Steenwijck Harmen - Still life of fruit and dead fowl
da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta
Il cappone
I capponi di Chierchia significano la tranquillità per le feste; se poi arrivassero anche i Toppo di Sparanise, nonno e nipote, quattro braccia infilate in quattro manichi di ceste… si andrebbe a metà gennaio. Chierchia si congeda, ne tintinnano i mobili, don Antonio aspetta che sia rientrato Ernesto e poi ha una specie di allegro singulto, un riso nervoso che eccita l’intera famiglia. Si passa all’azione. Bisogna improvvisare, sul balconcino, un pollaio; c’è inoltre il problema della crusca e del granturco per nutrire i capponi, essi hanno fame, già i loro becchi tentano i bottoni sulla giacca dell’avvocato che sta osservandoli da conoscitore. Egli li soppesa, gode il velluto delle piume la cui originaria fierezza si è come addolcita per una crisi spirituale, per una conversione; la forza è diventata grazia, in questi polli; don Antonio intuisce la loro carne rosea o cuprea di odalische e la adorerebbe, può darsi: se ne sente (capponi vi voglio bene, vi voglio bene assai) indegno e premiato. Le ore passano. I Carraturo sono oppressi da una piacevole stanchezza; la signora Maria confida a un’amica, per telefono, che i preparativi natalizi la affaticano; la signorina Assunta quasi rifiuta le mani del fidanzato, gli dice: «Figurati, hanno già cominciato a portare i capponi» e lo manda via; la famiglia va a letto presto, effettivamente spossata da una certezza; il solo don Antonio indugia fra lo studio e la cucina. Non può restituirsi ai suoi reali o illusori processetti (da causa nasce causa); il tramestìo che ode ogni tanto sul balconcino gli piace, lo intenerisce, lo impegna. Schiude le imposte, si appressa in punta di piedi allo squintematissimo baule che, protetto da giornali e paglia, ha accolto i capponi. Li ascolta, li spia.
Il cappone
I capponi di Chierchia significano la tranquillità per le feste; se poi arrivassero anche i Toppo di Sparanise, nonno e nipote, quattro braccia infilate in quattro manichi di ceste… si andrebbe a metà gennaio. Chierchia si congeda, ne tintinnano i mobili, don Antonio aspetta che sia rientrato Ernesto e poi ha una specie di allegro singulto, un riso nervoso che eccita l’intera famiglia. Si passa all’azione. Bisogna improvvisare, sul balconcino, un pollaio; c’è inoltre il problema della crusca e del granturco per nutrire i capponi, essi hanno fame, già i loro becchi tentano i bottoni sulla giacca dell’avvocato che sta osservandoli da conoscitore. Egli li soppesa, gode il velluto delle piume la cui originaria fierezza si è come addolcita per una crisi spirituale, per una conversione; la forza è diventata grazia, in questi polli; don Antonio intuisce la loro carne rosea o cuprea di odalische e la adorerebbe, può darsi: se ne sente (capponi vi voglio bene, vi voglio bene assai) indegno e premiato. Le ore passano. I Carraturo sono oppressi da una piacevole stanchezza; la signora Maria confida a un’amica, per telefono, che i preparativi natalizi la affaticano; la signorina Assunta quasi rifiuta le mani del fidanzato, gli dice: «Figurati, hanno già cominciato a portare i capponi» e lo manda via; la famiglia va a letto presto, effettivamente spossata da una certezza; il solo don Antonio indugia fra lo studio e la cucina. Non può restituirsi ai suoi reali o illusori processetti (da causa nasce causa); il tramestìo che ode ogni tanto sul balconcino gli piace, lo intenerisce, lo impegna. Schiude le imposte, si appressa in punta di piedi allo squintematissimo baule che, protetto da giornali e paglia, ha accolto i capponi. Li ascolta, li spia.
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