19 giugno 2019

da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta

da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta
Pane, con sale e olio

Eppure, dico oggi, vorrei mangiare pane con sale e olio. Questo è un pensiero che mi raggiunge ogni tanto, senza che speciali motivi lo chiamino; immagino di voler mangiare pane con sale e olio ma non mi si deve domandare perché, non saprei rispondere, il pane con sale e olio è fra l’altro ereditario come il colore dei capelli o la tisi. Da noi, laggiù, il pane con sale e olio è il penultimo dei cibi, viene subito dopo il brodo di trippa e precede soltanto i lupini o il puro niente. Questo pane con sale e olio si determina, in una casa meridionale, quando tutto è perduto: finito il denaro, finito il credito, finite le avemarie, c’è sempre qualche goccia di olio nella bottiglia, c’è sempre qualche pezzo di pane raffermo nei cassetti in cucina, ci sono sempre un pizzico di sale nel barattolo e l’affettuosa acqua del Serino nella fontana. Noi, laggiù, non neghiamo che il pane con sale e olio sia comunque una minestra; mai, fin da quando fece la sua prima apparizione su una mensa, mai il pane con sale e olio si è inserito fra un antipasto e una pietanza: ma per essere una minestra è una minestra, tanto vero che lo si può desiderare freddo d’estate e caldo d’inverno; in casa mia optavamo generalmente per la neutra acqua del fiasco che non si pronunzia.
Sono capace anch’io di preparare il pane con sale e olio, mi ci provai due volte a Milano nel 1926 e tutto andò bene. Non bisogna credere al livido colore che inumidendosi e dilatandosi assumono i tozzi; occorre poi spargere con cura il sale e l’olio, o almeno, nel peggiore dei casi, immaginare di averlo fatto; ci si siede, infine, e si mangia. In casa mia vigeva l’uso,  se il pranzo o la cena era di pane con sale e olio, di non stendere la tovaglia: consideravamo in lutto la tavola, più che il nostro appetito, e rispettavamo il suo dolore. Mia madre diceva: “Ah se vostro padre ci vedesse”, nient’altro; aveva il pianto facile ma si rovinava la minestra, così, e mangiando le proprie lacrime, che risolveva?
Mio padre era stato u signore, il pane con sale e olio lo trasmise mia nonna a mia madre, ci pervenne da chissà quali lontananze borboniche e plebee. Sentii dire , da piccolo, che il mio bisavolo Antonio Fiorentino tirava di coltello a ottant’anni: morì su un marciapiede di Porta San Gennaro mentre mangiava carrube che subito qualche sopravvenuto straccione raccolse e addentò alla sua salute: Il nome di mia nonna era Teresa: Riassumo la sua storia, piena dal principio alla fine di inginocchiatoi e di pane con sale e olio; se non l’hanno ancora ammessa agli altari, questa vecchia, è perché i suoi meriti li conoscemmo noi soli; finirò per informare con una lettera anonima il vescovo e vedrete se non la faranno santa. Orfana a quindici anni e non avendo ereditato neppure le carrube che costituivano l’ultima cena di don Antonio, mia nonna si fece adottare dai santi e dal lavoro. Confezionava divise per i soldati, vestì l’esercito per tutte le campagne, da quella eritrea a quella libica; ma le ore in cui la ruota della macchina per cucire si spegneva perché non trovava ancora luce da riflettere, o perché non ne riceveva più, le passava invariabilmente nelle chiese. Se non si arriva al cielo sovrapponendo i quaresimali, i tridui, le vigilie, le quarantore, i mesi mariani e le novene a cui partecipò in mezzo secolo mia nonna, vuol dire che il cielo non si può raggiungere da nessun punto dalla terra; mia nonna assordò il Signore coi suoi Tantum ergo, fu per cinquant’anni uno strenuo grillo annidato fra le statue e i ceri: pregava chiedendo perdono di non conoscere il significato delle parole latine che pronunziava, pregava certo con più impegno e con più fede di quanti Gli dicono, a Dio, esattamente e soltanto ciò che Gli dicono. Tutto questo, l’aspra stoffa militare sotto le dita o i levigati gradini d’altare sotto le ginocchia, non le impedirono, nella sua stagione,  né di essere bella né di piacere a qualcuno. Don Ferdinando Avolio era a sua volta un poveraccio, viveva di un pianino automatico sormontato da una scimmietta di nome Asmara, il cui esclusivo alimento consisteva nelle proprie pulci. Mia nonna non volle saperne di lui finché non minacciò di uccidersi, ma io sono al mondo solo perché don Ferdinando ebbe l’idea, alcuni giorni dopo le nozze, di rivolgere le sue ultime proteste al confessore della sposa, il quale intervenne come meglio seppe. Fu ugualmente un matrimonio infelice, ben presto don Ferdinando si dileguò col suo pianino e col suo quadrumane, mai più dette sue notizie. Mia nonna riferì e affidò ogni cosa alla Madonna dei sette dolori; nutrì di pane con sale e olio la figlia, la maritò, la riebbe vedova, era contenta quando mi prendeva in braccio per insegnarmi i santi, mi baciava in fronte se alla domanda “Come visse la Vergine Maria fino agli anni diciassette?” io rispondevo senza sbagliare “Digiuna”. Dalle sue multiple gonne e dal suo scialle saliva un casto odore che non ho dimenticato, misero e buono, elementare come il pane con sale e olio, un odore di ingiustizie accettate o debiti rimessi o tentazioni respinte, un odore che significava: sia fatta la volontà di tutti.
