2 luglio 2019

da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta

da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta
Il ragù

La bianca tovaglia della domenica fra il pane e il vino; lo squillo delle posate; la vecchia Acampora a capotavola con gli occhi fermi e polverosi di un idolo; i commensali nell’attimo di tenerezza che la zuppiera fumante suscita in chi la vede arrivare; il ragù, il rosso aromatico ragù che pulsa nei maccheroni come il sangue nelle arterie: tutto qui, forse? Le domeniche si succedono, incalzano, precipitano; mentre don Ernesto, o chiunque, rimuove
il ragù nel tegame, trascorrono anni e anni. Per non dare una matrigna ai suoi sette figli, quest’uomo li privò di sette madri. Crebbero come piante selvatiche; San Gennaro, insensibile ai presunti vincoli di parentela con la vecchia Acampora, non impedì che Mariuccia e Teresa morissero di tisi, che Gaetano si desse alla malavita e ne ricavasse dieci anni di carcere, che Assunta seguisse a Genova un marinaio per poi ritrovare in una casa equivoca Luisella che era partita qualche mese prima con un sedicente tenore.
Restavano Anna, che era deficiente, e Pasqualino. Quest’ultimo aveva una cicatrice in mezzo alla fronte e gli occhi sfuggenti. Quando tornò dal servizio militare finse di non vedere le braccia tese di don Ernesto, gli disse:
«Dato che tu sei mio padre ma contemporaneamente stai in America come Scaiano e non come Acampora, potrei almeno sapere chi è mia madre?».
Don Ernesto rispose perplesso che non se ne ricordava; Pasqualino gli dette uno schiaffo, e fu doppiamente ingeneroso: perché il padre non aveva mentito e perché a modo suo gli voleva molto bene, come a modo suo lo aveva messo al mondo. Il giovane uscì e non fu più visto nel rione Mercato; ma vivo o morto che sia questo impulsivo Pasqualino, chi sa se la guancia di don Ernesto ha finito di bruciare. I vuoti intorno alla bianca tovaglia della domenica sono ora colmati da estranei; la vecchia Acampora, seduta al posto d’onore, sembra scavata nel tufo tanto è vecchia; Anna, la giovinetta idiota, ride stupidamente fissando la zuppiera: e là c’è il ragù.
Può darsi che a ciò pensasse l’ultimo don Ernesto ogni domenica, mentre preparava il suo celebre ragù. Si tratta, ripeto, di un lungo e difficile lavoro, che si esegue fantasticando. Il cucchiaio di legno rimuove nel tegame, con l’impareggiabile sugo, tempo e dolore. Ma il ragù non sarà meno buono per questo, aspettate a giudicarlo.

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