5 luglio 2020

L’Agnese va a morire – Renata Viganò



L’Agnese va a morire – Renata Viganò

Rimase di nuovo sola per tanti giorni, col lavoro dei viveri e il servizio delle staffette. C’era movimento in valle. Col tempo migliorato gli inglesi ricominciarono i bombardamenti. I tedeschi rafforzavano la contraerea e chiudevano gli apparecchi in una rete di scoppi. Qualcuno, colpito, precipitava in fiamme; oppure sbandava, e si vedevano i piccoli uomini appesi al grande ombrello del paracadute discendere piano piano muovendo le gambe come se nuotassero in aria. correvano allora in quella direzione le donne dell’Agnese, con camicie, tute, giacche, scarpe per l’aviatore scampato.
Tutto dipendeva dalla rapidità di raggiungerlo, farlo travestire, condurlo lontano prima che arrivassero i tedeschi. Poi lo portavano in barca in una “caserma”, ci stava un giorno o due, finché non era pronto il mezzo di fargli passare le linee. Gli alleati però avevano preso il vizio di mitragliare anche le barche. Il traffico viveri, di uomini, di armi fra la terra e l’acqua diventava pericoloso e difficile.
Il comandante fece trasmettere dalla radio clandestina i limiti della zona dove non c’erano tedeschi ma solo partigiani. Ma gli alleati continuarono. Passavano alti sullo specchio immenso, bianco nella luce, con le macchie dei “dossi”, e le strisce più lucide delle correnti. Di lassù doveva sembrare un gran pezza di seta arabescata, bianco e nero, un abito da mezzo lutto; e in mezzo quelle piccole cose che parevano ferme: le barche, con i partigiani indifesi e scoperti, senza modo di rifugiarsi. Gli aerei d’improvviso si buttavano giù, il motore urlava nel silenzio opaco dell’acqua, e veniva fuori la raffica di mitraglia, uno sprazzo duro di fuoco. La barca stava lì, investita, non poteva scappare, era come una mosca presa nella tela di ragno. I partigiani si mettevano distesi nel fondo sotto i sedili, con le braccia sulla testa. Bastava rovesciarsi feriti nell’acqua, o che si capovolgesse la barca, per non tornare più a galla, e restare invischiati nel pantano, nei solidi grovigli delle erbe di palude. I «ragazzi» vedevano la morte, gli sventagliava sulla faccia. A quelli della “caserma” di Clito un proiettile colpì una damigiana piena, il vino allagava la barca, dovettero gettare la damigiana nell’acqua, e il vino rosso la tinse come se fosse sangue. Un barcaiolo che portava il commissario politico a un’altra “caserma” ebbe il paradello spezzato. E cinque partigiani del gruppo “delle isole” non fecero in tempo neppure a vederla la morte. Li portò via con una scarica, la barca affondò nel mezzo di un canale, chissà dove fu trascinata: non si trovarono più.
[…]
Sotto la pioggia spessa l’Agnese andava con le sporte. Non più all’approdo, con tanti tedeschi in giro, ma molto più oltre, lungo l’argine, perché la barca potesse venire a terra senza farsi vedere. Appena sbucò dai campi sulla strada, incontrò tre tedeschi presso il canale: erano due soldati e un tenente. L’ufficiale sommergeva nel fango i suoi stivaloni nuovi, era giovane, alto, bello, ben vestito. Guardava verso il largo della valle col binocolo, sembrava agitato. Quando gli passò vicino l’Agnese, curva per il peso delle sporte e per la pioggia, le dedicò un’attenzione ostinata, vedendola andare con il suo carico sotto l’acqua, e i piedi bagnati nelle ciabatte: una donna grassa, ansante, da sola, quasi vecchia, fuori con il maltempo, in un paesaggio disabitato, in un’ora morta del pomeriggio. Strano.
L’Agnese gli dette un’occhiata di traverso. Si scontrò con il suo sguardo fisso, le parve che avesse gli occhi grandi, aperti e lucenti come fanali. Tirò avanti per la strada, pensando che l’avrebbero seguita e fermata. Invece il tenente nazista disse qualche parola in tedesco ai soldati, poi si volse, lungo, rigido, andò nella direzione opposta, verso il crocicchio. L’Agnese girò la testa due o tre volte camminando: vedeva il suo impermeabile nero, lustro di pioggia, allontanarsi fra i due cappotti grigi dei soldati.

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