Il tamburo di latta - Gunter Grass
Tutti, anche lo studente d’ingegneria, furono rinvenuti col volto trasfigurato e con oggetti taglienti o acuminati conficcati nel petto, del genere che si poteva trovare soltanto nelle raccolte dello stesso museo: aghi da vela, grappini d’arrembaggio, arpioni, punte finemente cesellate di lance dei selvaggi della Costa d’Oro; e soltanto il secondo studente liceale aveva dovuto ricorrere al suo temperino e poi al compasso, perché poco prima della sua morte tutti gli oggetti taglienti del museo erano stati fissati a catene oppure chiusi in vetrine.
Benché i criminalisti della squadra omicidi inclinassero a ravvisare in ogni decesso un suicidio dovuto a circostanze tragiche, in città circolava insistente una diceria, che trovava eco anche nella stampa: “Tutta colpa della ”pupa verde,“ opera delle sue mani.” Niobe era gravemente sospettata di aver fatto trapassare dalla vita alla morte numerosi uomini e ragazzi. Si discusse senza fine; i giornali dedicarono un’apposita rubrica alle varie opinioni sul caso Niobe, liberamente espresse; si parlò di fatalità. L’amministrazione comunale parlò di superstizione anacronistica e dichiarò che non sarebbero state prese misure affrettate finché non fosse stato provato in modo inequivocabile che realmente qualcosa di anormale stava succedendo.
Così la figura di legno verde rimase anche in seguito nel Museo Navale al posto d’onore, poiché il museo provinciale di Oliva, quello comunale nella Fleischergasse e il direttore della “Corte di Artù” si rifiutarono di accogliere quella ninfomane forsennata.
C’era penuria di gente disposta a fare i custodi del museo. E non solo i custodi si rifiutavano di tener d’occhio la donzella di legno. Anche i visitatori evitavano la sala in cui si trovava la figura dagli occhi d’ambra.
A lungo regnò un profondo silenzio dietro le finestre rinascimentali che davano il necessario effetto di luce laterale alla scultura modellata a tutto tondo. La polvere si accumulava.
Le donne delle pulizie non venivano più. I fotografi, altre volte tanto invadenti (uno era morto poco dopo aver fatto una messa a fuoco della polena, di una morte che parve naturale, ma in cui si poteva anche vedere una significativa correlazione con la fotografia), non fornirono più alla stampa dello Stato libero, della Polonia, della Germania e perfino della Francia immagini al magnesio della scultura assassina, anzi distrussero nei loro archivi i precedenti ritratti di Niobe, e fotografarono da allora in poi soltanto scene dell’arrivo e della partenza di vari presidenti, capi di Stato e re in esilio, vivendo all’insegna di quello che di volta in volta capitava in programma: mostre di volatili, assemblee del Partito del Reich, gare automobilistiche e inondazioni primaverili.
Così rimasero le cose fino al giorno in cui Herbert Truczinski, che non voleva assolutamente più saperne di fare il cameriere né di entrare alla dogana, prese posto in divisa grigio-topo da custode di museo sulla sedia di cuoio accanto alla porta di quella sala che il popolino chiamava “il salottino della pupa.” Sin dal primo giorno in cui si recò al lavoro, lo accompagnai alla fermata del tram sulla Max-Halbe-Platz. Ero molto preoccupato per lui.
“Va a casa, piccolo Oskar; non posso prenderti con me.” Ma io, che avevo con me il tamburo, mi imponevo con tale insistenza agli occhi del mio grande amico, che Herbert disse: “Be, allora vieni fino al Hohes Tor. Ma poi torni indietro, eh?” Al Hohes Tor non volli scendere a prendere il 5, e allora Herbert mi lasciò venire con lui nella Heilige-Geist-Gasse; tentò ancora una volta di disfarsi di me eravamo ormai davanti al portone del museo – ma poi, visto che tutto era inutile, prese alla cassa un biglietto d’ingresso per bambini. Avevo bensì già quattordici anni e avrei dovuto pagare il prezzo normale, ma questo a loro che importava?
Fu una buona giornata tranquilla. Nessun visitatore, nessun controllo.
Ogni tanto battevo il tamburo per una mezz’oretta, ogni tanto Herbert si appisolava per un’oretta. Niobe guardava davanti a sé coi suoi occhi d’ambra e protendeva il petto verso una meta che non era la nostra meta. Poco ci curavamo di lei. “Tanto, non è il mio tipo,” disse Herbert.
“Guardatela un po, grassa come è, e col doppio mento.” La osservava tenendo la testa un po china da un lato: “E poi guarda le reni, sono come uno stipetto per due persone. Herbert è per le donnine, per quelle puttanelle che paiono bambolotte.” Ascoltai Herbert descrivere in lungo e in largo quello che era il suo tipo di donna, e stetti a guardare le sue poderose mani che impas tavano i contorni di una graziosa persona di sesso femminile, che è rimasta a lungo ed è ancora oggi, anche camuffata sotto la divisa d’infermiera, il mio ideale di donna.
