15 giugno 2019

La califfa - Alberto Bevilacqua

La califfa - Alberto Bevilacqua

Ma da quel rendiconto, la voce di don Campagna l'aveva richiamato. «Mi dispiace che lei si tormenti, che si dia tanta preoccupazione...» disse il vecchio sacerdote, credendo che il Martinolli se ne stesse in quel modo, mani dietro la schiena e occhi nel vuoto, per riflettere se gli convenisse o meno di accordare il permesso di celebrare la festa. Il Vicario lo fissò un attimo, stranito, ma subito si riprese. «Ma lei lo sa,» disse «lei lo sa che differenza passa tra la liberalità non ragionata e una pessima politica?» "Un capello, lo so..." pensò don Ersilio, ma rispose ad alta voce: «No, eminenza...». «E lo sa che differenza passa tra una pessima politica e la più assoluta disgrazia con Dio?...» «Eh, no, eminenza...» Il Martinolli si accende di luminosa soddisfazione: «Un capello, mio caro, un filino sottile come un capello...», e il Monsignore si tormentò una ciocca dei suoi capelli bianchi. Don Ersilio tornò a chinare il capo: «Hanno già preparato tutto, povera gente... sono già lì che aspettano...». «Ci tirano per la sottana solo quando gli fa comodo...» disse il Martinolli, riprendendo a camminare per la stanza. Fingeva nuova meditazione, per lasciare sulle spine il povero prete e quindi il Mazza che faceva da palo al portone. Ma la conseguenza vera e propria, quella che lui andava ricercando, era che la gente delle borgate, tardando a vedere don Campagna di ritorno, cominciava ad avere dubbi e a soffrirci. E che stessero col fiato sospeso, oltre il torrente, e si guardassero in faccia costretti, per forza maggiore, a farsi un esame di coscienza, sia pure interessato: questa era una delle poche soddisfazioni di cui poteva compiacersi il Monsignore nei confronti di quella fanatica, testarda sesta colonna. Ma erano un cruccio e un silenzio che finivano per lasciarsi vincere dalle timide argomentazioni di don Ersilio, perché al Martinolli non passava nemmeno per la testa di concludere la sua finzione con un rifiuto. Ci mancava... Rischiare lo scoppio di una rivolta solo perché tra la liberalità non ragionata e la pessima politica ci passava un capello. E poi c'era la pietà per don Ersilio che – d'improvviso dissolta ogni rivalsa – lo afferrava quando il vecchio prete se ne andava, lasciando nella stanza il suo odore di tabacco. Il Martinolli udiva le sue scarpe che sbattevano giù per la scala. Gli pareva di udire anche il suo fiato pesante di catarro e di vederlo come si appoggiava alla ringhiera, con le ossa che gli ballavano dentro la tonaca. Allora si apriva in lui una di quelle frane repentine che, a volte, lo folgoravano, velandogli gli occhi di pianto; che lo portavano a prendersi la testa nelle mani e a chiedere, più che a Dio, al fantasma del suo bisogno di consolazione: «Aiutami...». 3. Ed era così che i borghi potevano esplodere in quella che, più che una festa antica di generazioni, era una pausa attesa per mesi alle fatiche dei corpi e degli spiriti, un modo esaltante di sentirsi purificati e liberi, gloriosi e felici, sia pure nel breve spazio di una notte sola. Il ventiquattro di giugno vedeva sorgere un'alba strana sulle case vecchie della città. Non si udivano, nella prima luce del giorno, le grida dei cassonieri o i camion diretti alle fabbriche, e nemmeno si alzavano le saracinesche dei negozi o sbattevano le persiane delle case. Silenzio fino a mezzogiorno, persino sulle osterie. Sembravano borgate di morti. Ma dietro le facciate impenetrabili, non era la morte, bensì l'attesa di un momento di vita vera, sfrenata, libera; perché la gente cercava di dormire qualche ora in più per essere più sveglia la notte quando, con il primo buio, le porte si spalancavano, le strade si illuminavano a giorno e la gente correva fuori, nelle strade, nei campi, sugli argini, verso le colline. Sull'erba si mangiava, si beveva, ed era l'amore per se stesso quello che imponeva l'ebbrezza comune, libero da distinzioni, da pudori, dalle oscure radici dell'intimità e dell'egoismo. Era una follia antica, che s'interrompeva allorché dai campanili arrivava il suono della mezzanotte. Sotto la luna, allora, e sull'erba già umida, la folla ammutoliva, le facce si alzavano al cielo, verso le stelle, e negli occhi correva una commozione che aveva la sola ragione di una comune speranza tramandata nei secoli. Nessuno toccava cibo, in quell'attimo, e anche i giovani si scioglievano dagli abbracci per guardare in su, aspettandosi la grazia da quelle stelle inabissate e deboli nel velo della calura notturna. I rumori della statale, le voci e le musiche che giungevano dalla riva opposta, non facevano più parte di quel tempo e di quello spazio, di quella folla come dipinta nella sua immobilità, rinata per suggestione all'orgoglio della sua stirpe. Finché uno, il primo, non si alzava dal suo posto e dal suo cibo alzando le braccia e avvicinandosi al volto le mani tremanti; si copriva la faccia con le mani, accarezzandosi sulla pelle il velo sottile della rugiada e gridava: «La manna! La manna!...». Ed era un grido che contaminava

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