fotogramma di "L'oro di Napoli"
da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta
Porta Capuana
Don Peppino Cammarota, “pazzariello” del quartiere Vicaria nella nostra pazza città di Napoli, vi dispiace che io rievochi qui la vostra follia? Probabilmente voi non siete pieno di terriccio di Poggioreale come io, quassù, di memorie del vostro tempo; vi rivedo tra la folla estatica, nel vostro policromo costume di gran ciambellano dei vicoli, mentre il vostro dorato bastone si innalza e volteggia, ricadendo a intervalli sempre più lunghi fra le vostre magiche dita, e strepitano i primitivi strumenti dei vostri bandisti; dietro di voi, come dipinta su un fondale, palpitando nei vapori diffusi dalle immense teglie delle friggitorie, sta verde e accigliata Porta Capuana.
Che a nessuno venga in mente di dedicarsi alla professione di “pazzariello” se non ha un’anima di tanti colori quanti ne ostentava il vestito indossato da don Peppino. Si trattava di una livrea arlecchinesca, tutta alamari e galloni e fregi, in cui predominavano forse il giallo e il violaceo, qualora non fossero il turchese e il granata, poiché la tradizione esigeva sovrattutto, in quell’abito, sperpero e demenza di tinte. Il “pazzariello” era uno strano miscuglio di banditore e di giullare, il quale vi faceva ridere prima e dopo di avervi informati che in via Tribunali apriva i suoi battenti una nuova panetteria, o che alla bottegaia donna Assunta Chierchia era mancato un fermaglio d’oro per il recupero del quale essa non avrebbe esitato a pagare un considerevole premio: il “pazzariello” diceva dopotutto la verità scherzando, istruiva divertendo, era interessante e persuasivo al punto che non ci si doveva sorprendere se le donnette che più si sbellicavano per le sue facezie se ne tornassero poi a vegliare e a lamentare il morto dal quale suoni e voci le avevano irresistibilmente strappate.
Porta Capuana
Don Peppino Cammarota, “pazzariello” del quartiere Vicaria nella nostra pazza città di Napoli, vi dispiace che io rievochi qui la vostra follia? Probabilmente voi non siete pieno di terriccio di Poggioreale come io, quassù, di memorie del vostro tempo; vi rivedo tra la folla estatica, nel vostro policromo costume di gran ciambellano dei vicoli, mentre il vostro dorato bastone si innalza e volteggia, ricadendo a intervalli sempre più lunghi fra le vostre magiche dita, e strepitano i primitivi strumenti dei vostri bandisti; dietro di voi, come dipinta su un fondale, palpitando nei vapori diffusi dalle immense teglie delle friggitorie, sta verde e accigliata Porta Capuana.
Che a nessuno venga in mente di dedicarsi alla professione di “pazzariello” se non ha un’anima di tanti colori quanti ne ostentava il vestito indossato da don Peppino. Si trattava di una livrea arlecchinesca, tutta alamari e galloni e fregi, in cui predominavano forse il giallo e il violaceo, qualora non fossero il turchese e il granata, poiché la tradizione esigeva sovrattutto, in quell’abito, sperpero e demenza di tinte. Il “pazzariello” era uno strano miscuglio di banditore e di giullare, il quale vi faceva ridere prima e dopo di avervi informati che in via Tribunali apriva i suoi battenti una nuova panetteria, o che alla bottegaia donna Assunta Chierchia era mancato un fermaglio d’oro per il recupero del quale essa non avrebbe esitato a pagare un considerevole premio: il “pazzariello” diceva dopotutto la verità scherzando, istruiva divertendo, era interessante e persuasivo al punto che non ci si doveva sorprendere se le donnette che più si sbellicavano per le sue facezie se ne tornassero poi a vegliare e a lamentare il morto dal quale suoni e voci le avevano irresistibilmente strappate.
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