16 giugno 2019

Il fu Mattia Pascal - Luigi Pirandello

Il fu Mattia Pascal

L'inverno, l'inverno m'ispirava queste riflessioni malinconiche, la prossima festa di Natale che fa desiderare il tepore d'un cantuccio caro, il raccoglimento, l'intimità
della casa.
Non avevo certo da rimpiangere quella di casa mia. L'altra, più antica, della casa paterna, l'unica ch'io potessi ricordare con rimpianto, era già distrutta da un pezzo, e non da quel mio nuovo stato. Sicché dunque dovevo contentarmi, pensando che davvero non sarei stato più
lieto, se avessi passato a Miragno, tra mia moglie e mia suocera – (rabbrividivo!) – quella festa di Natale.
Per ridere, per distrarmi, m'immaginavo intanto, con un buon panettone sotto il braccio, innanzi alla porta di casa mia.
«— Permesso? Stanno ancora qua le signore Romilda Pescatore, vedova Pascal, e Marianna Dondi, vedova Pescatore?»
«— Sissignore. Ma chi è lei?»
«— Io sarei il defunto marito della signora Pascal, quel povero galantuomo morto l'altr'anno, annegato. Ecco, vengo lesto lesto dall'altro mondo per passare le feste in
famiglia, con licenza dei superiori. Me ne riparto subito!»
Rivedendomi così all'improvviso, sarebbe morta dallo spavento la vedova Pescatore? Che! Lei? Figuriamoci! Avrebbe fatto rimorire me, dopo due giorni.
La mia fortuna – dovevo convincermene – la mia fortuna consisteva appunto in questo: nell'essermi liberato della moglie, della suocera, dei debiti, delle afflizioni umilianti della mia prima vita. Ora, ero libero del tutto. Non mi bastava? Eh via, avevo ancora tutta una vita innanzia me. Per il momento... chi sa quanti erano solicom'ero io!
«Sì, ma questi tali,» m'induceva a riflettere il cattivo tempo, quella nebbia maledetta, «o son forestieri e hanno altrove una casa, a cui un giorno o l'altro potranno far ritorno, o se non hanno casa come te, potranno averla domani, e intanto avran quella ospitale di qualche amico. Tu invece, a volerla dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere della vita, Adriano Meis.»
Mi scrollavo, seccato, esclamando:
— E va bene! Meno impicci. Non ho amici? Potrò averne...
Già nella trattoria che frequentavo in quei giorni, un signore, mio vicino di tavola, s'era mostrato inchinevole a far amicizia con me. Poteva avere da quarant'anni : calvo sì e no, bruno, con occhiali d'oro, che non gli si reggevano bene sul naso, forse per il peso de la catenella pur d'oro. Ah, per questo un ometto tanto carino! Figurarsi che, quando si levava da sedere e si poneva il cappello in capo, pareva subito un altro: un ragazzino pareva. Il difetto era nelle gambe, così piccole, che non gli arrivavano neanche a terra, se stava seduto: egli non si alzava propriamente da sedere, ma scendeva piuttosto dalla sedia. Cercava di rimediare a questo difetto, portando i tacchi alti. Che c'è di male? Sì, facevan troppo rumore quei tacchi; ma gli rendevano intanto così graziosamente imperiosi i passettini da pernice.
Era molto bravo poi, ingegnoso – forse un pochino bisbetico e volubile – ma con vedute sue, originali; ed era anche cavaliere.
Mi aveva dato il suo biglietto da visita: – Cavalier Tito Lenzi.
A proposito di questo biglietto da visita, per poco non mi feci anche un motivo d'infelicità della cattiva figura che mi pareva d'aver fatta, non potendo ricambiarglielo. Non avevo ancora biglietti da visita: provavo un certo ritegno a farmeli stampare col mio nuovo nome. Miserie! Non si può forse fare a meno de' biglietti da visita? Si dà a voce il proprio nome, e via.
Così feci; ma, perdir la verità, il mio vero nome... basta!
Che bei discorsi sapeva fare il cavalier Tito Lenzi! Anche il latino sapeva; citava come niente Cicerone.

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