15 giugno 2019

da Va dove ti porta il cuore - Susanna Tamaro

Va dove ti porta il cuore

Allora mi hai minacciato di andartene, di sparire dalla mia vita senza dare più notizie. Ti aspettavi forse la disperazione, le suppliche umili di una vecchia. Quando ti ho detto che partire sarebbe stata un'ottima idea hai cominciato a traballare, sembravi un serpente che alzata la testa di scatto con le fauci aperte e pronto a colpire, a un tratto non vede più davanti a sé la cosa contro cui scagliarsi. Allora hai cominciato a patteggiare, a fare proposte, ne hai fatte di diverse e incerte fino al giorno in cui, con una nuova sicurezza, davanti al caffè mi hai annunciato: «Vado in America».
Ho accolto questa decisione come le altre, con un gentile interessamento. Non volevo, con la mia approvazione, spingerti a fare scelte affrettate, che non sentivi fino in fondo. Nelle settimane seguenti hai continuato a parlarmi dell'idea dell'America. «Se vado un anno là», ripetevi con ossessione, «almeno imparo una lingua e non perdo tempo.» Ti irritavi in modo terribile quando ti facevo notare che perdere tempo non è per niente grave. Il massimo dell'irritazione però l'hai raggiunto nel momento in cui ti ho detto che la vita non è una corsa ma un tiro al bersaglio: non è il risparmio di tempo che conta, bensì la capacità di trovar e un centro. C'erano due tazze sul tavolo che subito hai fatto volare spazzandole con un braccio, poi sei scoppiata a piangere. «Sei stupida», dicevi, nascondendo con le mani il volto. «Sei stupida. Non capisci che è proprio quello che voglio?» Per settimane eravamo state come due soldati che dopo aver sepolto una mina in un campo stanno attenti a non montarci sopra. Sapevamo dov'era, cos'era e camminavamo distanti, fingendo che la cosa da temere fosse un'altra. Quando è deflagrata e tu singhiozzavi dicendomi non capisci niente, non capirai mai niente, ho dovuto fare degli sforzi grossissimi per non farti intuire il mio smarrimento. Tua madre, il modo in cui ti ha concepito, la sua morte, di tutto questo non ti ho mai parlato e il fatto che ne tacessi ti ha portata a credere che per me la cosa non esistesse, che fosse poco importante. Ma tua madre era mia figlia, di questo forse non tieni conto. O forse ne tieni conto, ma invece di dirlo, lo covi dentro, altrimenti non posso spiegarmi certi tuoi sguardi, certe parole cariche di odio. Di lei, a parte il vuoto, tu non hai altri ricordi: eri ancora troppo piccola il giorno che è morta. Io, invece, nella mia memoria conservo trentatre anni di ricordi, trentatre più i nove mesi che l'ho portata in grembo.
Come puoi pensare che la questione mi lasci indifferente?
Nel non affrontare prima l'argomento, da parte mia c'era soltanto pudore e una buona dose di egoismo. Pudore perché era inevitabile che parlando di lei avrei dovuto parlare di me, delle mie colpe vere o presunte; egoismo perché speravo che il mio amore sarebbe stato così grande da coprire la mancanza del suo, da impedirti un giorno di avere nostalgia di lei e di domandarmi: «Chi era mia madre, perché è morta?»
Finché eri bambina, assieme eravamo felici. Eri una bambina piena di gioia ma nella tua gioia non c'era nulla di superficiale, di scontato. Era una gioia su cui stava sempre in agguato l'ombra della riflessione, dalle risate passavi al silenzio con una facilità sorprendente. «Cosa c'è, cosa pensi?» ti chiedevo allora e tu, come se parlassi della merenda, mi rispondevi: «Penso se il cielo finisce o va avanti per sempre». Ero orgogliosa del tuo essere così, la tua sensibilità somigliava alla mia, non mi sentivo grande o distante ma teneramente complice. Mi illudevo, volevo illuder mi che così sarebbe stato per sempre. Ma purtroppo non siamo esseri sospesi in bolle di sapone, vaganti felici per l'aria; c'è un prima e un dopo nelle nostre vite e questo prima e dopo intrappola i nostri destini, si posa su di noi come una rete sulla preda. Si dice che le colpe dei padri cadano sui figli. È vero, verissimo, le colpe dei padri cadono sui figli, quelle dei nonni sui nipoti, quelle dei bisnonni sui bisnipoti. Ci sono verità che portano in sé un senso di liberazione e altre che impongono il senso del tremendo. Questa appartiene alla seconda categoria. Dove finisce la catena delle colpe? A Caino? Possibile che tutto debba andar e così lontano? C'è qualcosa dietro tutto questo? Una volta, in un libro indiano ho letto che il fato possiede tutto il potere mentre lo sforzo della volontà è solo un pretesto. Dopo averlo letto una gran pace mi è scesa dentro. Già il giorno dopo però, poche pagine più in là, ho trovato scritto che il fato non è altro che il risultato delle azioni passate, siamo noi, con le nostre mani, a forgiare il nostro stesso destino. Così sono tornata al punto di partenza. Dov'è il bandolo di tutto questo, mi sono chiesta. Qual è il filo che si dipana?
È un filo o una catena? Si può tagliare, rompere oppure ci avvolge per sempre?
Intanto taglio io. La mia testa non è più quella di una volta, le idee ci sono sempre, certo, non è cambiato il modo di pensare ma la capacità di sostenere uno sforzo prolungato. Adesso sono stanca, la testa mi gira come quando da giovane cercavo di leggere un libro di filosofia. Essere, non essere, immanenza... dopo poche pagine provavo lo stesso stordimento che si prova viaggiando su una corriera per strade di montagna. Per il momento ti lascio, vado un po' a istupidirmi davanti a quella amata odiata scatoletta che sta in salotto.

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