Mia nonna non potrà essere uguagliata da nessuno nell’arte di preparare il pane con sale e olio; il cassetto lo avevamo aperto un momento prima senza trovarci niente, ma vi frugava le i e subito i tozzi apparivano; spremeva la bottiglia ed ecco l’olio, un capello ma c’era: poi bisognava che l’acqua penetrasse nel nucleo di ogni pezzetto o briciola di pane ma non li privasse di consistenza, doveva essere una risurrezione, un ringiovanimento e basta; infine quel distribuire le gocce d’olio senza fargli toccare il fondo del piatto, in modo che si fermassero nel boccone e potessero raggiungere intatti i cardini della fame giovanile, così soggetti ad arrugginirsi e a gridare. E chi era più brava di mia nonna nel privarsi della sua parte di ogni cibo? Scoprimmo troppo tardi che aveva i suoi poveri anche fuori di casa, c’è da ridere pensando alle sue elemosine, ma negli ultimi mesi visse proprio come la Vergine Maria fino agli anni diciassette e qualcosa evidentemente riuscì a fare. Mia nonna morì di pazienza e di inedia nel 1916; stava per svegliarsi, sospirò e richiuse gli occhi. Venimmo a sapere che aveva venduto il suo consumatissimo anelluccio matrimoniale per potermi dare qualche soldo ogni tanto: li prevedeva dunque, i miei ricatti. Io in quel tempo ero proprio un ragazzaccio, inasprito dal pane con sale e olio, o forse con una vaga reminiscenza, nelle vene,  dei pericolosi don Antonio Fiorentino e don Ferdinando Avolio. Bastava che pronunziassi la prima sillaba di una cattiva parola, o che esprimessi il minimo dubbio sulla bontà dei santi, perché mia nonna si affrettasse, piangendo, a estrarre una monetina dalle profondità dei suoi vestiti.
Nonna, preghi per me, adesso? Se i tuoi meriti mi propongo di segnalarli al vescovo mediante una lettera anonima è perché so di non essere sempre stato un galantuomo;  anche quando ci lasciasti non lo fui, scrissi per te una poesiola in cui nonna rimava con gonna e con colonna, ma poi verso sera, mentre tu cominciavi ad odorare di alito di bambino fra le tue candele (questo prodigio fu giocato al lotto dall’intero rione Materdei, come potrei tacerlo?), sgusciai fuori e me ne andai al cinema Partenope per non perdere l’ultimo episodio del film I topi grigi. Aggiungo che vestendoti per il seppellimento mia madre ti trovò intorno alle reni un cilizio di grosse funi; e così la tua storia finisce, nonna; se ti avessero sottoposta all’autopsia, non dubito che la tua spina dorsale l’avrebbero trovata fatta di grani di rosario, sette poste e i misteri.
Ripeto, da qualche tempo succede che penso: “Oggi vorrei mangiare pane col sale e olio”. Da quegli anni lontani sono andato verso gli altri fatti e altri cibi. La mia tavola non gode ma neppure soffre; viene distesa, su di essa, regolarmente la tovaglia. Forse non trasmetterò ai miei figli il pane con sale e olio che mi fu affidato dagli avi materni: i miei figli forse lo ignoreranno. Sarà un bene? Quando io penso che vorrei mangiare pane con sale e olio, non soltanto ne ritrovo subito il gusto, ma mi sento legato a coloro che lo assaporarono con me, assai più che da naturali vincoli di sangue. La mia prima famiglia si è dissolta, i vecchi sono morti, le sorelle hanno una loro casa altrove. Ma se io dico “Oggi vorrei mangiare pane con sale e olio”, e se le mie sorelle capiscono (come non dubito), si può sempre provare. Maria, Ada, noi ci ritroviamo alla mia o alla vostra tavola e non stendiamo la tovaglia. Una di voi spezza il pane raffermo che si lagna frantumandosi. Lo mette nella zuppiera e vi versa l’acqua, badando a non eccedere. Poco sale, pochissimo olio. Non potete sbagliare, questo è un lavoro che facevate prima di nascere. Mangiamo: il fresco e malinconico sapore riaffluisce in noi e veramente ci ricongiunge. Siamo ancora i fratelli e la casa; la sensazione che i passi leggeri ci si avvicinino e care mani ci sfiorino è simultanea in noi; un odore di alito di bambino si diffonde nella stanza.

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