare, le nostre funzioni non erano più così
separate come a-vrebbero dovuto esserlo in teoria. Le sottraevo qualcosa
benché lei non lo sapesse. La derubavo. Non importa che si trattasse di
qualcosa che appa-rentemente lei non voleva, che non le serviva o che
addirittura rifiutava, era pur sempre roba sua. Non riuscivo a stabilire
che cosa fosse perché il Comandante non era innamorato di me, rifiutavo
di credere che provasse un sentimento così definito nei miei confronti,
ma era un bene di cui non potevo privarla, altrimenti che cosa le
sarebbe rimasto? Lei non è niente per me, mi dicevo, le sono antipatica,
mi sbatterebbe fuori di casa in un se-condo, o peggio, se potesse
trovare una scusa qualsiasi. Se ci scoprisse, per esempio. Lui non
sarebbe in grado di intervenire, di salvarmi; le trasgres-sioni da parte
delle donne, siano Marte o Ancelle, cadono sotto la giurisdi-zione
delle sole Mogli. Lei era una donna maligna e vendicativa, lo sape-vo.
Tuttavia non potevo scacciare quel senso di rimorso nei suoi confronti.
Capivo, nello stesso tempo, che adesso avevo del potere su di lei,
sebbene non lo sapesse. E ne godevo. Perché fingere?
Ne godevo moltissimo.
Ma il Comandante con uno sguardo, un gesto, una disattenzione avrebbe
potuto rivelare a chiunque quello che c'era tra di noi. Era stato sul
punto di farlo, la sera della Cerimonia. Aveva sollevato la mano come
per toccarmi il viso, io mi ero spostata, per avvertirlo, sperando che
Serena Joy non se ne fosse accorta, lui aveva ritratto la mano, e si era
di nuovo chiuso in se stesso, nella sua solitudine.
«Bisogna fare attenzione» ho detto, quando ci siamo incontrati da soli.
«A che cosa?»
«A non toccarmi così, quando... quando c'è lei».
«Ti ho toccata?»
«Sì, è pericoloso, potrebbero trasferirmi nelle Colonie, o peggio».
Pensavo che lui dovesse continuare ad agire, in pubblico, come se fossi
un vaso o una finestra: un oggetto che facesse parte dell'arredamento,
qualcosa di inanimato o trasparente.
«Mi dispiace» ha detto, «non era mia intenzione, ma altrimenti è così...»
«Come?» ho chiesto, visto che non proseguiva.
«Impersonale» ha risposto.
«Quanto ti ci è voluto per scoprirlo?» Dal modo in cui gli parlavo era e-vidente che i nostri rapporti erano cambiati.
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