da Bambini-nel tempo - Ian McEwan
Infine, a settembre avanzato, la pioggia arrivò sotto forma di burrasche che in meno di una settimana spogliarono gli alberi quasi del tutto. Le foglie si ammassarono nei tombini otturandoli; certe strade si trasformarono in fiumi navigabili, coppie di anziani dovettero essere estratte da appartamenti nei sottoscala da vigili del fuoco in stivaloni impermeabili, e, almeno in Tv, aleggiò la generale sensazione di un’emozionante piccola catastrofe. Esperti del servizio meteorologico tentarono di spiegare come mai non ci fosse stato l’autunno, e si fosse passati dall’estate della settimana precedente, all’inverno di questa. Non mancavano certo le teorie confortanti in proposito: l’incombente glaciazione, lo scioglimento delle calotte polari, l’impoverimento dello strato di ozono causato dai fluorocarburi, l’agonia del sistema solare. Da baracche urbane di cui nessuno conosceva l’esistenza comparvero militari armati di pompe per servizi pesanti. Un elicottero dell’esercito fu ripreso nell’atto di mettere in salvo un ragazzino rimasto bloccato su un albero e, nel corso dei notiziari televisivi, capi di polizia e comandanti dell’esercito indicavano con una bacchetta dei punti sulle carte geografiche. Si vide il segretario degli Interni, l’ex capo di Charles, andare a visitare le aree maggiormente colpite. L’ufficio stampa del gabinetto dichiarò che il primo ministro si stava occupando della faccenda personalmente. Era opinione diffusa e ragionevole che il tempo stesse rendendo un buon servizio al governo, perché se era vero che nessuno sapeva come fermare la pioggia, era anche innegabile che ci si stesse dando da fare. Piovve per cinquanta giorni di seguito. Poi smise, la vita riprese il suo corso normale e mancava ormai poco a Natale.
Il clima ebbe scarsi effetti sul torpore di Stephen. Le Olimpiadi gli avevano lasciato in eredità il gusto per la televisione di mattina e pomeriggio. Era iniziato un nuovo programma quotidiano sponsorizzato dal governo e specializzato in giochi e dibattiti, pubblicità e telefonate in studio. Stephen, stravaccato in pigiama e cardigan pesante sul divano, e con la bottiglia dello scotch, si guardava con la pazienza appannata del videodipendente tutti i giochi a premi. In un angolo della stanza un secchiello da ghiaccio raccoglieva le gocce che colavano dal soffitto. I presentatori dei vari programmi si assomigliavano al punto che Stephen aveva finito con l’appassionarsi. Erano seri professionisti, impegnati a svolgere il loro lavoro al servizio dell’ordine, all’interno di una convenzione le cui formali censure venivano di quando in quando smascherate in cinici commenti ad alta voce. E gli piacevano anche quelle fragili coppie tenerissime che ricevevano caldi benvenuti in palcoscenico e si tenevano sempre per mano, le bizzarre fanfare e gli squilli di tromba che annunciavano il disvelamento di un congelatore famigliare, le vallette seminude con i loro coraggiosi sorrisi immutabili.
Gli spettatori, al contrario, gli procuravano attacchi di misantropia delirante. Sarà stato lo zelo mansueto con cui si sforzavano di compiacere il presentatore e di mostrarsi a loro volta appagati, la prontezza nell’applaudire, fare il tifo a comando o sventolare bandierine di plastica con lo slogan della trasmissione; sarà stata la facilità con cui era possibile pilotarne gli umori, un attimo divertiti fino all’entusiasmo e l’attimo dopo seri e pacati, ora impertinenti ora un po’ sentimentali e nostalgici, imbarazzati, mortificati da un’arringa del loro ospite e poi di nuovo allegrissimi. Le facce accecate dalle luci dei riflettori erano quelle di adulti, padri e madri di famiglia, lavoratori, ma le ampie espressioni ingenue parevano quelle di bimbi che osservino l’esibizione di un prestigiatore a una festa privata. Quando il presentatore scendeva in mezzo a loro e li chiamava per nome, scherzava, li lusingava, venivano invasi da una sorta di sacro timore reverenziale. Te ne dà abbastanza Henry? Da mangiare, si intende. Eh? Eh? Avanti, coraggio, diccelo. Te ne dà abbastanza? Ed eccolo lì, Henry: un uomo canuto con tanto di lenti bifocali, uno che, con un abito di taglio migliore, avrebbe potuto passare per un capo di stato; eccolo lì a sghignazzare guardando significativamente la moglie per poi affondare la faccia fra le mani mentre intorno a lui tutti scoppiavano a ridere e applaudivano. Come poteva sorprendere che il mondo fosse in mano a degli imbecilli quando queste anime invertebrate potevano accostarsi alle urne? La «gente comune» - espressione usatissima dai presentatori - era questa: infanti che non desideravano altro che sapere quando dovevano ridere.
Stephen rovesciò la bottiglia e bevve: era pronto a negare il diritto di voto a tutti quanti. Anzi, di più, li voleva puniti, bastonati a dovere, ma no, torturati. Come osavano essere dei bambini! Era anche disposto, da quell’individuo ragionevole e tollerante che era, ad ascoltare qualcuno che gli spiegasse esattamente a che cosa serviva tutta quella gente, per quale motivo si dovesse permettere loro di seguitare a vivere.
