da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta
Gli spaghetti
Figli miei, non mettetevi mai a piangere un morto (me per primo) senza spaghetti che puntellino l’ambascia di ognuno, senza un remoto odore di spaghetti che raggiunga e conforti la fiamma dei ceri. Non salse, non grassi: conditeli, per le veglie funebri, di sola ricotta. Al cenno della vecchia zia che appare sulla soglia, il congiunto anziano si asciuga gli occhi, esce impercettibilmente nel corridoio, sguscia in cucina. Sulla matassa degli spaghetti il castissimo triangolo di ricotta splende; l’uomo lo frantuma con la forchetta, tutto è bianco nel suo piatto e nel suo cuore, egli dice grazie, dice siano rinfrescate le anime del Purgatorio e poi sorridendo mangia, con le proprie lacrime, la campagna in cui crebbe il grano che fece gli spaghetti, il sole che li ristorò, la brezza che pettinandoli con dolce pazienza li scisse: mangia perfino, questo dannato don Carmine o don Vincenzo, il secchio nel quale lo scontrosissimo latte si rapprese per trasformarsi in ricotta: lo spettacolo della morte acuisce straordinariamente la nostra sensibilità, costui o pensa adesso che legno è una bara come legno è uno sgabello per mungere, o non ci penserà mai più. Intanto la vecchia ha riempito un secondo piatto; avanti, in ordine di importanza, un altro parente del povero don Peppino. Faccio il mio caso e insisto: per le morti e per le nascite vi prescrivo, figli miei, esclusivamente spaghetti; spaghetti mangiò mio padre nella grande cucina mentre io stavo per vedere la luce (si forbiva ogni tanto i baffi, ci ripensava, tendeva l’orecchio ed esclamava: «Ma insomma, a che punto siamo?»), spaghetti mangerete voi, uno dopo l’altro affinché io non noti le assenze e continui a gelare quieto tra fiori e candele. Siate forti, ragazzi; ossia cuoceteli con molta acqua gli spaghetti funebri, serviteli al dente, buon appetito.
Gli spaghetti
Figli miei, non mettetevi mai a piangere un morto (me per primo) senza spaghetti che puntellino l’ambascia di ognuno, senza un remoto odore di spaghetti che raggiunga e conforti la fiamma dei ceri. Non salse, non grassi: conditeli, per le veglie funebri, di sola ricotta. Al cenno della vecchia zia che appare sulla soglia, il congiunto anziano si asciuga gli occhi, esce impercettibilmente nel corridoio, sguscia in cucina. Sulla matassa degli spaghetti il castissimo triangolo di ricotta splende; l’uomo lo frantuma con la forchetta, tutto è bianco nel suo piatto e nel suo cuore, egli dice grazie, dice siano rinfrescate le anime del Purgatorio e poi sorridendo mangia, con le proprie lacrime, la campagna in cui crebbe il grano che fece gli spaghetti, il sole che li ristorò, la brezza che pettinandoli con dolce pazienza li scisse: mangia perfino, questo dannato don Carmine o don Vincenzo, il secchio nel quale lo scontrosissimo latte si rapprese per trasformarsi in ricotta: lo spettacolo della morte acuisce straordinariamente la nostra sensibilità, costui o pensa adesso che legno è una bara come legno è uno sgabello per mungere, o non ci penserà mai più. Intanto la vecchia ha riempito un secondo piatto; avanti, in ordine di importanza, un altro parente del povero don Peppino. Faccio il mio caso e insisto: per le morti e per le nascite vi prescrivo, figli miei, esclusivamente spaghetti; spaghetti mangiò mio padre nella grande cucina mentre io stavo per vedere la luce (si forbiva ogni tanto i baffi, ci ripensava, tendeva l’orecchio ed esclamava: «Ma insomma, a che punto siamo?»), spaghetti mangerete voi, uno dopo l’altro affinché io non noti le assenze e continui a gelare quieto tra fiori e candele. Siate forti, ragazzi; ossia cuoceteli con molta acqua gli spaghetti funebri, serviteli al dente, buon appetito.
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