Tutti, anche lo studente d’ingegneria, furono rinvenuti col volto trasfigurato e con oggetti taglienti o acuminati conficcati nel petto, del genere che si poteva trovare soltanto nelle raccolte dello stesso museo: aghi da vela, grappini d’arrembaggio, arpioni, punte finemente cesellate di lance dei selvaggi della Costa d’Oro; e soltanto il secondo studente liceale aveva dovuto ricorrere al suo temperino e poi al compasso, perché poco prima della sua morte tutti gli oggetti taglienti del museo erano stati fissati a catene oppure chiusi in vetrine.
Benché i criminalisti della squadra omicidi inclinassero a ravvisare in ogni decesso un suicidio dovuto a circostanze tragiche, in città circolava insistente una diceria, che trovava eco anche nella stampa: “Tutta colpa della ”pupa verde,“ opera delle sue mani.” Niobe era gravemente sospettata di aver fatto trapassare dalla vita alla morte numerosi uomini e ragazzi. Si discusse senza fine; i giornali dedicarono un’apposita rubrica alle varie opinioni sul caso Niobe, liberamente espresse; si parlò di fatalità. L’amministrazione comunale parlò di superstizione anacronistica e dichiarò che non sarebbero state prese misure affrettate finché non fosse stato provato in modo inequivocabile che realmente qualcosa di anormale stava succedendo.
Così la figura di legno verde rimase anche in seguito nel Museo Navale al posto d’onore, poiché il museo provinciale di Oliva, quello comunale nella Fleischergasse e il direttore della “Corte di Artù” si rifiutarono di accogliere quella ninfomane forsennata.
C’era penuria di gente disposta a fare i custodi del museo. E non solo i custodi si rifiutavano di tener d’occhio la donzella di legno. Anche i visitatori evitavano la sala in cui si trovava la figura dagli occhi d’ambra.
A lungo regnò un profondo silenzio dietro le finestre rinascimentali che davano il necessario effetto di luce laterale alla scultura modellata a tutto tondo. La polvere si accumulava.
Le donne delle pulizie non venivano più. I fotografi, altre volte tanto invadenti (uno era morto poco dopo aver fatto una messa a fuoco della polena, di una morte che parve naturale, ma in cui si poteva anche vedere una significativa correlazione con la fotografia), non fornirono più alla stampa dello Stato libero, della Polonia, della Germania e perfino della Francia immagini al magnesio della scultura assassina, anzi distrussero nei loro archivi i precedenti ritratti di Niobe, e fotografarono da allora in poi soltanto scene dell’arrivo e della partenza di vari presidenti, capi di Stato e re in esilio, vivendo all’insegna di quello che di volta in volta capitava in programma: mostre di volatili, assemblee del Partito del Reich, gare automobilistiche e inondazioni primaverili.
Così rimasero le cose fino al giorno in cui Herbert Truczinski, che non voleva assolutamente più saperne di fare il cameriere né di entrare alla dogana, prese posto in divisa grigio-topo da custode di museo sulla sedia di cuoio accanto alla porta di quella sala che il popolino chiamava “il salottino della pupa.” Sin dal primo giorno in cui si recò al lavoro, lo accompagnai alla fermata del tram sulla Max-Halbe-Platz. Ero molto preoccupato per lui.
“Va a casa, piccolo Oskar; non posso prenderti con me.” Ma io, che avevo con me il tamburo, mi imponevo con tale insistenza agli occhi del mio grande amico, che Herbert disse: “Be, allora vieni fino al Hohes Tor. Ma poi torni indietro, eh?” Al Hohes Tor non volli scendere a prendere il 5, e allora Herbert mi lasciò venire con lui nella Heilige-Geist-Gasse; tentò ancora una volta di disfarsi di me eravamo ormai davanti al portone del museo – ma poi, visto che tutto era inutile, prese alla cassa un biglietto d’ingresso per bambini. Avevo bensì già quattordici anni e avrei dovuto pagare il prezzo normale, ma questo a loro che importava?
Fu una buona giornata tranquilla. Nessun visitatore, nessun controllo.
Ogni tanto battevo il tamburo per una mezz’oretta, ogni tanto Herbert si appisolava per un’oretta. Niobe guardava davanti a sé coi suoi occhi d’ambra e protendeva il petto verso una meta che non era la nostra meta. Poco ci curavamo di lei. “Tanto, non è il mio tipo,” disse Herbert.
“Guardatela un po, grassa come è, e col doppio mento.” La osservava tenendo la testa un po china da un lato: “E poi guarda le reni, sono come uno stipetto per due persone. Herbert è per le donnine, per quelle puttanelle che paiono bambolotte.” Ascoltai Herbert descrivere in lungo e in largo quello che era il suo tipo di donna, e stetti a guardare le sue poderose mani che impas tavano i contorni di una graziosa persona di sesso femminile, che è rimasta a lungo ed è ancora oggi, anche camuffata sotto la divisa d’infermiera, il mio ideale di donna.
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