Infine, a settembre avanzato, la pioggia arrivò sotto forma di burrasche che in meno di una settimana spogliarono gli alberi quasi del tutto. Le foglie si ammassarono nei tombini otturandoli; certe strade si trasformarono in fiumi navigabili, coppie di anziani dovettero essere estratte da appartamenti nei sottoscala da vigili del fuoco in stivaloni impermeabili, e, almeno in Tv, aleggiò la generale sensazione di un’emozionante piccola catastrofe. Esperti del servizio meteorologico tentarono di spiegare come mai non ci fosse stato l’autunno, e si fosse passati dall’estate della settimana precedente, all’inverno di questa. Non mancavano certo le teorie confortanti in proposito: l’incombente glaciazione, lo scioglimento delle calotte polari, l’impoverimento dello strato di ozono causato dai fluorocarburi, l’agonia del sistema solare. Da baracche urbane di cui nessuno conosceva l’esistenza comparvero militari armati di pompe per servizi pesanti. Un elicottero dell’esercito fu ripreso nell’atto di mettere in salvo un ragazzino rimasto bloccato su un albero e, nel corso dei notiziari televisivi, capi di polizia e comandanti dell’esercito indicavano con una bacchetta dei punti sulle carte geografiche. Si vide il segretario degli Interni, l’ex capo di Charles, andare a visitare le aree maggiormente colpite. L’ufficio stampa del gabinetto dichiarò che il primo ministro si stava occupando della faccenda personalmente. Era opinione diffusa e ragionevole che il tempo stesse rendendo un buon servizio al governo, perché se era vero che nessuno sapeva come fermare la pioggia, era anche innegabile che ci si stesse dando da fare. Piovve per cinquanta giorni di seguito. Poi smise, la vita riprese il suo corso normale e mancava ormai poco a Natale.
Il clima ebbe scarsi effetti sul torpore di Stephen. Le Olimpiadi gli avevano lasciato in eredità il gusto per la televisione di mattina e pomeriggio. Era iniziato un nuovo programma quotidiano sponsorizzato dal governo e specializzato in giochi e dibattiti, pubblicità e telefonate in studio. Stephen, stravaccato in pigiama e cardigan pesante sul divano, e con la bottiglia dello scotch, si guardava con la pazienza appannata del videodipendente tutti i giochi a premi. In un angolo della stanza un secchiello da ghiaccio raccoglieva le gocce che colavano dal soffitto. I presentatori dei vari programmi si assomigliavano al punto che Stephen aveva finito con l’appassionarsi. Erano seri professionisti, impegnati a svolgere il loro lavoro al servizio dell’ordine, all’interno di una convenzione le cui formali censure venivano di quando in quando smascherate in cinici commenti ad alta voce. E gli piacevano anche quelle fragili coppie tenerissime che ricevevano caldi benvenuti in palcoscenico e si tenevano sempre per mano, le bizzarre fanfare e gli squilli di tromba che annunciavano il disvelamento di un congelatore famigliare, le vallette seminude con i loro coraggiosi sorrisi immutabili.
Gli spettatori, al contrario, gli procuravano attacchi di misantropia delirante. Sarà stato lo zelo mansueto con cui si sforzavano di compiacere il presentatore e di mostrarsi a loro volta appagati, la prontezza nell’applaudire, fare il tifo a comando o sventolare bandierine di plastica con lo slogan della trasmissione; sarà stata la facilità con cui era possibile pilotarne gli umori, un attimo divertiti fino all’entusiasmo e l’attimo dopo seri e pacati, ora impertinenti ora un po’ sentimentali e nostalgici, imbarazzati, mortificati da un’arringa del loro ospite e poi di nuovo allegrissimi. Le facce accecate dalle luci dei riflettori erano quelle di adulti, padri e madri di famiglia, lavoratori, ma le ampie espressioni ingenue parevano quelle di bimbi che osservino l’esibizione di un prestigiatore a una festa privata. Quando il presentatore scendeva in mezzo a loro e li chiamava per nome, scherzava, li lusingava, venivano invasi da una sorta di sacro timore reverenziale. Te ne dà abbastanza Henry? Da mangiare, si intende. Eh? Eh? Avanti, coraggio, diccelo. Te ne dà abbastanza? Ed eccolo lì, Henry: un uomo canuto con tanto di lenti bifocali, uno che, con un abito di taglio migliore, avrebbe potuto passare per un capo di stato; eccolo lì a sghignazzare guardando significativamente la moglie per poi affondare la faccia fra le mani mentre intorno a lui tutti scoppiavano a ridere e applaudivano. Come poteva sorprendere che il mondo fosse in mano a degli imbecilli quando queste anime invertebrate potevano accostarsi alle urne? La «gente comune» - espressione usatissima dai presentatori - era questa: infanti che non desideravano altro che sapere quando dovevano ridere.
Stephen rovesciò la bottiglia e bevve: era pronto a negare il diritto di voto a tutti quanti. Anzi, di più, li voleva puniti, bastonati a dovere, ma no, torturati. Come osavano essere dei bambini! Era anche disposto, da quell’individuo ragionevole e tollerante che era, ad ascoltare qualcuno che gli spiegasse esattamente a che cosa serviva tutta quella gente, per quale motivo si dovesse permettere loro di seguitare a vivere.
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